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“Oh eh oh, quando mi dicon’: ‘Vai a casa’
Oh eh oh, rispondo: ‘Sono già qua!’”
Queste parole cantate da Ghali in “Cara Italia” rappresentano il grido di un’intera generazione nata e cresciuta in Italia, ma figlia di immigrati. Una generazione che non chiede privilegi, ma riconoscimento.
C’è una ragazza. Ha vent’anni. È nata in Italia e ha sempre vissuto qui. Va all’università e ride quando le chiedono: “Ma ti senti più italiana o marocchina?”. Dietro questa domanda sembra che ci sia l’idea di non poter essere entrambe o, peggio, che deve scegliere. “Che domanda è?”, si chiede e così, in lei, scoppia una crisi d’identità, perché si sente troppo italiana per essere considerata marocchina in Marocco. Troppo marocchina per essere reputata italiana in Italia. È una fessura quotidiana in cui cadono migliaia di giovani che non hanno mai chiesto di essere stranieri a casa loro. Lei e tutti i ragazzi e le ragazze che si trovano in questo limbo crescono imparando che devono sempre fare di più rispetto agli “altri”. Perché? Perché sentono la necessità di dovere sempre dimostrare qualcosa, ovvero di meritare ciò che agli altri è stato concesso dalla nascita. È un sentimento comune tra loro, non vogliono deludere i genitori che hanno rinunciato a tutto per impedire che i figli non facciano la loro stessa vita. Cercano di diventare abbastanza buoni, abbastanza bravi, abbastanza “italiani” per non dover spiegare ogni giorno chi sono. Immaginatevi dover cercare di giustificare perché sono italiani, definire la loro identità ogni volta che pronunciano i loro nomi.
Poi è arrivato lui, Ignazio La Russa, Presidente del Senato, ovvero la seconda carica dello Stato, che ha invitato a non votare. Imbarazzante. Un invito all’astensione, non alla riflessione o semplicemente al dialogo, negando così un principio fondamentale su cui si basa l’Italia, secondo cui il popolo sovrano ha la possibilità di scegliere. E la politica, quando inizia ad avere paura del cambiamento, smette di essere democrazia. La Russa e i suoi compagni di merende non riescono ad accettare che l’Italia debba fare i conti con la propria identità multietnica e non può più rimanere intrappolata in un passato che, per fortuna, non esiste più.
La ragazza di prima si sente italiana perché oltre ad essere nata qui, pensa, sogna, litiga e ride in italiano. Ha però notato come la cittadinanza (presa senza problemi grazie a sua mamma, ma questo non significa che tutto vada bene), per lo Stato italiano sembra essere un qualcosa da guadagnarsi, magari con un comportamento esemplare o un’assimilazione silenziosa. Inoltre, in Italia, la cittadinanza è trasmissibile per sangue e non per nascita; quindi, un discendete di italiani nato all’estero la ottiene senza problemi automaticamente, a differenza di un bambino nato e cresciuto in Italia da genitori stranieri, che deve aspettare anni.
Ciò che le persone non capiscono è che per questi giovani la cittadinanza non è solo un documento: è una dichiarazione d’identità e di esistenza per chi è nato su un ponte tra due culture. Quel pezzo di carta serve per trovare equilibrio e serenità, perché da piccoli questa doppia appartenenza crea confusione e soprattutto rifiuto; ma crescendo si trasforma in una forma di ricchezza, in un senso di nostalgia per un luogo mai veramente vissuto, ma profondamente sentito.
Molto probabilmente il problema è che per alcuni basta sentire un cognome diverso per sentirsi minacciati, e così emerge la verità: usano il patriottismo come scusa per nascondere il loro razzismo, e grazie a questa loro insicurezza si nota come nemmeno loro siano in grado di definire cosa sia l’italianità. Si dimenticano di un aspetto importante: se questo Paese ha ancora un futuro, sarà grazie anche ai figli di immigrati nati in Italia.
Nonostante tutto:
“Oh eh oh, io T.V.B. cara Italia.
Oh eh oh, sei la mia dolce metà.”
Autore
Manal Rhanine