Capitolo 1) Prima cinta muraria
-Ti ricordi l'odore che c'era il primo giorno che sei uscito? Raccontami le tue sensazioni
La prima volta che sono uscito è stato per un permesso ottenuto tramite il corso di scrittura creativa, eravamo stati invitati in una libreria in Galleria Vittorio Emanuele. L'impatto con la realtà è stato straniante: dalla grata fitta del carcere guardavamo le auto in tangenziale, così passavamo il tempo. Ero abituato a vederle grandi quanto il letto di un'unghia, ma quando mi sono ritrovato davanti a una Fiat Punto, mi sono spaventato, sembrava gigante. Piazza Duomo era immensa, il Duomo mi sovrastava. In carcere gli occhi si abituano a distanze corte (molti per questo motivo hanno sviluppato forme di miopia o disturbi alla vista). La gente si muoveva in modo disordinato, mi dava fastidio quella maniera indisciplinata di camminare... a Opera invece era diverso, i detenuti procedevano a passo meccanico. In piazza ho visto ragazzi che si facevano i selfie, ma non sapevo né cosa fosse un selfie né cosa fosse uno smartphone: io ero rimasto fuori dal tempo. Il primo odore che ho sentito è stato quello del caffè in un bar, caffè buono, ricordo anche un rumore così dolce: i cucchiaini che tintinnano sulla ceramica è imparagonabile al frastuono delle spranghe di ferro che periodicamente colpivano le sbarre della finestra per assicurare che nessuno di noi avesse le manomesse: quella pratica veniva chiamata "battitura' è un rumore violento che non dimenticherò mai.
-Cos'hai fatto quel giorno?
Quel giorno sono stato premiato per le mie poesie, erano presenti anche i miei genitori, poi siamo andati in pizzeria... una maniera per familiarizzare con la realtà: le mie dita, sotto il peso delle posate d'acciaio, attorno al bicchiere di vetro e al piatto in ceramica, era una sensazione nuova per me che ero ormai abituato alla leggerezza insostenibile delle stoviglie in plastica.
-Si è mai sviluppata l'idea di cella come casa?
Sì, è successo. La cella era una casa, un posto sicuro. Seppur restrittiva, era diventata una sorta di "zona di comfort", l’unico spazio in cui mi sentivo di avere un’identità stabile, routine prevedibili e una paradossale forma di sicurezza. Quando sono uscito e sono tornato nella casa in cui sono cresciuto, durante la notte, avevo momenti di derealizzione, mi sentivo in un luogo estraneo: la prima notte mi svegliai di soprassalto cercando istintivamente la finestra con le sbarre. In quel tempo ero in affidamento dai miei genitori. Ero dentro anche quando ero fuori, tanto da provare disorientamento all’idea di lasciarlo.
-Potremmo dire che esistenzialmente, sia una risposta al bisogno umano di trovare "casa" anche dove sembrerebbe impossibile?
La mente cerca appigli: la cella, con la sua ripetitività e i suoi confini fissi, diventa luogo dove ricostruire un senso di sé. Quando accosti il blindo, quello spazio è il tuo mondo, indossi i vestiti da casa e ascolti ciò che il tuo compagno ha da raccontarti, quello stesso compagno che ami oppure odi: non ci sono maschere in quelle quattro mura. Lì passavamo i Natali e i Capodanni, le feste sono tutte brutte in carcere, però durante quei giorni potevi ordinare più cibo da cucinare e fare "socialità" con altri detenuti provenienti da un'altra cella.
-Non c'è la mensa in carcere?
No, passano con il carello ma il cibo è davvero davvero di bassa qualità e soprattutto di poca quantità. L'idea di avere dei fornelli da campeggio ti permette di cucinare e ottenere una piccola grande conquista di autonomia.
-Quando tutto è iniziato, qual è stato il tuo sogno ricorrente tra quelle mura?
