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“Primavere asiatiche”. “Gen Z protests”. Non avete idea di quanti giornali nazionali e testate private, europei o meno, stiano ingozzando i propri lettori di questi termini. Effettivamente, ci dimostrano come si suole parlare dei fatti di Hong Kong e dello Sri Lanka; del Bangladesh, dell’Indonesia e pure del Nepal. Qui e là, ci si è ridotti a questo, a riciclare etichette così fuori posto, lontane dalla vera natura degli eventi. Inchiodando le infinitesimali coscienze dell’altro mondo, quello dei Dannati della Terra, al surreale muro digitale della semantica post-verità. Sono un simbolo dei nostri bisogni, o almeno di come vengono interpretati e manovrati dal sistema d’informazione corrente. Ma soprattutto, queste etichette sono la prova tangibile di un determinato modo di pensare che pervade insistentemente il discorso mediatico, l’istruzione, il dibattito politico e la cultura. Al di sopra di questa costruzione permane, sovrano, il Senso, il Significato; la Teleologia. Dunque, il lupo perde il pelo ma non il vizio. Mi riferisco a chi scrive e a chi ascolta. In genere, entrambi i ruoli hanno effetti cruciali sulla metabolizzazione di un evento. La trappola è sempre la stessa vecchia bestia: il rischio di ingabbiare l’avvenire all’interno di categorie prefabbricate, inducendo una spirale senza via d’uscita; una profezia che si autoavvera. Ma l’ormai tradizionale immagine di una generazione Z inerme di fronte agli eventi e svogliata nell’eterno torpore dei social media sembra annullarsi quando si volge lo sguardo alle piazze. Per esempio, in Nepal, obbedendo alla profezia di Gil Scott-Heron, la rivoluzione non è stata “televised” ma piuttosto “live-streamed”. Per non parlare del fatto che hanno eletto il Primo Ministro su Discord, giusto qualche giorno fa. Detto così sembra un meme, lo so. Ma è pura verità. Tutti abbiamo visto le immagini del Singha Durbar, palazzo del governo e sede del Parlamento, in fiamme. Tutti ne abbiamo sentito parlare. Su Instagram e TikTok, alla velocità della luce. Ma in quanti saprebbero riassumere in breve il perché tutt’un tratto i giovani abitanti del Paese delle Himalaya di cui mai nessuno parla hanno scelto l’aperta sedizione, la strada della lotta antigovernativa?Se davvero volessimo delimitare tutto ciò in maniera arbitraria, si potrebbe cominciare dal 2019. Centinaia di migliaia di persone si riversano per le strade di Hong Kong a manifestare contro un atto esecutivo che faciliterebbe le estradizioni dalla città-stato — ex colonia finanziaria della Corona britannica — verso la Repubblica Popolare Cinese. La lotta contro il centralismo del PCC, e la conseguente imposizione di un verticalismo giudiziario pesantemente impregnato di autoritarismo, assume molto presto le caratteristiche tipiche di un movimento pro-democratico e tendente all’orizzontalità. Resistenza urbana contro l’inesorabile erosione delle garanzie e delle libertà che tradizionalmente hanno garantito agli abitanti di Hong Kong un margine di sovranità invidiabile, data la posizione geografica e politica della regione circostante. La scusa è abbastanza buona (e pericolosa) da spingere il PCC a scagliare il tallone di ferro sulle piazze: nel luglio 2020 l’imposizione di una legge di sicurezza nazionale cinese scavalca le autonomie decisionali dell’esecutivo di Hong Kong, distruggendo ogni speranza di rivalsa. I media occidentali affogano i fatti. Mi riferisco agli stessi giornali, media outlet e influencers che fino al giorno prima parlavano dei protestanti come “bastion of freedom” (BBC), gli stessi che hanno trattato i fatti in maniera bipolare e retorica e che ne hanno decretato lo status di “notizia stanca”, lasciando scivolare uno dei più imponenti sommovimenti di piazza degli ultimi dieci anni nel nulla mnemonico. Per non parlare della selezione delle immagini, la scelta di chi intervistare e rappresentare pubblicamente, la minuziosa attenzione alle parole utilizzate: tutto ciò emana un sentore di strumentalismo, ricorda che dietro ad ogni rappresentazione della realtà c’è sempre un ideologia in atto e potenza. Quasi 100.000 persone lasciano Hong Kong nel giro di un anno, a migliaia vengono arrestati. Tutto finisce nell’oblio molto presto, vista la velocità con cui gli eventi si susseguono di fronte ai nostri occhi, e la facilità con cui possiamo distogliere lo sguardo. Il che rende il tutto ancora più interessante, a mio avviso, non appena ci si accorge che i medesimi strumenti digitali di tutti i giorni, quelli che prendiamo per scontato, sono la chiave di questi fatti: Instagram, Reddit, Telegram, etc.