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In questo mensile, come molti tra voi avranno già scoperto leggendo la nostra lettera editoriale, abbiamo deciso di riflettere sulla Felicità e sull’importanza della Salute Mentale. Due temi che, secondo noi, si intrecciano profondamente con la vita del protagonista di quella vicenda che vogliamo raccontarvi. Una storia oscura che ha inghiottito nel buio i suoi personaggi e l’intera Parma; e che continua ancora oggi a interrogare la nostra comunità accademica e civile.
Tutto ebbe inizio nel non lontano 2017 (noi facevamo il liceo), quando il milionario professor Guido Fanelli, allora primario di Anestesia all’Ospedale Maggiore di Parma e professore ordinario di Rianimazione – figura di spicco nel campo delle cure palliative ed estensore della Legge 38/2010 sulla terapia del dolore – venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta “Pasimafi”, condotta dai Carabinieri del NAS, insieme a numerosi medici e dirigenti di aziende farmaceutiche. L’accusa ipotizzava l’esistenza di un sistema strutturato di corruzione, riciclaggio e comparaggio farmaceutico: Fanelli, secondo gli inquirenti, tramite società a lui riconducibili, avrebbe ricevuto molto denaro da alcune aziende in cambio di sponsorizzazioni di studi, congressi e attività scientifiche. Vennero sequestrati beni per circa 1,7 milioni di euro, tra cui conti, beni mobili e immobili e (secondo la versione mediatica allora prevalente) anche lo yacht che avrebbe dato simbolicamente il nome all’inchiesta. Parallelamente, l’indagine si estese ai presunti concorsi universitari “pilotati”, a cui avrebbero partecipato candidati favoriti in cambio di compensi illeciti, con Fanelli che era in posizione chiave come presidente di commissioni esaminatrici.
Ma nel corso del procedimento l’intero impianto accusatorio subì un colpo decisivo: il 30 marzo 2022 il Tribunale dichiarò inutilizzabili le intercettazioni telefoniche e ambientali del 2017–2018, sulla cui base si poneva l’accusa che, senza quelle intercettazioni, risultò profondamente indebolita. Tanto che, il processo relativo ai concorsi universitari, si concluse il 14 settembre 2023 con l’assoluzione di tutti gli imputati, compreso Fanelli. Il collegio giudicante ritenne che non vi fossero elementi sufficienti a provare l’abuso d’ufficio, poiché le intercettazioni -eliminate dagli atti- costituivano l’unica base accusatoria.
Contestualmente, dopo l’assoluzione degli imputati e il ridimensionamento delle accuse, il Tribunale dispose la restituzione a Fanelli dei beni precedentemente sequestrati, per un valore complessivo di circa 1,7 milioni di euro.
La vicenda giudiziaria, tuttavia, non può dirsi del tutto conclusa nemmeno oggi. Negli anni successivi al 2023 sono infatti emersi nuovi elementi e segnalazioni relative a possibili irregolarità amministrative e gestionali, in particolare riguardanti la gestione di master universitari e delle relative quote d’iscrizione. Tali aspetti, ad oggi (dicembre 2025), sono oggetto di verifiche da parte degli organi competenti, ma non hanno ancora prodotto sentenze definitive.
È in questo contesto d’indagini e tribunali che si colloca una tragica chiamata, che squillò in notte buia di primavera:
“Anto, io sto per uccidermi. Prendi le chiavi di casa, troverai un foglio sul tavolo. È l’ultimo favore che ti chiedo.”
È il messaggio rivolto al suo collaboratore e amico, Alberto Nouvenne, dal ex rettore dell’università di Parma Loris Borghi, che il 14 marzo 2018 si toglie la vita sotto un ponte di Baganzola, a pochi passi dal suo appartamento.
Ma chi era Loris Borghi?
Nato a Palanzano (PR) il 15 febbraio 1949, Borghi si laureò in Medicina e chirurgia nel 1974, conseguendo successivamente le specializzazioni in Medicina interna e in Biochimica e Chimica clinica. Professore ordinario dal 2000, fu preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dal 2005 al 2012 e direttore del Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale. Dal 2013 al maggio 2017 ricoprì la carica di rettore dell’Università di Parma. Il 15 maggio 2017 si dimise a seguito dell’indagine Pasimafi, che lo vedeva coinvolto con l’accusa di abuso d’ufficio.