Sicuramente appena entrato in carcere il sogno ricorrente era quello della libertà e dell'innocenza riconosciuta. Ho da subito compreso che dentro, tutto è un quesito: devi fare "la domandina" per qualsiasi cosa, dai permessi di colloquio con le persone più care che ti aspettano fuori, all'autorizzazione per fare la doccia. I miei sogni erano vere e proprie risposte alle domande che ponevo, ai miei bisogni.Poi andando avanti con il tempo, i sogni come plastica riscaldata, si sono contratti al campo ristretto del carcere e sognavo solo cose inerenti alla prigione.
-Sognavi mai la vita da uomo libero, fuori dalle sbarre?
La vita da uomo libero la sogni anche ad occhi aperti. Mi ricordo che per un periodo sognavo che il Magistrato accettasse i permessi richiesti per poter vedere la mia fidanzata con la quale avrei voluto costruire una famiglia (in carcere i colloqui sono permessi solo con i familiari più stretti), questa era l'eccezione che non sempre veniva accolta o ricevuta.
-In quanti eravate in cella?
Sono entrato in carcere a San Vittore in pieno sovraffollamento, per questo motivo sono stato risarcito dalla Corte di Strasburgo. Appena sono entrato mi hanno messo nella cella di sicurezza poi mi hanno spostato in una cella da due persone ma in realtà ne eravamo sei: immagina tre letti a castello di metallo sulla parete destra e tre letti a castello attaccato all'altra parete, tra i letti c'era lo spazio di un metro e mezzo e a chi fosse toccato il terzo letto in alto non avrebbe potuto nemmeno stare seduto per via del soffitto.Questa era la situazione nel 2010 a San Vittore in cui c'erano tre aree: la grande, la media e la piccola: la condizione delle nell'area piccola era quella di persone in piedi che non potevano nemmeno muoversi né camminare liberamente, urtarsi l'uno con l'altro era inevitabile. Non veniva considerata la normativa che stabiliva 3 metri quadrati di spazio calpestabile all'interno della cella. Sono stato addirittura in una cella che conteneva quattro persone ma alla fine eravamo in 12.
-Come gestivi l'intimità mentale?
Immagina una turca da condividere in 12 persone.L'intimità mentale cercavo di costruirla leggendo i libri, erano momenti di fuga interrotti spesso da esplosioni di rabbia da parte di altri detenuti di cella: ho visto litigare pesantemente anche solo perché un pacchetto di sigarette veniva appoggiato diversamente.Il livelli di tensione erano alle stelle,persino l'autoerotismo era una forma di seconda carcerazione che, in alcuni casi, ha provocato un blocco relazionale una volta fuori: non si aveva più confidenza con la sessualità, come fosse solo un atto meccanico. Ci è voluto tempo anche per me per ristabilire l'equilibrio: una carezza sul petto da parte di una ragazza mi sembrava un'invasione che mi graffiasse l'anima.
-La tua fidanzata?
Quando solo uscito dal carcere lei era già sposata con una figlia, ci siamo incontrati da amici. Un tempo ci amavamo moltissimo, quando io sapevo che mi avrebbero dato una condanna pesante, le feci un discorso razionale per concludere la nostra relazione e lasciarla libera... ma seduta stante, lei mi disse che mi avrebbe aspettato anche se mi avessero dato l'ergastolo. Questo mi ha fatto reinnamorare follemente di lei. Ma dopo un anno e mezzo, era già passata l'estate, durante un colloquio avevo capito che c'era qualcosa di diverso in lei: aveva incontrato un altro. Io la pensavo tra le sue braccia, è stato doloroso.
-Torniamo all'intimità mentale...
Si soffre psicologicamente in carcere, molti ricorrono a psicofarmaci per inibire la sofferenza mentale, ne diventano dipendenti e una volta fuori non hanno nemmeno un medico di base a cui rivolgersi che possa far fare loro un decalage; per questo motivo alcuni cadono nelle droghe che possano dar loro un effetto simile. Tornando a me, dopo un anno e mezzo, sono stato trasferito al carcere di massima sicurezza di Opera per detenuti con tanti anni da scontare, lì la cella è diventata mia casa... un luogo in cui lasciare andare anche le lacrime.
-Perché?