“Primavere asiatiche” come definizione ricalca palesemente questo genere di idiosincrasie, che siano deliberate o meno. L’ipotetico parallelismo che vorrebbe stimolare fa riferimento alla miriade di avvenimenti che hanno investito il mondo arabo-islamico nel corso degli anni 2010 e le cui conseguenze faticano ancora a scivolare nel dimenticatoio. Forse qui la memoria storica “a breve termine” fa meno cilecca, in particolare grazie al precipitato contemporaneo che va a formarsi con i fatti in Palestina e in Yemen. Il che rende veramente conto della condizione critica a cui è giunta la sfera liberale: non riesce a distogliere lo sguardo dalla cima mentre scivola lungo le pareti. Senza troppi giri di parole, viviamo una crisi della verità: come diceva Eschilo, in guerra il primo agnello sacrificale è proprio lei, la Verità, la Rivelazione; Alétheia, come la chiamavano gli antichi. E il mondo dei segni, dei significati e dei media non è esente da tale barbara logica. Unicità e chiarezza vengono massacrate ogni giorno, ad ogni ora, dai titoli della stampa, dai grandi proclami su Instagram; dall’irrinunciabile ripetersi di tali sistemi interpretativi. Se ciò non bastasse, il mondo è tutt’altro che post-ideologico, a mio avviso. Siamo ancora impregnati di direzioni, di aspettative, di linee temporali e progressive da seguire. E nella rappresentazione della guerra — intesa a larga manica come qualunque forma di conflitto tra due o più gruppi di persone mossi da motivazioni contrastanti e/o oppositive — ciò risalta ancora di più: si radicalizza. Forse, in parte, è ciò che tentava di dire Chakrabarty in Provincializzare l’Europa sollevando la doverosa questione: come puoi liberarti dal passato coloniale; dall’ineguaglianza distributiva; dalle carenze economiche dovute ad esso; da quello strano senso di “ritardo rispetto a-” se continui ad immaginarti nei medesimi termini lasciati in eredità dall’oppressore? Da chi dobbiamo liberarci? Magari guardando i fatti d’Asia potremmo sentire la brezza alzarsi, soffiandoci contro la buona novella. Eppure, si rinnega perennemente la struttura gerarchica del sistema mediatico, non soltanto sul piano interno della concorrenza ma pure nei rapporti verso quell’esterno che suona allo stesso tempo così alieno e così noto.Nella camera obscura delle immagini fraintese, gli esempi servono a capire quanto facilmente si confonde la rappresentazione con il rappresentato.Sri Lanka, luglio 2022. Crolla l’economia, il carburante scompare, blackout generalizzati per tutto il Paese, le piazze ghermite sotto l’imperativo della sopravvivenza. Un’altra “Primavera”? Gotabaya Rajapaksa, presidente democraticamente eletto, fugge mentre su TikTok spopolano immagini di manifestanti che razziano la residenza del Capo di Stato. Un po’ come con Assad in Siria, quasi un anno fa. Cosa rimane di tutto ciò nella coscienza collettiva occidentale? Chi se lo ricorda? Chi c’era? Ma soprattutto: perché?E poi: la Rivoluzione di Luglio, nel 2024, demolisce l’amministrazione autoritaria di Sheikh Hasina, responsabile di una degenerazione antidemocratica che ha sconquassato il Bangladesh per 15 anni disseminando corruzione, omicidi e ingiustizie. Gli studenti si infuriano, il sistema premia solo i fedelissimi, i favoriti. Iniziano ad ammazzare; intendo i poliziotti, iniziano a sparare sulla folla, a manganellargli il cranio fino a fracassarglielo. Qua in Danimarca ho conosciuto un ragazzo del Bangladesh, si chiama Niloy. Una sera stiamo bevendo una birra e mi mostra una foto: un uomo a braccia aperte osserva gli agenti di polizia, attende con provocazione lo sparo. Scopro che si chiamava Abu Sayyed. Scopro anche cos’è successo. “L’hanno martirizzato”, mi dice Niloy, “ma io non ero lì, avevo già lasciato il Paese per studiare mentre i miei amici morivano per la libertà”. Una rivoluzione cambia tutto, anche le persone. Non sono più le stesse di prima, qualcosa di diverso glielo puoi leggere in fondo agli occhi. Pure a Niloy che l’ha vissuta a distanza questa “guerra”, attraverso i messaggi degli amici, le notizie dei parenti. E ora cosa resta? Che ne sarà del Paese, tutt’ora retto da un governo provvisorio in attesa delle prossime elezioni a febbraio? Potrei andare avanti con le proteste antigovernative dello scorso agosto in Indonesia oppure con le migliaia di persone che stanno protestando nelle Filippine, questo mese. Non vi sto offrendo una qualche incestuosa lente interpretativa. Non mi permetto nemmeno d’essere così arrogante. Piuttosto, mi apro alla provocazione.Ma siamo nella posizione di poterlo dire, noi che tanto vantiamo le nostre istituzioni, che cosa significano questi eventi? Noi, dico noi, che ci agghindiamo di tante belle parole sul diritto umanitario e il valore della vita? Ciò che mi chiedo è se in casi come questi la definizione “Gen Z revolution” restituisca davvero un immagine autentica ed esente di narrazioni potenzialmente fuorvianti. Esattamente come tante altre definizioni, categorizzazioni e