Le indiscrezioni della stampa locale descrivevano un presunto intreccio tra medici e case farmaceutiche fatto di favori e denaro. L'inchiesta si chiuse con 87 indagati e 16 aziende coinvolte. Borghi, in realtà, era del tutto estraneo al troncone principale del fascicolo: veniva sfiorato solo da un’ipotesi di abuso d’ufficio relativa al presunto favoritismo verso Massimo Allegri, ricercatore considerato vicino a Fanelli.
Secondo gli inquirenti, alcune intercettazioni telefoniche sarebbero state rilevanti. Nel giugno 2015, il rettore Borghi avrebbe scritto a Fanelli:
“Bisogna chiamare Allegri, in modo che lui sia qui, non più semplicemente in virtù della legge Gelmini, ma definitivamente all’Università di Parma.”
Borghi, effettivamente, si interessò alla procedura, ottenendo dal Consiglio di amministrazione il via libera al trasferimento.
La notizia dell’indagine lo spinse a rassegnare le dimissioni:
“Avrei potuto addurre motivi di salute, visto il mio recente infarto del miocardio. Ma non lo farò. Non lo farò perché ho sempre insegnato ai miei allievi la passione per l’Università, per la medicina, per le professioni, per l’uomo e per l’etica... La vera motivazione è che sono scese ombre su chi rappresenta l’Università, e l’Università non può attendere se e quando tali ombre si dilegueranno.”
Ma quelle ombre così lunghe sulla sua vita provenivano solamente dalle indagini?
Già nel 2014 la Procura parmigiana aveva aperto un fascicolo su un presunto abuso d’ufficio nato da un esposto ai NAS, poi trasmesso alla Guardia di finanza e all’Autorità anticorruzione, che archiviò la segnalazione. Secondo l’accusa, Borghi avrebbe favorito la nomina della sua ex allieva Tiziana Meschi alla guida del reparto di Medicina interna e lungodegenza, motivata – secondo i detrattori – da un rapporto di “convivenza”.
“È un attacco politico,” replicava Borghi.
La stessa Meschi, al suo fianco dal 1986, negava ogni rapporto extralavorativo. Venne archiviata; Borghi invece sarebbe dovuto comparire all’udienza preliminare del 10 aprile 2018. Ma il 14 marzo, un mese prima, si tolse la vita. I processi si estinsero.
Il giorno successivo, molti espressero cordoglio, ma alcune parole risuonarono più delle altre: quelle del rettore Paolo Andrei, suo successore, che denunciò pubblicamente il peso psicologico, la solitudine e l’abbandono vissuti da Borghi:
“Una vita umana si è spezzata, e non per cause accidentali o naturali... Tra le ragioni del gesto estremo c’è stato certamente anche il senso di abbandono che lo ha pervaso, a seguito dell’indifferenza dei molti che, dopo le dimissioni, lo hanno dimenticato e, talvolta, oltraggiato.”
Andrei, poi intervistato dal Foglio, fu ancor più esplicito:
“Era una vicenda marginale... provavo a incoraggiarlo, ma lui era letteralmente prostrato. Soffriva la pressione della stampa e un senso generale di abbandono. Gran parte della comunità accademica, alla quale aveva dedicato la sua vita, lo aveva già condannato.”
A chi erano rivolte, davvero, queste parole?
Crediamo che tutta questa vicenda, se osservata a ritroso, quando i suoi protagonisti erano solo giovani pieni di entusiasmo e ideali, nasca da un obiettivo nobile: la ricerca della felicità, pubblica e privata. A nessuno, alla fine, è stata imputata una colpa penale. Ma la deriva è evidente. Da quel sentimento nobile che anima ogni giovane studente è scaturito un percorso che, nel caso di Borghi, è giunto fino all’estremo gesto.
Come cittadini e come studenti dell’Università di Parma, crediamo che questa sia una storia su cui è necessario fare chiarezza, per evitare che in futuro possano nascere nuovi ricatti, sospetti o scandali all’interno di un’eccellenza quale è l’Università degli Studi di Parma, uno degli atenei più antichi d’Europa. E, soprattutto, per impedire che si ripetano quegli errori che, forse legati al giustizialismo, forse connessi davvero ai reati, hanno portato alla morte di un uomo importante del mondo accademico di questa città.
Nelle sue dimissioni, Borghi disse anche:
“Non vi è dubbio che nel fare ho commesso errori, ma una cosa è certa: io e l’Università non abbiamo avuto nulla a che fare con ciò che è emerso dall’inchiesta Pasimafi... Nella mia vita non ho mai rubato un euro, mi sono sempre comportato come un servitore dello Stato.”
Chiediamo che si compia un’autentica operazione di trasparenza e legittimità, anche e soprattutto in nome di Loris Borghi.