Sai, non puoi farti vedere fragile, questo è un dolore che si aggiunge al dolore: pensa che davanti ai miei genitori durante i colloqui trattenevo dolore, e questo fu un trauma per me, al colloquio fingevo che in realtà non mela stavo passando poi così male ma in realtà dentro ero distrutto. Prima e dopo i colloqui, da prassi la perquisizione, poi il tragitto per ritornare al mio piano lo percorrevo da solo con i miei pensieri: attraverso cancelli e metal detectors, non potevo mostrare le mie emozioni, poi una volta in cella potevo lasciarmi andare.
-Com'è l'empatia in carcere?
Tra detenuti si soffre insieme, si ride insieme; c'è molta empatia ma è celata da un muro di sofferenza. C'è rispetto in carcere: rispetto per chi prega, rispetto per chi soffre la mancanza di qualcuno; in carcere l'empatia si esplicita con lo sguardo (ndr) Se un detenuto si trova in una sofferenza particolare viene "guardato". Anch'io sono stato "guardato" dai miei compagni, perché è un attimo perdere la testa in carcere.
-Molto interessante: l'essere guardati in modo diverso e guardare chi soffre maggiormente è un modo per prendersi cura degli altri in carcere?
Sì, guardarsi tra simili che condividono la pelle, significa guardare con il secondo sguardo, quello del bene. Poi aggiungo che è anche un atteggiamento di silenziosa prevenzione, ripeto: perdere la testa in carcere è un attimo, combinare casini anche... autolesionismo e suicidio sono cose comuni in carcere.
-Il problema dell'Occidente è aver perso l'amore. L'individuo è un'invenzione occidentale: in realtà siamo un "noi" forse è per questo che siamo l'unica specie a capire la musica, perché la musica funziona solo quando siamo insieme e insieme risoniamo.Hai sperimentato questo tipo di risonanza dentro le mura?
Sì, specialmente per chi era davvero innocente come me, condividevamo lo stesso senso di ingiustizia.
-L'eccesso di dolore ha mai generato in te un convincimento di colpevolezza, nonostante fossi innocente?
No, mai. Piuttosto ha generato in me l'insonnia: ripensavo a quell'immagine, rileggevo le motivazioni della mia condanna che era "concorso anomalo in omicidio volontario", sono ritornato con la mente sul luogo dell'accaduto, mi facevo mille domande sul perchè avessi ricevuto una condanna simile; ero nel luogo sbagliato al momento sbagliato con gli amici sbagliati. La dinamica nella quale sono stato coinvolto è stata trattata pesantemente dai media Italiani. Ma mai, mai ho avuto il senso di colpevolezza. Quando sei innocente lo sei!
-Da chi era colpevole cosa hai imparato?
Dietro lo scenario più orribile c'è sempre un uomo che ha le sue debolezze.Ho imparato che non esistono persone sbagliate ma scelte sbagliate: una scelta può cambiarti la vita... ho imparato fondamentalmente che la manovalanza della malavita spesso è la povertà e la disperazione: basti pensare a tutti quegli uomini e quelle donne che trasportano droga da un continente all'altro all'interno del proprio stomaco per poche migliaia di euro mettendo a rischio la propria vita.
Capitolo 2) Seconda cinta muraria
-Che significato ha la cittadinanza e l'essere "cittadino" per te, oggi?Senti che ti abbiano davvero restituito la libertà, mettendoti nelle condizioni di poterla apprezzare ed esercitare?
Dopo aver scontato una pena da innocente, ho perso il diritto di voto: sai, per alcuni reati c'è l'interdizione ad temporum e per altri c'è l'interdizione perpetua, la mia è un'interdizione perpetua.
-Esulare un cittadino rieducato da un dovere civico, allontana! È terribile.Tra l'altro penso che chi abbia vissuto l'esperienza rieducativa carceraria, si avvicini molto alla politica e alle cose della res pubblica, perché ha vissuto per anni in un istituto pubblico.
Per questo, quando tu mi chiedi se mi sento libero, ti dico no, non mi sento pienamente libero: un ex carcerato dovrebbe essere incentivato, per quanto mi riguarda io non posso trovare un lavoro comunale o statale, né partecipare ad un bando pubblico, purtroppo ad ora non posso ancora espatriare, e una volta uscito ho dovuto trovare un lavoro da me...lo Stato ti libera dalle quattro mura ma ti tiene fuori dalla società.