tanto altro. Certamente anche nelle etichette mediatiche, così come nell’aspetto quantitativo della copertura giornalistica, esistono conflitti di serie A e di serie B; vittime che contano di più o di meno. Gli stessi giornali, dotati di tutti gli strumenti utili a poter cercare un compromesso tra la natura intricata del mondo umano e il bisogno di incassare sui calori “stagionali”, se ne fregano altamente di tutto ciò. “Primavere asiatiche”. Mi sembra di vederci da una parte un’indole eurocentrica — nel voler delimitare rivoluzioni di strada, cambi di regime e guerre civili dietro la mera e disonesta definizione di “risveglio collettivo” (da cosa?) — e dall’altra una mancanza d’onestà (e di preparazione) giornalistica ed accademica che inevitabilmente plasma l’opinione pubblica su certi fatti. Il che è ancora più assurdo quando pensiamo agli insegnamenti ricevuti a scuola sulle pietre miliari della storia delle nostre libertà (aggiungi: occidentali). C’è sempre quella puzza sottostante di superiorità, di pregiudizio retrogrado e razziale, parzializzante e mancante di raziocinio. Un sottosuolo di abitudini inconsce che ci spingono a concepire ciò che succede dall’altra parte del mondo come scontato, di poca importanza, “già visto”. Prevedibile. Facilmente comprensibile. D’altronde, nel mondo post-verità l’identità scala l’apice delle priorità — non solo politiche. Questo genere di interpretazioni cedono volentieri ad una pulsione altalenante tra lo “scontro delle civiltà” e il “villaggio globale”, tra l’essere “in via di sviluppo” e il “progresso politico”. Il cosmo liberale ha sempre amato questo genere di strumenti teoretici, dotati di precise funzioni teleologiche che vanno a scremarsi con così tanta facilità tra le “consonanze cognitive” delle masse odierne. Diluiscono con tanta facilità le complessità umane attraverso la lente irrazionale che così tanto sta avendo successo, soprattutto nel discorso politico. Si potrebbe, anzi, dire che è proprio questo il fulcro del discorso: l’idioma istituzionale viene bastardizzato, l’informazione resa consumistica, il cittadino/consumatore rincoglionito fino al midollo. Pensiamo ad un esempio più vicino, a qualcosa che non è successo ai margini dell’informazione ma piuttosto nel cuore totalizzante dell’Impero: Charlie Kirk. Ero in cucina a cazzeggiare con i miei coinquilini e a farmi una pasta quando uno se ne esce fuori con il video in cui sparano a Kirk, lo stesso che ha fatto il giro di mezzo mondo; lo stesso che, sono sicuro, avrete visto anche voi. Gli sparano e pensiamo che sia finto. Poi si scopre esser vero. Tempo qualche ora tutti hanno un opinione precisa a riguardo, tutti sanno chi è Kirk, pure chi non si è mai guardato neanche un minuto di dibattito, neanche un fotogramma della sua faccia prima dell’assassinio e della conseguente circolazione della notizia. Dirò solo che oggi è evidente: l’approccio mediatico si conforma ad un’etica depotenziante, arrogante e rischiosa, soprattutto per chi consuma senza calibrare le informazioni ricevute.Quindi, come chiedeva Chernyshevsky: Che fare?Siamo spezzati, tra l’essere funzionali e l’essere empatici. Io dico che bisognerebbe alzarsi dal divano del nevrotico, quello del brain-rotting quotidiano, dell’otium privato d’ogni possibilità virtuosa. Per quanto vi spaventi, il mondo è caos puro e l’esperienza umana gravita attorno i molteplici poli di questo ammasso di nomi, cose, volti, eventi. Non potete scapparne se non rifugiandovi ancora una volta dietro definizioni immobilizzate nel tempo e talmente paradossali da costringervi ad annullare il vostro intelletto.Forse, e dico, forse bisognerebbe lasciare il divano del nevrotico e ricominciare a passeggiarci in questo casino; a compiere quella che Deleuze chiama la “camminata dello schizo”. Il contatto con l’esterno manca all’interno di queste dinamiche, non possiamo negarlo. Ci toccano trasposizioni di fatti che a loro volta vengono trasposti attraverso innumerevoli filtri sensoriali, digitali, che lo si voglia o meno. Magari capire che conscio e inconscio rimangono una nostra responsabilità, in fin dei conti. Che il consumatore sta compiendo una scelta, e questo non può proprio negarlo nessuno. Pensare fuori dagli schemi vuol dire distruggerli. Zizek lo spiega chiaramente: il distacco dall’ideologia è violento, impetuoso. Da una parte accettiamo di essere arrabbiati contro il sistema che ci sfama, dall’altro non vogliamo radunare le energie necessarie per poterlo cambiare. Ma per poter costruire un sistema di rappresentazione (ormai indispensabile) che ci permetta di comprendere al meglio ciò che succede non possiamo continuare così, brancolanti nelle vecchie sicurezze.Iniziate a camminare, son sicuro che vi farà bene. Ad occhi aperti, mi raccomando. A mente lucida.
Autore
Nicholas Contini