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Per poter dare una risposta meno superficiale dovremmo andare a fondo, prenderci il tempo di capire e, insieme, riavvolgere il nastro.
Oggi lo facciamo con Jules Ricci, attivista nonbinary e presidente di Ottavo colore.
Per parlare di pride è bene tornare indietro: qual è il momento focale che ha acceso la prima scintilla?
Per le prime scintille guardiamo sicuramente agli Stati Uniti, a Stonewall, grande rivoluzione che è stata definita anche da una delle sue protagoniste, Stormé DeLarverie, una rivolta, un atto di disobbedienza civile, di rottura rispetto alle oppressioni subite dalle persone LGBT+ (c’era ancora invisibilizzazione delle persone asessuali e aromantiche e bisessuali).
Prima di Stonewall, ci sono state altre azioni di disobbedienza statunitensi, da parte di persone che non potevano più essere schiacciate sotto il tacco, o la scarpa, dell’oppressore. Siamo negli anni del maccartismo - intorno agli anni 50 del Novecento - in cui vigono ancora le politiche degli anni ‘30 che vietano il crossdressing, ovvero indossare abiti o avere espressioni appartenenti a un genere diverso dal proprio. In questo periodo la “polizia del buon costume” fa ronde e manda pattuglie nei locali. Una prima scintilla si accende nel 1959 con la rivolta alla Cooper Do-nuts, poi nella Compton Cafeteria, nel 1966: ma quando la polizia arriva una delle “queens” - donne trans qui elemento del disturbo - decide di opporsi versando loro addosso del caffè bollente.
Queste azioni di rivolta hanno portato alla formazione dal basso delle prime reti di servizi per la comunità transgender ancor prima di Stonewall.
I primi passi sono stati mossi, ma il fuoco non è ancora stato appiccato.
Passano tre anni e la notte tra il 27 e il 28 giugno 1969 allo Stonewall Inn, un bar di New York: lì qualcosa cambia, un grande movimento sta prendendo forma.
La rivolta parte dalle persone, specialmente quelle del Village, persone transgender, sex worker, lesbiche butch, persone povere, senzatetto, non bianche, non incravattate ma ai margini della società civile. Poco dopo una delle protagoniste, Marsha P. Johnson dirà: “Finalmente la rivoluzione è arrivata”. La scintilla è scoppiata proprio da chi stava ai margini; già il movimento per i diritti civili afroamericani aveva creato un terreno fertile per farlo accadere. Ma ancora siamo lontani da una intersezione delle identità, da battaglie che ne contemplino le sfaccettature.
Lo Stonewall Inn é un locale molto frequentato dalla comunità del tempo e ha connessioni con la mafia. Per questo motivo la libertà è maggiore: si può ballare con persone dello stesso sesso, ci si può vestire come si vuole. Quella notte, durante una retata della polizia, Stormé DeLarverie - donna lesbica butch e drag king - reagisce sferrando un pugno contro un poliziotto e spinge anche le altre e gli altri a ribellarsi. Lo fanno, con tutto quello che possono. C’è chi parla di scarpe o mattoni lanciati, chi di molotov. La verità è che in quel momento si può mettere a ferro e fuoco tutto, perché alla violenza si deve rispondere con una rivolta, le persone non hanno nulla da perdere. Vogliono vivere la loro vita in libertà, “come out” dagli armadi e dall'assimilazione sociale.
Ma chi guiderà il movimento dopo le tre giornate di lotta del 1969 sono spesso persone oscurate dalla storia, perché non assimilabili alla narrazione e all’immagine pura che la comunità nel tempo ha voluto trasmettere.
Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera, la prima autodefinitasi drag queen e la seconda una donna trans, sono presenti allo Stonewall Inn, ma diventano decisamente scomode per un movimento ancora molto LG e moderato. Insieme formano una collettiva, STAR (Street Travestite Action Revolutionaries), rivolta a persone senzatetto e giovani trans cacciat* di casa che il resto della comunità LGBT+ non è solita accogliere.