-Tu hai subito delle perdite in quei 10 anni di reclusione?
Ho subito diversi lutti: il più duro è stato il lutto per la perdita di mia nonna è stato dolorosissimo, lei per me era come una seconda mamma, sono venuto a sapere della sua morte una settimana dopo l'accaduto. Non ho potuto dirle addio, ho solo pensato a lei impregnando le mura della cella di ricordi...
-Mi dispiace moltissimo, ricordare è come un po' morire, soprattutto quando ci si confronta con l'assenza e l'impotenza. In questo caso, la morte non è tanto "come" ma "dove"... e tu ti trovavi proprio bloccato in un "dove" in cui ti hanno condotto da innocente senza avere il diritto di onorare il ricordo di tua nonna.
Sai Maria Vittoria, dimenticare è molto più complicato dietro le sbarre: si hanno davvero pochi stimoli in carcere e quindi l'universo psichico tende a riproporre gli stessi pensieri in loop.
-Tu sei stato prima a San Vittore e poi sei stato spostato al carcere di massima sicurezza di Opera in provincia di Milano. Come immaginavi che fosse e com'è stato veramente?
Dal momento in cui mi hanno condotto in auto fuori dalla questura, ho iniziato a percepire le mura: nella vettura blindata non c'erano le maniglie, la portiera interna era tutta liscia, come un muro, come quello dell'aria che avrei scoperto una volta in carcere... La liscezza è un gergo in prigione c'è un tipo di isolamento chiamato "isolamento liscio"perché l'unica cosa che c'è sono le pareti e una telecamera che ti fissa.
-"Cos'è il muro dell'aria"?
Sono i muri che contengono l'aria, lo spazio aperto è l'aria. Era lo spazio esterno nel quale potevamo trascorrere due ore al giorno, due ore d'aria.
-Noi generalmente non diamo valore all'aria, la consideriamo come qualcosa di invisibile, invece sto capendo che nella mentalità carceraria, "l'aria" è visibile, ha una cubatura, ci sono muri che la contengono.
Nel gergo la chiamiamo "aria". I miei amici da fuori con una lettera mi raccontavano le loro avventure io rispondevo loro: "Oggi sono stato all'aria due ore" Tra detenuti ci si diceva:"Ehi oggi scendi all'aria?"; gli anziani invece lo chiamavano il "passeggio".Ma non c'era mai pienamente il Sole all'aria, c'era sempre una parte all'ombra, le mura venivano allungate dalle ombre che annerivano il suolo.
-Che impressione hai avuto la prima volta che sei uscito "all'aria"?
All'aria si camminava in modo diverso, sembrava un manicomio, alcuni andavano avanti e indietro altri giravano in tondo; all'inizio pensavo di essere in un manicomio poi ho iniziato a farlo anch'io ed era diventato normale camminare a cerchio.Immagina una scatola da scarpe grigia con mura altissime, un bagno fetido all'angolo, una panchina di cemento in fondo.
-Come varia il linguaggio in carcere?
In carcere si dicono pochissime parolacce e bestemmie pari a zero. La parola "infame" è tabù, perché significa: aver spedito qualcuno in carcere". Tuttavia inseriscono delle espressioni che nessuno capirebbe nel mondo, anche le guardie e i magistrati usano una lingua straniera, quella della "Signoria Vostra": un idioma burocratico che a volte non capivo: tutti i detenuti diventano fascicoli posati sul tavolo. Poi ci sono i lavori all'interno delle mura penitenziarie e allora a turno si diventa "lo scrivano" ,"lo scopino", " lo spesino" "il porta vitto" e delle volte anche "il cagnaro".
-Chi è il “cagnaro”?
È quello che in alcune carceri si prende cura dei cani, gli stessi cani da guardia che vengono slegati all'aria di notte.
-Eppure penso a carceri sperimentali, in Italia c'è il penitenziario d'avanguardia di Bollate che rieduca i detenuti con tassi di recidiva veramente bassi, rispetto a carceri tradizionali in cui si finisce per essere incattiviti anziché rieducati.
