“Nessuno che vi sorvegli, nessuno che vi opprima!” diceva Bertolt Brecht in Vita di Galileo, riflettendo sulle ingerenze del potere nei percorsi della conoscenza.
Le sue parole rimangono attuali, soprattutto quando i più grandi organi che producono sapere dipendono economicamente e sono costretti dalle mani dei potenti. E’ così che si è arrivati al conflitto tra le maggiori università americane e il governo statunitense. Nel corso dell’ultimo secolo queste istituzioni hanno sviluppato un legame strettissimo che ha permesso un veloce progresso scientifico in tutti i campi dal dopoguerra in avanti. Le università - si parla delle Ivy League, le migliori del paese, come Columbia, Harvard, Yale, Brown, Princeton, Dartmouth - pur essendo istituzioni private hanno accettato miliardi di dollari di investimenti federali; così hanno potuto crescere, creare tanti poli di ricerca, seguire ospedali e progetti, ma facendolo sempre a condizioni esterne a loro.
Durante il 2024 molte di queste facoltà, che ospitano i più grandi pensatori di tutto il mondo, sono state attraversate da proteste, occupazioni e rivendicazioni da parte del corpo studentesco per denunciare il genocidio in corso a Gaza e tagliare le relazioni con aziende e progetti di ricerca che lo supportano. E’ successo lì come anche in tanti altri paesi europei e del mondo. Gli interessi degli studenti sono stati mostrati davanti agli occhi di tutto il pianeta - la canzone di Macklemore Hind's Hall prende il nome da un plesso della Columbia così rinominato dagli studenti in onore di Hind Rajab, bimba palestinese uccisa da Israele - ma quello del suo benefattore più grande, il governo americano, sì è poi fatto sentire di conseguenza. In particolare l’amministrazione Trump recrimina alle università una rinascita di antisemetismo e un’indottrinazione ideologica; su queste basi ha tagliato i fondi federali.
Le risposte sono state diverse.
La Columbia, dopo la minaccia di tagli fino a 400 millioni di dollari se non avesse ridotto la libertà di espressione e protesta nel campus, ha ceduto. Ha posto il dipartimento di studi mediorientali sotto la sorveglianza di un organismo federale, poi ha vietato l’uso delle mascherine per proteggere le identità di chi protesta e ammesso la polizia nel campus universitario per arrestare gli studenti. E molti sono stati gli arresti e le deportazioni, tra cui ha ricevuto particolare risonanza mediatica il caso di Mahmoud Khalil.
Harvard non si è invece piegata alle richieste del governo e quando ha visto tagli di fondi fino 2,7 miliardi di dollari ha reagito con una causa legale contro l’amministrazione. La risposta è stata di nuovo netta: il governo statunitense ha revocato la possibilità per Harvard di ammettere studenti internazionali, perciò non è più possibile per l’università sponsorizzare le visa J, F e M, i permessi di soggiorno per motivi di studio.
Lo scontro contro le università e soprattutto la loro componente “non americana” si iscrive in un contesto più ampio di fermi e deportazioni per tutti gli “illegal aliens” presenti sul suolo americano.
Dall’inizio del mandato di Trump, la linea è stata fissa e irremovibile su questo: chiunque non fosse cittadino o residente legale negli Stati Uniti non ci poteva stare. Anche la campagna mediatica è stata forte, le operazioni non si sono certo svolte al buio, dai video delle persone prossime alla deportazione in catene, alle foto nel carcere di massima sicurezza di El Salvador dove ora molte si trovano (non tutte, anzi molte, con giusti motivi, come Kilmar Abrego Garcia). Si sono moltiplicati gli arresti a studenti che avevano preso parte alle proteste contro il genocidio a Gaza, che ne avevano scritto o parlato. Ma tanti altri sono stati i casi di persone prelevate dalle strada a qualsiasi ora del giorno o della notte perché il loro status di residenza era messo in dubbio; si tratta soprattutto di persone razzializzate, quindi latine o afrodiscendenti.
