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Nell’era della complessità, in cui celata dietro ogni virgola, tecnicismi e periodi contorti l’ombra del complotto e della manipolazione propagandistica terrorizza chi, nel frattempo, è diventato incapace di leggere il mondo, occorre, forse, tornare alla linearità. Alle frasi semplici e inconsapevolmente esaustive di chi alla scuola dell’infanzia conosce la pace meglio di noi tuttologi, coltiva senza saperlo i piccoli semi di una spontanea cittadinanza globale, e non iper-locale - e ipermetrope - come quella a cui sembriamo essere silentemente condannati. Tesorieri di valori, idealisti assoluti, imitatori creativi e sagaci inventori, nemici del compromesso e insieme amanti delle seconde possibilità: i bambini, senza pretesa alcuna, potrebbero insegnarci ciò che abbiamo scordato vivendo.
Non ho le competenze per imbastire un testo di geopolitica o di diritto internazionale. Neanche lontanamente. I soli argomenti che posso portare, nella mia sensibile ignoranza, sono argomenti umani. Di fronte alle tragedie del presente, alle ingiustizie e ai dolori disumani, mi appello all’empatia, che in questo nostro mondo luccicante in cui il benessere procede a braccetto con l’egoismo, sembra essersi violentemente dissolta. Ancor prima, mi appello all’etimologia, alle radici lontane che ignoriamo con presunzione: ἐν-πάθος significa saper abitare l’altrui sofferenza, riconoscerla passando attraverso il rispetto, la condivisione e quel sentimento di reciprocità possibile a patto che ad unirci sia la nostra comune umanità.
A testa alta, fieramente convinti di spingere l’auriga del progresso, andiamo incontro all’atrofia del sentire. Perdiamo di vista quel che conta. In noi scompare il desiderio. Ancora, torna utile l’etimologia: de-siderium, la mancanza, da intendere qui come aspirazione, di qualcosa di lontano tanto quanto le stelle. “Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze, /ma senza un pensiero che andasse più in là / dell’uscire di casa e del tornarmene a casa. / Il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle, / e io l’ho preso solo per uso ordinario”. Nel 2005, la poetessa polacca Wisława Szymborska pubblicava “Disattenzione”: un’autocritica, un’esortazione, un inno al desiderio. Nel giugno del 2022, a pochi giorni dall’esame di maturità, la professoressa di latino e italiano consegnava alla mia classe un foglio bianco in formato A4 su cui il toner aveva impresso gli stessi versi lettera dopo lettera. Un augurio, credo, a vivere la vita attivamente, abbracciando in modo critico un mondo che mai si lascerà descrivere, se non impariamo a guardarlo.
Mi appello all’empatia, al desiderio, all’attenzione. Allo spirito che ci bussa al centro del petto sconfiggendo il cinismo e l’indifferenza, alla musica che sa unire se accettiamo di ascoltarla e di lasciarci trascinare. Mi appello al bisogno, forte in ciascuno, di sentirsi parte di qualcosa di grande. A quanto più ci sia d’umano. Oggi, l’indignazione non è sufficiente. La nostra noncuranza è la morte del sentire. Il nostro senso di colpa il dolore lancinante di un arto fantasma. Vili e accucciati dietro ai nostri schermi, rinchiusi in claustrofobiche e rassicuranti bolle sociali che scambiamo per orizzonti globali, parliamo a sproposito. Sprechiamo fiato per battaglie che non ci vedono schierati né coinvolti – co-in-vòlvere, essere avvolti insieme, abbracciati, davvero, per una causa. Vita e morte sono quotidianamente trasformate in una guerra di retorica in cui la posta in gioco è la nostra umanità, la nostra capacità di piangere viene lentamente levigata da un fiume di parole violente quanto un campo di mine.
“L’inferno è questo: riconoscere i volti solo dei propri morti”. Alessandro Sortino, giornalista Mediaset, aveva ragione. Ma i volti che conosciamo, in grado di svegliarci dal nostro letargo disumano, sono sempre meno. In un mondo senza confini, senza patria né ideali, dimostriamo l’incapacità di creare relazioni se dinnanzi a noi si estende l’infinito. Non empatia, non desideri, non attenzione. Non valori, non ideali. L’umanità resta nelle mani di chi conosce il bisogno, la necessità viva che spinge all’unione. La speranza pulsa nelle mani aperte dei bambini, negli occhi degli ultimi, nelle lacrime dei sofferenti e nella rabbia degli oppressi. Chi resta, nella propria infelice perfezione, è amorfo, impermeabile, sazio. Solo per scelta e per inettitudine. Riesce a non avere niente e a perdere ogni giorno, a non avere niente, pur avendo tutto.
Autore
Alice Tintori
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