Esattamente, l'Italia non è proprio pronta per questo: Bollate è un carcere sperimentale ed è l'unico in tutta Italia, poi ce ne sono stati altri che hanno preso esempio da questo modello, ma Bollate è stato il primo a dare fiducia e a concedere diritti. È stato il progetto della dottoressa Castellano che è stata attaccata pesantemente e ostracizzata perché aveva in mente un carcere diverso dagli altri, in cui il detenuto non viene visto come un soggetto da punire ma come un umano da reinserire, da curare... aveva pensato ad un luogo che stesse al passo con sviluppi della società. Invece qui l'impatto con il carcere è fermarsi: dal momento in cui sono entrato, io mi sono fermato, il mondo fuori andava avanti.l'Italia mostra il tasso di recidiva più alto tra i paesi d'Europa, si stima intorno al 70%. I detenuti nelle carceri standard non sviluppano alcun tipo di senso di gratitudine verso l'Istituzione: tutto è una penitenza, persino le estati, trascorse a soffocare senza avere neppure i ventilatori posizionati fuori dal blindo.
-Che rapporto hai intessuto con il tempo? In carcere i tempi sono estenuanti. Tutto è così lento: quando sono entrato per la prima volta a San Vittore, era prima mattina e sono stato spostato in cella solo a mezzanotte.Ho camminato lentamente lungo i raggi della prigione con una dotazione di posate e bicchiere di plastica, uno spazzolino, un rotolo di carta igienica e una coperta di lana che mi ha infettato l'orzaiolo.Per liberarsi da un pensiero devi cambiare tu, perché ciò che è attorno a te resterà sempre uguale... dentro tutto è fisso, inchiodato al pavimento, non puoi spostare neanche il letto. Tutto è lento, anche le lettere scritte dal carcere impiegano una settimana ad arrivare...
-Quante lettere hai scritto dal carcere? Ho scritto poesie e tante lettere, all'inizio specialmente, perché hai la testa fuori ma con gli anni i tuoi pensieri si sagomano solo sul carcere, i sogni sono quelli del carcere.I primi mesi scrivi tutti i giorni, poi arrivi a scrivere una volta al mese e infine ti accorgi che la penna non va più...ed è solo doloroso continuare a scrivere dal carcere.
-"Mondo nuovo o mondo sbagliato"Cosa hai trovato dopo 10 anni di esperienza carceraria? Appena esci, comprendi che tutto è cambiato: il mondo attorno a me era diverso, come se si fosse aggravata una specie di malattia: l'indifferenza. Vedevo un mondo malato indifferente verso il prossimo, i rapporti sono sempre più a consumazione veloce. Se una persona è fuori rimane fuori. Milano fa tanto per i bisognosi, ci sono enti di volontariato e altri istituti solidali però sono sempre una minoranza; la maggior parte dei cittadini pensa con lo slogan: "Uomini deboli, destini deboli / uomini forti, destini forti".
-I bisogni sono gli stessi per tutti gli esseri umani: "libertà e sicurezza", ma i modi di soffrire sono diversi...Come hai sofferto la mancanza della libertà e della sicurezza?
Dopo 9 anni, finalmente ero in "Articolo 21": condizione di libertà di vigilata (ndr) in cui avevo la possibilità di uscire dal carcere, avere un posto di lavoro e un percorso predefinito di tram per raggiungerlo. Dalle sei di mattina alle 19:30 avevo un portafoglio e un cellulare.I colleghi erano simpatici, stavano nascendo delle amicizie ma non sapevano che ero un ragazzo in Articolo 21. Mi invitavano alle partite di calcetto dopo il lavoro e io mentivo dicendo: "non posso" ma in realtà avevo il solito tram e la mia cella.All'epoca sentivo una ragazza, ma visti i miei orari lei pensava fossi sposato perché non potevo più risponderle dalle 20 in poi.Io volevo fare parte della libertà ma non ce l'avevo. Questo generò in me frustrazione.