Partendo da questo contesto, come arriviamo al primo pride?
Il pride è inizialmente una marcia di celebrazione per i moti di Stonewall tutto fuorché moderata, è ideata, creata e guidata nel 1970 da Brenda Howard, una donna bisessuale, poliamorosa e kinky, molto lontana dall’immagine che alcuni vogliono per il movimento e per questo in seguito invisibilizzata.
Un paio d’anni più tardi, nel 1973, nel Christopher Street Liberation Day - il primo nome del pride - Sylvia Rivera porta la voce delle persone marginalizzate, razzializzate e evidenzia questo oscurantismo all’interno di quel movimento che sempre più combacia con la logica del #loveislove. (foto)
Nei decenni successivi, le battaglie sono portate avanti da altri collettivi e azioni rivoluzionarie, come quelle di ACT UP (Aids Coalition To Uphold Power), che si muove contro le discriminazioni legate ad HIV e AIDS, per la sensibilizzazione e per riempire il vuoto normativo e assistenziale lasciato dal governo.
Anche in Italia questo vuoto è spiazzante. Come si sviluppa il movimento LGBTQIA+ nel nostro paese?
È fin dall’inizio frammentato, perché il contesto italiano è profondamente diverso. Non ci sono leggi che criminalizzano esplicitamente le persone queer nemmeno durante il periodo fascista. Alcune soffrono l’internamento o il confino, ma niente avviene alla luce del sole: legiferare sul tema vuol dire ammettere l’esistenza di queste persone. “In Italia sono tutti maschi” dice Mussolini.
Nel 1960, a Brescia, un’inchiesta relativa a convegni di natura immorale tra giovani uomini porta sulle pagine dei giornali i primi accenni alla comunità.
È lo scandalo dei “balletti verdi”, in cui “balletti” indica la natura sessuale dello scandalo e “verdi” il colore del fiore di garofano che dall’epoca di Oscar Wilde era associato agli intellettuali.
Non c'è una risposta unitaria dalle persone queer italiane, che per la prima volta entrano in contatto con i moti di Stonewall grazie ad Angelo Pezzana e la sua libreria Hellas a Torino, nei primi anni 70. Qui si trovano libri della stampa estera, tra quelli omoerotici e quelli della generazione beat, ma anche riviste statunitensi che parlano degli eventi accaduti oltreoceano. Così iniziano i dibattiti.
Nel 1971 un punto di svolta è la pubblicazione su La Stampa di una recensione a Diario di un omosessuale dello psicoterapeuta Giacomo Dacquino intitolata L’infelice che ama la propria immagine. L’articolo parla di terapia di conversione; Pezzana e gli altri rispondono creando, nel 1972, il F.U.O.R.I.
Si riprende l’idea del coming out, ma la sigla significa “Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano”. Avrà un suo giornale e da lì a poco si formerà anche un’altra compagine, il F.U.O.R.I. Donna, che tratta di attivismo lesbico e adotta un linguaggio più politico. Ma è un’organizzazione ancora molto rivolta a soli gay e lesbiche.
Quando avviene la prima grande manifestazione in Italia?
Siamo al 5 aprile 1972. A Sanremo si svolge un convegno di sessuologia, in cui si parla tanto di terapie di conversione, di persone omosessuali come non normali, infelici, malate. In Italia la rivolta parte allora dalla depsichiatrizzazione e depatologizzazione delle persone LGBTQ+. Si organizza una manifestazione abbastanza contenuta, di circa una quarantina di persone, insieme ad altri nuclei queer del resto dell’Europa, in cui i presenti sfilano con cartelli con scritte come “Psichiatri, venite fuori che vi curiamo noi”. Una troupe della tv di stato immortala questi momenti in video. Intanto, dentro al convegno si introducono altr* attivist* con fialette puzzolenti, spingendo a un pronto scioglimento dell’assemblea.
