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Inseguire i propri sogni significa spesso sacrificarsi, partire senza guardarsi indietro, riempire il bagaglio di paure e incertezze, non sapendo a cosa si va incontro. Lasciare la propria casa, i propri amici, la quotidianità col solo fine di inseguire un pallone e farlo anche in capo al mondo, perché quando quel cuoio impatta sullo scarpino il cuore batte realmente.
Ho avuto il piacere di intervistare un ragazzo che si è messo in gioco e che ha affrontato queste difficoltà per il solo desiderio di giocare a calcio, spingendosi fino all’America: Francesco Quintavalla, ventunenne di Parma che gioca oltreoceano per la Mercer University.
Ormai sono due anni che giochi a calcio in America, quali sono le più grandi differenze con l’Italia?
“È molto difficile paragonare le due realtà. Quando ero in Italia a 17 anni ho giocato in Serie D tra i grandi. La differenza maggiore è l’età. In Italia, le squadre non sono legate alle scuole e puoi trovare tutte le età mentre in America l’età rimane all’incirca la stessa e posso giocare, più o meno, con i miei coetanei.
E il livello di qualità dei giovani quale è?
“In America ho visto molti ragazzi forti e preparati anche rispetto ai miei amici che hanno giocato nelle giovanili del Parma. In America si trova una grande varietà di talenti da tutto il mondo, ci sono tanti ragazzi che provengono anche dalle accademie di grandi club (City, Liverpool) o addirittura dalle nazionali. Dunque il livello è molto alto se si parla di qualità dei singoli e si trova grande varietà di talenti”.
Pensi che il settore giovanile americano sia funzionale per produrre talenti? Non credi che il confrontarsi sempre con persone all’incirca della propria età possa portare ad una difficoltà nell’inserirsi nel calcio dei grandi?
“Sicuramente giocare con persone della propria età, non solo qui in America ma anche in Italia con le primavere, rende difficile il salto di qualità per arrivare nel calcio che conta. Se devo dare un consiglio è di giocare subito coi grandi, come ho avuto la possibilità di fare io, anche rischiando di giocare meno, ma avendo l’opportunità di ambientarsi e prendere il ritmo, l’abitudine, che abbinata alla qualità è imprescindibile per arrivare. Anche parlando dell’Italia, è meglio farsi due o tre anni in Promozione, Eccellenza, Serie D e poi provare a trovare spazio magari tra le primavere, piuttosto che partire fortissimo nella primavera di un buon club e avere poi difficoltà nell’inserirsi in prima squadra”.
Quanta attenzione c’è alla cura del corpo? Hai mai dovuto fare dei sacrifici per soddisfare le richieste del tuo club?
“No, non ho mai dovuto fare dei sacrifici importanti, c’è da dire che io punto tutto sulla qualità. C’è una frase che dice «tutte le menti intelligenti sono pigre» e se parliamo a livello calcistico reincarna il mio modo di essere perché faccio leva solamente sulle mie capacità. Generalmente tutti i numeri 10 sono un po' pigri e svogliati, se dovessi saltare una corsa ad allenamento lo farei volentieri. La parte più difficile a livello fisico è la preseason dove tra il caldo e gli allenamenti tutti i giorni la preparazione è davvero faticosa e stressante sotto tutti i punti di vista. La stagione è abbastanza breve, inizia all’incirca a metà agosto e finisce a metà ottobre, serve essere al massimo della condizione fisica. Oltretutto, se si arriva con un buon piazzamento al termine della regular season invece si continua per un mese e mezzo, tra playoff, finali ed eventualmente nazionali”.
E la tattica nei campi da calcio Usa?
“Abbiamo tantissimi allenatori. Ne abbiamo per i calci piazzati, per la parte difensiva, primo, secondo e preparatore tecnico. A livello di conoscenza però non li reputo pronti come in Europa; anche se a me piace molto il calcio lasciato a noi interpreti, i calciatori, che possano fare più la differenza. Qui in America è un po' come l’Nba, uno contro uno, chi è più forte risalta”
Raccontaci come funziona il campionato e la conseguente fase finale.
“Si parte con la regular season: un campionato composto da squadre di diverse regioni che competono per arrivare tra le prime quattro dello stato. In più l’allenatore ha la possibilità di scegliere delle partite solo per migliorare il ranking che potrebbe tornare utile nei sorteggi dei nazionali. Le prime quattro classificate degli statali vanno ai playoff, la vincitrice fa la finale del distretto (l’insieme di regioni) e la vincente dei distretti strappa un pass per i nazionali in cui si affrontano le 8 finaliste con 4 ripescate in base al ranking.