Capitolo 3) Terza cinta muraria
-Poi è arrivato il COVID, come hai vissuto quel periodo? Nonostante ci fossero degli aspetti frustranti, l'Articolo 21 ha determinato un tempo di piccola riconquista della vita vera. Dopo poco siamo entrati in pandemia. e dalla notte al giorno non siamo più usciti, siamo rimasti nell'area del carcere più spoglia e asettica, quella per chi, come me, sarebbe dovuto tornare in cella solo la sera. Siamo rimasti chiusi, impauriti e arrabbiati perché la morte che girava fuori, passeggiava anche dentro ed era in borghese, invisibile e letale.Quando in alcuni carceri ci sono state le rivolte spedivano le "squadrette" (ndr) delle coalizioni di guardie che sopprimono i disordini con la violenza.Non c'era sicurezza e neppure libertà.
-Siccome eri già in Articolo 21, presumo ti abbiano concesso un distaccamento
Sono stato uno tra gli ultimi ad essere spedito in affidamento, c'era ancora il lockdown e per strada solo gente ai margini, vite di scarto... Finii anch'io sulla panchina, questa fu la risposta alle ferite che mi portavo ancora sulla pelle.
-Come sei sopravvissuto mentalmente a più di 3 650 giorni di carcere, 10 anni?
La speranza che mi venisse riconosciuta l'innocenza attraverso le attese: il ricorso in appello e poi la cassazione...La lettura, leggere mi dava ali per evadere, leggevo intensamente, leggevo per poter esistere anche altrove, ma se con la lettura e la scrittura, raggiungevo leggerezza, non appena accendevo la TV in cella, mi imbattevo in quei programmi televisivi che fanno sciacallaggio sul dolore altrui e trattavano il caso in cui ero stato coinvolto da innocente: sentire i media pronunciare il mio nome, il mio cognome e commentare il mio viso, vivisezionando la storia di una persona attraverso il suo sguardo ritratto su una foto era terribile. Nelle dinamiche televisive, spesso davano in pasto al pubblico il giudizio, pubblico che sa solo applaudire... tutto ciò influenzava l'opinione pubblica e lo stesso atteggiamento di alcune guardie che, guardando le stesse trasmissioni, avrebbero poi inasprito il loro atteggiamento nei miei confronti. In primo grado di appello c'erano giudici popolari che avrebbero deliberato un giudizio, ma con l'ondata mediatica così pesante e infamante, mi chiedevo come avrebbero potuto essere imparziali nei miei riguardi. Anche la scrittura ha avuto la sua parte nel mantenimento dell'equilibrio mentale e ovviamente il rapporto con gli altri detenuti...e ce n'era uno come me, ma all'epoca, era totalmente diverso da me, l'ho incontrato verso la fine della mia carcerazione, avevo già subito tre lutti in quel lasso di tempo, quest'uomo si chiamava Mauro, lui era "l'apostolo Paolo" del carcere: parlava di Dio a chiunque, ne parlò anche a me e mi regalò una Bibbia.Il primo Salmo che lessi fu il numero 23... Lì si è accesa una scintilla.
-Una scintilla che ti sei portato fuori, ma qualcosa l'ha soffocata.
Sapevo che la mia identità fosse presa a pugni, schiacciata da un'ingiustizia magistrale, avevo tante ferite aperte che mi portavo dalla detenzione, allora è subentrato l'alcol a colmare quei vuoti, a "curare" quelle ferite; l'alcool è uno spirito che ingurgiti quando non hai più uno spirito tuo.
-"Un tango col vuoto" così definisci l'esperienza dell'alcolismo in una tua poesia
L’alcol è una danza obbligatoria col vuoto.All'inizio bevevo qualsiasi cosa contenesse alcol, ad esempio il Jack Daniel's era ottimo come spugna che pulisse la lavagna dei miei pensieri orrendi.Negli ultimi tempi era obbligatorio avere sempre un cartone di vino in mano per evitare le crisi d'astinenza. Poi collassavo su una panchina.
-Come ci si sente durante una crisi d'astinenza da alcol?
Le crisi d'astinenza di un alcolista sono simili alle crisi d'astinenza di un eroinomane.Un alcolista funziona come un auto: l'auto va a benzina, l'alcolista va ad alcol.Se l'alcolista non beve si blocca, ha tremori, spasmi e dolori muscolari, vomito e diarrea, la testa è una centralina impazzita e a ciò si aggiunge anche una tortura psichica intensa che fa insorgere crisi di panico violente. L'alcolista beve per non stare peggio ma quando lo fa, si sente colpevole e beve per dimenticare la vergogna di averlo fatto, fino a perdere coscienza.
