La sera del 10 agosto 2025, a Gaza City, un raid israeliano ha ucciso Anal Al-Sharif, giornalista di Al Jazeera, insieme ad altri suoi colleghi: Mohammed Qraiqea, Ibrahim Al Thaher, Mohamed Aliwa e Mohammed Al-Khalidi. La loro colpa è stata quella di documentare le azioni della volontà sionista di spersonalizzare la popolazione palestinese.
“La Repubblica” ha fin da subito ha etichettato Al-Sharif come “giornalista-terrorista”, trasformando così il giornalismo in propaganda Israeliana. Questo perché l’IDF non solo uccide i giornalisti, ma cerca di impedire la diffusione di una narrazione che denunci e testimoni i valori su cui si fonda l’unica democrazia del Medio Oriente, cioè la pulizia etnica e la soluzione finale come missione divina.
Non si tratta di una dinamica nuova, ma un caso in particolare ha segnato il mondo arabo: quello di Shireen Abu Akleh, giornalista palestinese cristiana, che è stata assassinata nel 2022 mentre riportava l’occupazione militare israeliana in Cisgiordania. La sua figura, amata e ricordata da milioni di persone, è diventata il simbolo dell’ipocrisia dei colleghi e dei media occidentali, del rischio e della violenza brutale a cui i giornalisti palestinesi sono esposti. Questo è il prezzo da pagare in Palestina se si vuole testimoniare la realtà dei fatti: la propria vita. Si diventa un bersaglio militare se si filmano madri disperate per l’uccisione dei loro figli, cadaveri sfigurati, ospedali colpiti ridotti in polvere…così funziona la macchina burocratica e militare dello sterminio.
Dal 7 ottobre ad oggi, secondo un’indagine svolta da Al Jazeera, sono stati uccisi oltre 278 giornalisti, un numero superiore a quello registrato in tutte le guerre contemporanee a noi. Per Netanyahu si tratta di semplici “incidenti causali”, ma quale altro Stato si è permesso di bombardare sistematicamente ospedali, luoghi di culto, scuole e civili? E quale Paese si permette di compiere un genocidio senza subire punizioni concrete? Ormai la credibilità e l’immagine di Israele sono irrimediabilmente compromesse non per l’antisemitismo, ma per questa inumana e immane tragedia, per questo progetto coloniale che ha distrutto anche lo spirito israeliano.
Il martirio di tutti questi giornalisti, si può dire che è diventato la voce di tutti, palestinesi e non. Erano la voce della libertà, della giustizia e della pace. Le loro parole e capacità di stare davanti a una telecamera riuscivano a dare speranza e a diffondere la realtà dei fatti, nonostante fossero stanchi, affamati, o in lutto come il giornalista Wael Al-Dahdouh, che durante una diretta ha scoperto dell’uccisione di quattro suoi famigliari. Hanno usato la loro voce per il proprio popolo e la propria terra, e ognuno di noi dovrebbe sentirsi ispirato da questi eroi per diventare la voce di Gaza. Non bisogna lasciare che l’assassinio di Anas, Shireen, né quello di tutti gli altri giornalisti sia stato vano. In questo modo la morte si intreccia con la sopravvivenza della memoria. Primo Levi, ne “I sommersi e i salvati”, parlando del campo di concentramento di Aushwitz, diceva che il rischio non era soltanto la distruzione dei loro corpi, ma l’annientamento della memoria stessa, ovvero l’indifferenza di chi non vuole ricordare.
“È avvenuto, quindi può accadere di nuovo”.
Questa frase vale anche per Gaza, perché l’uomo nonostante il passare degli anni non cambia radicalmente, e la storia, purtroppo, si ripete.
Autore
Manal Rhanine
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