È il primo momento in cui il F.U.O.R.I. rende vero il suo nome, per ricordarlo ad aprile è stato istituito il LGBT History Month italiano.
Anche in Italia alcun vengono negli anni invisibilizzat* e dimenticat* dalla stessa comunità.
Mariasilvia Spolato è una militante lesbica e femminista, con una carriera avviata nelle scienze matematiche. Ha tanto da perdere ma non esita a partecipare alle piazze di quegli anni: l’8 marzo 1972 si presenta con il cartello “Fronte di Liberazione Omosessuale”, una sezione del F.U.O.R.I.
È la prima donna lesbica dichiarata in Italia, paga per le sue azioni e per la sua visibilità con la perdita del lavoro e della casa.
Della sua storia, oggi, parla il podcast Prima e il film Io non sono nessuno.
Il 1972 è un anno florido di battaglie, che si portano dietro l'eredità dei movimenti studenteschi e operai della fine degli anni Sessanta. Quali sono gli altri momenti che ci portano alla situazione attuale?
Nel 1979 viene creato il MIT (Movimento di Identità Trans) da Pina Bonanno, Marcella di Folco, Porpora Marcasciano, e altra attiviste trans “pioniere” in Italia. Il MIT avrà basi a Roma, Milano, Firenze, Torino; oggi mantiene come unica sede la sua base di Bologna.
Marcella Di Folco sarà la prima donna trans a ricoprire una carica pubblica in Italia, nel consiglio comunale di Bologna. Diventa nota internazionalmente per questo. Al World Pride del 2000 è il MIT tramite lei, Porpora Marcasciano e altre ad invitare Sylvia Rivera.
Nel 1979 non ci sono leggi sull’affermazione di genere o sul cambiamento dei documenti, le prime saranno del 1982. Questo cambiamento arriva grazie a manifestazioni e azioni della società civile, che costringono lo stato ad ascoltare. Una nuova modifica del 2015 non rende più obbligatoria l’operazione per accedere alla rettifica dei documenti, ma ancora c’è tanto da fare, tanta strada da percorrere; in Italia, ad esempio, le persone non binarie non hanno la possibilità di avere un riconoscimento legale sui documenti.
Come si configura il movimento dopo Sanremo e cosa permette a leggi, come quella del 1982, di essere scritte?
Dopo il 1972 si aprono due strade, da una parte una più antisistema, legata alle collettive, all’arte, al mondo drag e lontana dalla logica partitica; dall’altra una che sceglie di entrare nella politica, nei luoghi di potere, per essere parte dei processi decisionali.
All’inizio del decennio successivo un’altra azione chiave: la rivolta delle piscine, in Piazzale Lotto a Milano nel 1980. Quindici donne trans si presentano in topless, in quanto nei loro documenti compariva ancora la “M”. È un’azione per denunciare la mancanza di un riconoscimento legale delle persone trans portata avanti dal MIT e la sua presidente Pina Bonanno, con l’aiuto del Partito Radicale, a cui molte persone queer parteciperanno a partire da quegli anni. Ma non per tutte le soggettività è così semplice entrare nelle aule del potere, assimilarsi alla società, quella binaria e borghese che le compone.
La violenza è alta, ne è un segnale il delitto di Giarre, omicidio di due giovani gay, “ziti”, in Provincia di Catania. Questa volta la risposta è unitaria e di lì a poco viene fondato il primo circolo Arcigay.
Oggi quando pensiamo al pride non possiamo fare a meno di guardare all’impatto dei brand, spesso sponsor, che lo accompagnano.
Si parla di marketizzazione o a volte di rainbow washing ed è tanto difficile quanto importante vagliare le motivazioni delle aziende private che supportano la manifestazione, quale sia la loro etica. Sarebbe infatti impensabile per persone queer che lottano contro l’oppressione accettare sovvenzionamenti da chi in primis la pratica, ad esempio supportando economicamente lo stato di Israele.