Capitolo 4) Identità di pietra
-Dove hai trovato il coraggio di essere aiutato?Qual è stato il momento in cui hai pensato: "non posso andare più giù di così"?
Il momento click è arrivato quando ormai ero arrivato ad essere quasi un senzatetto, camminavo per strada sporco senza meta chiedendo l'elemosina e raccogliendo i mozziconi di sigarette per fumare. Ma la piccola scintilla di luce, che c'è sempre stata dentro il buio, ha iniziato a crescere in me.Dentro di me sentivo una voce che mi diceva:" ce la puoi fare!"; in quel momento ho scelto di pregare e farmi aiutare e mi sono inserito al NOA, da quel momento ho iniziato la disintossicazione.Dio sostituisce le tenebre con la luce!
-C'è sempre la luce, il buio totale non esiste mai!
Assolutamente sì, è così c'è sempre uno spiraglio di luce nell'anima, sta a te scegliere di alimentarla. Dopo la disintossicazione nonostante fisicamente fossi pulito, è iniziata la lotta mentale, dopo alcuni mesi di vera e propria agonia, mi sono arreso a Dio pregavo in ginocchio, sentivo dentro di me sciogliersi delle vere e proprie fortezze di paura e ansia; le persone mi prendevano per pazzo alle volte andavo in bagno di nascosto a pregare.I miei non sono credenti ma non possono negare il mio cambiamento.Non smetterò mai di dichiarare quello che Dio ha fatto per me. La Sua presenza ha mi ha concesso l'opportunità di dare forza e fiducia agli altri. Lì è iniziata la mia esperienza di volontariato a tempo pieno.
-Cos'hai imparato dal volontariato, come ti approcci a chi era come te?
Mi approccio con amore e con rispetto.Capisco che più viene marginalizzata la persona ai margini, più la si lascia cadere da sola.Ho notato che una persona con pregiudizi è goffa nell'aiutare.Il mondo ha bisogno di persone senza giudizio, perché il giudizio frena, rende goffa un'azione d'amore. Questo l'ho imparato da Gesù di Nazareth.Una persona con un pregiudizio non sarà mai davvero d'aiuto, ci sono farisei anche nel volontariato.
-Molto forte ciò che dici, io credo che un essere umano arrivi a non giudicare quando entra in contatto con la sua intrinseca fragilità, anche se non è mai caduto nell'alcolismo non ha mai fatto uso di droghe, tutti abbiamo un punto di tenerezza.
È così, ci vuole tenerezza anche nel pregare, io ad esempio dico per chi è ridotto come lo ero io:" Padre, se sta attraversando il suo proprio deserto per arrivare a Te, fa che sia breve".Io penso che Dio si manifesti in più occasioni, Lui è alla porta e bussa, ma noi non lo ascoltiamo e senza rendercene conto entriamo nel deserto.Io ho dovuto toccare il fondo, sporco in mezzo alla strada, chiedendo l'elemosina ma non mi bastava, avevo degli appigli, quando ho perso quegli appigli ho lasciato spazio a Gesù.
-Sai di essere una lettera aperta per tante persone che come te stanno vivendo ancora il deserto?
Tanti mi dicono che posso essere d'aiuto! Nel cuore io grido a Dio:" manda me!".Solo chi sa cosa voglia dire, può davvero essere d'aiuto, soprattutto per più giovani che con facilità si approcciano alla criminalità.Inoltre l'età degli alcolisti si è abbassata radicalmente, è triste ammettere che lo facciano per moda, per essere inseriti in un gruppo, la mancanza di identità ti porta a questo. Io sono una lettera aperta per questi giovani!
-In una tua poesia scritta ai tempi dell'alcolismo parli di "giornate fotocopia", com'erano?