Chi si occupa di questo? Si tratta di ICE (Immigrations and Customs Enforcement), un’agenzia federale - riceve dal governo 8 miliardi annui, per avere un metro di paragone - che si occupa di confini e immigrazione, che sta arrivando a colpire sempre più persone seguendo la linea del governo di rimuovere qualsiasi persona illegale. Lo sta facendo sorprendendo chi si reca ad affrontare il colloquio per il permesso di soggiorno, separando famiglie e andando ad arrestare anche bambini e ragazzi (un esempio qui).
Il malcontento rispetto a queste politiche è sempre più diffuso, anche in centri storicamente più allineati ai repubblicani. In questi giorni è specialmente la California che, di nuovo, sembra bruciare. La protesta contro l’ICE è iniziata a Los Angeles il 6 di giugno: la manifestazione pacifica si è subito fatta più tesa a causa dell’intervento della polizia e, più avanti, quando il governo federale ha chiamato circa 2000 truppe della Guardia Nazionale (i riservisti dell’esercito) e i Marines a intervenire. Da quel momento si sono moltiplicati gli arresti dei manifestanti, le aggressioni anche verso la stampa ed è stato imposto un coprifuoco (dalle 8 di sera alle 6 di mattina).
Il governatore della California, il democratico Gavin Newson, si è opposto all’intervento della Guardia Nazionale, iniziando una causa legale contro l’amministrazione Trump: “Donald Trump’s violation of the U.S. Constitution is an overstep of his authority” [La violazione della Costituzione da parte di Donald Trump oltrepassa la sua autorità].
Intanto le manifestazioni contro le deportazioni continuano in altre città, come Austin, Washington D.C., San Francisco, Dallas, Denver, Philadelfia, Seattle, Boston, New York, Chicago. La situazione, e il clima di tensione, sono lontani dall’essere risolti.
Seguendo la stessa linea, tra il 14 e 15 giugno, le proteste nelle principali città americane hanno assunto un nome differente: No Kings. E’ un aperta e diretta denuncia al forte autoritarismo che il presidente ha esercitato dall’inizio del suo mandato, convogliato nella giornata del 14, quando si è tenuta una parata militare in onore dei 250 anni dell’esercito e - casualmente - del compleanno di Trump. Questa coincidenza insomma non è passata in sordina, anzi, ha solo dato una motivazione maggiore al malcontento dei cittadini, espressa nella frase “No Kings in America” (qui un reportage).
Tra i due eventi della giornata di sabato quello organizzato dal presidente è sicuramente stato molto più scarsamente partecipato, se pure la spesa pubblica per la realizzazione sia stata tra i 18 e i 33 milioni di dollari - stanziamento interessante da un governo che si affanna a tagliare qualsiasi spesa.
Intanto quest’anno è il decennale dall’uscita del musical Hamilton, uno dei più grandi successi della storia americana recente, amatissimo in ogni angolo del paese. Il tema è storico, si narra la nascita del paese dopo l’indipendenza dal re dalla prospettiva di uno dei suoi padri fondatori, Alexander Hamilton. Questo personaggio, insieme a tutti gli altri fautori degli Stati Uniti, sono rappresentati sul palco solo e strettamente da uomini neri o latini e una delle frasi più note dello spettacolo è “Immigrants, we get the job done!”.
Ancora una volta le persone vanno in una direzione che non è quella dei loro rappresentanti eletti e il distacco tra il potere e il popolo continua ad allargarsi nel paese.
tra le fonti utilizzate:
By Alan Blinder Trump Has Targeted These Universities. Why?
https://edition.cnn.com/us/live-news/la-protests-ice-raids-trump-06-11-25
https://www.ilpost.it/2025/05/22/trump-vieta-iscrizione-studenti-internazionali-harvard/
BBC News Mass protests against Trump across US as president holds military parade
Autore
Clara Dall’Aglio