Si può poi parlare di comunità LGBTQIA+ al plurale, perché tante sono le identità e le esperienze che andrebbero considerate, nel tentativo di tenere insieme diritti civili ma anche sociali, come quello al lavoro e all’abitare. L’immagine che a lungo tempo si è data cercava invece di essere il più possibile vicina a quella della “famiglia del mulino bianco”, ma è una narrazione escludente e restrittiva per molte persone, per prime proprio quelle che hanno iniziato il movimento.
È importante guardare all’oggi è capire che le condizioni non sono le stesse di Stonewall o del 1972, ma ce ne sono altre: l’Italia è al primo posto in Europa per transicidi secondo ILGA Europe. Di violenza contro persone, soprattutto donne, trans abbiamo sentito parlare anche poche settimane fa, all’inizio del mese del pride.
È vero che “ormai il pride non serve più a niente”, che “i diritti ci sono”? Cosa porti in piazza oggi?
L’unico diritto oltre alla legge 164/82 è l’unione civile, a livello di diritto di famiglia è niente più che una convivenza di fatto.
Vorrei che tutte le persone potessero vivere la propria identità liberamente, senza dover fare per forza coming out che è un atto politico ma pur sempre personale e deve essere fatto in sicurezza.
Vorrei che ci fossero le condizioni per cui io non debba chiedere “E’ possibile qui la carriera alias?” “Questo è un ambiente sicuro?”, vorrei fossero normali e scontate, dal bar vicino a casa alla grande multinazionale.
Vorrei che le persone trans potessero respirare, vivere una vita bella e degna di essere vissuta, vorrei vederle invecchiare e non doverle piangere.
Vorrei che non ci fossero persone minorenni che muoiono per transfobia di stato (sì, quando le politiche pubbliche non esistono e non tutelano, l’odio è una responsabilità di stato).
Vorrei che le persone presenti al pride o l’8 marzo lo siano anche al Transgender Day of Remembrance (20 novembre) o al Trans Visibility Day (31 marzo).
Vorrei quella stessa visibilità anche per il 14 luglio, la giornata di visibilità per le persone non binarie.
Vorrei che come persone non binarie avessimo il riconoscimento legale perché esistiamo anche se la società non ci vuole vedere.
E quindi il pride serve ancora, lottare serve ancora , finché non ci sarà la liberazione per tutte le soggettività. Se lotti per i diritti civili come il matrimonio devi anche farlo con la stessa forza per i diritti sociale, come il diritto all’abitare.
Il referendum di poche settimane fa ci parlava di riforma della cittadinanza; questa riguarda anche le persone LGBTQ+, in quanto non tutte sono bianche o cittadine italiane.
C’è ancora tanto da fare, come avere procedimenti burocratici più veloci, la fine dei CPR (Centri Per il Rimpatrio) che violano la dignità umana, un rafforzamento e riconoscimento delle reti dei centri antidiscriminazione nei territori, riforme del codice dell’immigrazione, politiche inclusive per il diritto all’abitare, politiche contro le barriere architettoniche e sensoriali…
Un’altra persona darebbe risposte diverse, per questo è prezioso ascoltare più voci LGBTQIA+ possibili.
Le esperienze sono tante e variegate, cambiano quando si intersecano ad altre discriminazioni come razzismo, abilismo o classismo. Si dovrebbe cambiare tutto il sistema, quando questo non riconosce le esistenze e non cerca di proteggere tutte le soggettività.
Ottavo colore è un'associazione di Parma che nasce nel 2007, con il focus di lottare contro le discriminazioni verso le persone LGBTQIA+. Si muove sempre in un’ottica intersezionale con progetti di educazione non formale. Nasce e rimane un’associazione del territorio per il territorio, che crea spazi di libertà per le persone che ne hanno bisogno. Fa parte del Centro Antidiscriminazione LGBTQIA+, Un Arcobaleno Per Parma.
Il pride è stato creato dalle persone per le persone. Ci vediamo in piazza!
Autore
Clara Dall’Aglio