Le giornate fotocopie erano un vero e proprio lavoro: la vita di un alcolista gira intorno all'alcool: la mattina mi svegliavo, bevevo per potermi alzare, una volta che riuscivo a stare in piedi, uscivo, se non avevo i soldi chiedevo l'elemosina e quando ottenevo un po' di soldi, compravo altro alcool e bevevo, bevevo bevevo, prendevo altri soldi e bevevo ancora e arrivava la sera... ero molto ubriaco, almeno cinque litri di vino in corpo; alla fine collassavo su una panchina e dalla mattina seguente si ripeteva il ciclo.
-Cosa succedeva la notte?
Dalle notti trascorse in strada ho capito che tutto si trasforma in una guerra tra poveri c'era chi ti poteva rubare le scarpe ma lo faceva perché le sue erano aperte.Ho anche subito prepotenze, chi beve è una larva debole. Quando ero per strada incontravo anche persone che si sfogavano su di noi che eravamo inermi sulle panchine. La cosa triste è che erano persone con casa e famiglia che, se litigavano con la propria moglie, se la prendevano con le persone più deboli. E quando il cuore della notte accelerava i suoi battiti e arrivava la mattina, noi eravamo ancora là, fuori come gatti con i segni delle lotte. Uno di quei giorni, fuori dal supermercato Pam ho incontrato mia sorella e lei quasi voleva far finta di non conoscermi e io ero lì con il cartone di vino in mano e la barba lunga. Il mio aspetto era quello di senzatetto ma la dipendenza nella quale ero caduto non me ne faceva rendere conto, l'alcol ti inganna non facendoti rendere totalmente conto di quanto in basso ti abbia trascinato.
-Mi verrebbe da citare il passo del Vangelo in cui Gesù disse al suo discepolo:" tu sei Pietro e su questa Pietra costruirai..."Quando ti guardi allo specchio, chi vedi?
Un uomo che ha visto il volto peggiore della vita e che grazie a Dio è riuscito a sopravvivere e a uscire dall'inferno in cui ero caduto. Ho ripreso in mano la mia vita ho ritrovato un lavoro, ho ritrovato la dignità e tutto questo grazie a Dio.Ieri dovevo aprire un PDF sul telefono e sbadatamente ho aperto l'app delle note, i miei occhi sono finiti su un elenco di obiettivi che mi ero prefissato e ho visto con grande stupore le spunte verdi che significavano: "traguardo ottenuto"; due anni fa mi sembrava impensabile essere tutto ciò che sono oggi: un uomo che ha vinto i giganti.
-Dopo ciò che hai vissuto cosa vuol dire per te porgere l'altra guancia?
Ci sono state situazioni in cui potevo vendicarmi di persone che mi avevano fatto veramente tanto male, sai cosa, ho scelto il PERDONO: ho perdonato chi una volta fuori dal carcere, vedendomi cadere nell'abisso dell'alcolismo mi ha deriso e ha messo in dubbio la mia ammissione d'innocenza. Ho perdonato gli amici che hanno voluto incontrarmi di nuovo solo per curiosità.L'altra guancia non è un'opzione, ma so che, su questo concetto, c'è un mistero da scoprire...
-Sai Pietro, Gesù disse:"Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra"Questo passaggio viene tradotto dal greco con un'impronta interpretativa che ne tradisce l'intimo valore.Nella mente di un ebreo dell'epoca era chiaro che volesse significare tutt'altro: infatti se un cittadino romano avesse colpito un ebreo con uno schiaffo, non lo avrebbe mai toccato direttamente con il palmo, ma bensì di rovescio, di sghembo, per sottolineare l'inferiorità dell'importunato in questione.In questo caso, l'ermeneutica biblica ci rivela la parafrasi corretta di questo versetto: pur rimanendo nella legge dell'amore, non permettere a nessuno di trattarti da non pari; porgere l'altra guancia è un gesto sfidante che reclama dignità! Vuol dire:"Se mi colpisci, dovrai farlo considerandomi come un tuo pari".E se consideri l'altro come un tuo pari, non lo colpirai mai!
È così, la legge è uguale per tutti, ma la giustizia non lo è; forse davvero "porgere l'altra guancia" è il segno di una nuova sfida per tutti coloro che sono costretti al silenzio forzato.
Autore
Mariavittoria Dotti