Dunque, come si può capire che il livello di difficoltà è in continuo crescendo, e anche solo riuscire a strappare l’accesso ai nazionali è un traguardo incredibile”.
La realtà americana permette ai giovani di concentrarsi sullo sport?
“In America la realtà scuola-sport è incredibile, non esistono al mondo altri posti che ti permettono di fare sport in questo modo. Lo studio rimane comunque di grande importanza, per giocare devi avere una determinata media scolastica. Ma, nonostante ciò, i professori sono super comprensivi e straordinari, come dovrebbe essere, al contrario dell’Italia dove lo sport viene spesso demonizzato in ambito accademico/scolastico. La scelta è stata facile sotto questo punto di vista. Studio per conseguire una laurea in Business e Sport manager e allo stesso tempo, tramite la borsa di studio, riesco a fare quello che amo e vengo anche pagato per farlo; dunque, non c’è paragone”.
Cosa ti aspetti dal futuro?
“Vorrei continuare a lavorare nel mondo nello sport; citando una famosa frase che dice «fai un lavoro che ami e non lavorerai mai un giorno»: questo è il mio obiettivo. Ho scelto questo percorso di studi per continuare a coltivare la mia passione e nel caso non dovessi arrivare giocando mi piacerebbe tanto fare lo scout o il dirigente sportivo. Non escludo anche altre cose, come ad esempio il procuratore per dare la possibilità a dei giovani di emergere con lo sport”.
Sei stato premiato più volte come miglior giocatore per la tua squadra, come ti sei sentito?
“Non corro troppo per i premi individuali, a me spinge la passione, il guadagno, non ci giro intorno, e l’ambizione personale. Ovviamente mi fa piacere, ma non scendo in campo con l'obiettivo di vincere premi individuali. Vivo per l’assist, vedere la felicità del mio compagno che segna su un mio passaggio mi rende più felice di segnare. Per quanto riguarda i goal ovviamente mi piace farli, ma segno quando c’è bisogno. Forse potrei essere più rigoroso nell’allenamento e nella voglia che ci metto, però credo che la qualità che ho sia di un altro livello rispetto a molti dei ragazzi che ci sono lì”.
Hai vinto quasi tutto ciò che può essere vinto al college, riportando, insieme ai tuoi compagni, la squadra ai Nazionali, appuntamento che mancava da nove anni, e riuscendo quasi a strappare un biglietto per la finalissima. Cosa è mancato secondo te? Come hai vissuto tutta l’esperienza delle fasi finali del torneo?
“Quello che c’era da vincere l’abbiamo vinto: gli Statali per due anni di fila, il Distretto con conseguente approdo ai Nazionali, che mancava da 9 anni e che non venivano vinti dal 2004.Quello che è mancato per vincere è stato a mio avviso la preparazione dello staff, e sicuramente è mancata un po' di fortuna perché siamo stati sorteggiati nel girone più difficile dei nazionali.
Per quanto riguarda me credo mi sia mancata un po' di fiducia nei miei compagni perché non ci credevo molto, ma guardando indietro credo che avrei potuto e avremmo potuto fare meglio”.
Raccontami della tua esperienza nelle fasi cruciali della stagione; come vengono gestite le fasi critiche dallo staff, dai calciatori, dai tifosi.
“Parlando dei tifosi non possiamo ignorare il fatto che il calcio in America sia in espansione, basti pensare all’arrivo di Messi, d’altronde come possono gli Stati Uniti non interessarsi al calcio? L’avvicinamento dei tifosi è in crescita, erano in diecimila alle semifinali dei Nazionali, un risultato storico. Per quanto riguarda lo staff tecnico l’approccio è stato molto sereno, c’era un clima diffuso di fiducia nei confronti dei giocatori. Forse ai Nazionali la pressione ci ha fatto uno sgambetto ma a livello generale non ci sono mai pesate le incombenze esterne”.
Un consiglio che ti senti di dare?
“Se posso darvi un consiglio, non paragonatevi agli altri, ognuno ha un percorso diverso. L’importante è l'obiettivo finale e non importa come ci si arriva, fate il vostro lavoro, con passione e costanza. Non abbiate paura di cambiare se vi trovate male e ricordatevi di non mollare”.
Autore
Giuseppe Serra