Apro La Repubblica e leggo: “L’11 settembre 2025, un ragazzo di soli 14 anni, vittima di bullismo, si toglie la vita. Il suo nome era Paolo Mendico.”
Solo il titolo mi stringe il cuore, mi fa chiudere le palpebre e bloccare il respiro. Nel Lazio, più precisamente a Latina, una porta non si apre: dentro, in una cameretta, c’è un ragazzino che non vuole più uscire. Non può scappare da una stanza così grande, da un dolore così profondo e da un male terribile. Così decide di fare la cosa più sconvolgente per chi lo guarda da fuori e per chi lo ha sempre amato: si suicida. Mette fine alla sua esistenza, nella più assoluta solitudine, riflessa dentro di sé. Scappa da solo da una vita agonizzante che non poteva più sopportare.
Ma il bullismo parte da lontano.
“Paolo amava portare i suoi capelli biondi molto lunghi. Dopo i primi quattro giorni di prima superiore hanno cominciato a chiamarlo Paoletta, femminuccia e Nino D’Angelo” racconta la madre, Simonetta La Marra, stringendo i pugni e con gli occhi pieni di lacrime.
Il giovane aveva appena terminato il primo anno di scuola superiore, ma i problemi erano iniziati già alle elementari. I genitori presentarono una denuncia ai carabinieri perché Paolo fu aggredito da un compagno che, armato di un cacciavite di plastica, diceva di volerlo ammazzare. Alle medie ebbe vari problemi con i professori, che i genitori denunciarono più volte verbalmente.
Fino al primo anno all’istituto tecnico “Antonio Pacinotti” di Fondi, i genitori si fecero sentire con diverse richieste d’aiuto alla scuola, che però non fu mai capace di affrontare il problema, nonostante le numerose segnalazioni. È proprio nelle scuole che si innescano certi meccanismi dai quali è difficile uscire. Se fosse stato più protetto da professori o dirigenti, se Paolo non fosse stato abbandonato da chi avrebbe dovuto educarlo e sostenerlo, forse oggi sarebbe ancora con noi.
In questi giorni, ai microfoni di un giornale locale, ha parlato la dirigente dell’istituto frequentato dal ragazzo. Lo ha descritto come un alunno sereno, aperto, sempre alla ricerca di confronto con insegnanti e personale scolastico. Ma io mi domando: com’è possibile che nessuno si sia accorto di quel ragazzo che subiva bullismo fin dall’inizio dell’anno? Principalmente per il suo aspetto fisico, tanto da costringerlo a tagliarsi i capelli biondi lunghi per essere lasciato in pace.
Se Paolo è stato vittima di violenza psicologica e fisica per mesi, senza che nessuno facesse nulla, significa che la classe era vuota, la scuola che avrebbe dovuto proteggerlo era priva di presidi e attenzione. Non trovo altra spiegazione. Un’istituzione così importante è stata complice, per anni, di un problema interno che non ha mai voluto affrontare davvero.
Il bullismo è un problema serio. Secondo i dati Unicef, il 15% dei giovani è vittima di violenze fisiche e online. Il cyberbullismo colpisce il 20% di ragazzi e ragazze. E nonostante l’Italia sia stato il primo Stato europeo a riconoscere il fenomeno, ancora oggi si muore, e non si riesce a fare nulla. Si lasciano morire i ragazzi, come se fosse una cosa già scritta.
In tutti gli istituti frequentati da Paolo tutti conoscevano la sua situazione, ma negli anni non è cambiato nulla. Per lui e per la sua famiglia il bullismo è diventato una zavorra, che alla fine si è presa tutto: non solo i suoi capelli biondi, ma anche la passione per la musica, per la pesca col padre e per la cucina. Paolo era un ragazzo pieno di amore e passioni, diverso solo perché voleva vivere a modo suo. Quando però non riusciva più a farlo, la sua felicità svaniva.
Quando ti senti recluso e non vedi una luce, inizi ingiustamente a credere che il problema sia tu.
A giugno di quest’anno, Paolo ha affrontato un nuovo ostacolo: venne rimandato in matematica. Andava molto bene a scuola, e per questo chiese spiegazioni alla vicepreside, che interpretò la sua richiesta di chiarimenti come una lamentela. Fu l’ennesima dimostrazione di come le figure adulte con cui cercava un contatto reciproco gli voltassero ancora le spalle. Da lì, anche con i genitori le cose cambiarono: Paolo si chiuse in sé stesso, non parlava più, la madre poteva solo sentirlo piangere, senza poterlo raggiungere. Poco dopo arrivò la scelta di farla finita.
Ieri si sono celebrati i funerali. Solo un compagno di classe era presente. Forse sapeva, ma non è riuscito a salvarlo. O forse era uno dei tanti complici del suo dolore. Oggi però tutta Italia parla di lui, e la sua storia risuona come un inno di denuncia.
Ora non resta che aspettare, abbracciati nel dolore, che vengano individuati i colpevoli. Qualcuno deve pagare per la perdita di un giovane con un mondo davanti, ma che, purtroppo, se n’è andato da solo.
Il fratello, Ivan Roberto Mendico, ha scritto al governo e rivolto un appello al ministro dell’Istruzione Valditara, che nelle ultime ore ha chiamato il padre per esprimere vicinanza e solidarietà, assicurando che sono già in corso ispezioni: dalle prime violenze subite alle elementari, fino all’ultimo istituto frequentato.
“Chiedo giustizia e tutela per i giovani, serve una cultura della prevenzione” ha scritto Ivan. Vuole che la morte di Paolo non sia relegata al buio come quella di tanti altri ragazzi, ma che la sua storia diventi un esempio concreto nella lotta al bullismo.
Qualcosa deve essere fatto. Quante giovani vite devono spegnersi prima che si affrontino seriamente queste situazioni in tutte le scuole d’Italia?
La morte di Paolo non è solo l’ennesimo fallimento della scuola italiana, ma dell’intera società.
Ed è così che voglio terminare questo articolo: dando pieno sostegno al messaggio di Ivan Roberto Mendico, appellandomi anch’io alle istituzioni, nella speranza che, prima o poi, si faccia davvero qualcosa. Perché il problema è sotto gli occhi di tutti ed è una sfida cruciale.
E voglio stringermi, anche solo con le parole, alla famiglia Mendico e a tutte le famiglie che hanno perso un figlio, un nipote o un amico per colpa del silenzio di chi avrebbe dovuto proteggerli e della violenza di chi avrebbe dovuto accoglierli.
Autore
Massimiliano Rossetti