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«È tutto un equivoco, sapete. I confini tra il bene e il male sono terribilmente incerti. Io non invocavo una punizione per nessuno. Punire qualcuno che non sapeva quello che faceva è una barbarie. Il mito di Edipo è bello. Ma trattarlo in quel modo...»
Voleva dire ancora qualcosa, ma si ricordò che forse l’appartamento era sotto controllo. Non aveva la minima ambizione di essere citato dagli storici dei secoli a venire; aveva piuttosto paura di essere citato dalla polizia. Perché ciò che essa gli aveva chiesto era appunto questa condanna del suo articolo. Non gli andava che adesso la polizia potesse finalmente udirla dalle sue labbra. Sapeva che tutto ciò che veniva pronunciato in quel Paese poteva essere trasmesso in qualsiasi momento alla radio. Tacque.
Questo stralcio di testo è tratto da L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera e, in questi giorni, continua a risuonarmi in testa mentre il mio feed di Instagram viene continuamente bombardato da articoli su articoli che mettono alla gogna le attiviste — forse tra le uniche ancora degne di essere chiamate tali — Fonte Valeria, Carlini Flavia, Vagnoli Carlotta e Benedetta Sabene.
Al di là di tutto — di quanto si possa o meno essere a conoscenza degli eventi passati che hanno scatenato il caso mediatico attuale, della propria posizione politica, sensibilità o conoscenza della macchina giuridica — non mi è chiaro come le persone possano trovare accettabile e tollerabile il fatto che chat private vengano diffuse dai media.
E per tutti coloro che, rassicurati da Lucarelli & co., pensano che quelle chat potessero essere legalmente diffuse poiché atti resi pubblici da indagini passate, vorrei porre un caldo invito a leggere davvero l’articolo 415-bis, che ho visto tanto citato nei commenti degli utenti che difendono questa barbarie.
Per risparmiarvi tempo, ci penso io:
L’articolo 415-bis è una comunicazione formale che il Pubblico Ministero invia all’indagato quando ritiene concluse le indagini e di poter chiedere il rinvio a giudizio, cioè l’avvio del processo. In questo atto vengono specificati il reato contestato, con l’indicazione del tempo, del luogo e delle norme violate, e viene inoltre rivolto all’indagato e al suo difensore l’invito a prendere visione degli atti, ossia a consultare il fascicolo delle indagini. L’avviso informa anche che, entro venti giorni, è possibile presentare memorie o documenti, chiedere di essere interrogati dal Pubblico Ministero o domandare lo svolgimento di nuove indagini, come l’audizione di testimoni o l’esecuzione di perizie.
Si tratta dunque di uno strumento volto a garantire il diritto di difesa, consentendo all’indagato di conoscere esattamente di cosa è accusato, di replicare o chiarire la propria posizione e di fornire eventuali elementi a proprio favore prima che il Pubblico Ministero decida se chiedere o meno il rinvio a giudizio.
Dunque, alla luce di una più puntuale lettura della norma, mi chiedo dove traspaia il fatto che gli atti di indagine possano diventare di dominio pubblico, a maggior ragione nel momento in cui non risultano pertinenti alla materia dell’indagine.
La domanda che sorge spontanea è dunque: come Lucarelli ha avuto la possibilità di accedervi? E, se anche la pubblicazione del suo articolo fosse avvenuta dopo l’udienza — momento dopo il quale effettivamente parte degli atti pertinenti al processo diventano consultabili dai giornalisti — sarebbe stato lecito appropriarsi e diffondere atti del processo non inerenti alla materia d’indagine?

Ricordiamoci, inoltre, che l’articolo pubblicato da Lucarelli non tratta la materia del processo e diffonde chat in cui sono coinvolte anche parti terze, non indagate.
Se già questo non bastasse per porsi i dovuti dubbi sulla legittimità o meno dell’accaduto, un altro quesito da porci è: ognuno di noi possiede una moralità così solida da essere assolutamente cert* che, se venissero rese pubbliche tutte le nostre chat, saremmo incolumi dal giudizio pubblico?
Poiché, indipendentemente da tutto, ognuno di noi è responsabile di ciò che dice in pubblico, ma non è giusto né possibile che ci si assuma la responsabilità anche di ciò che viene detto nel privato — magari in uno sfogo, in un momento in cui non è necessario dover controllare anche verbalmente la propria emotività, che guida il registro linguistico scelto in quell’istante, forse prima ancora che si abbia la possibilità di ragionare lucidamente su un dato fatto.
Se davvero ci riteniamo soggetti così forti, giusti e incorruttibili, mi sembra assurdo che la società odierna sia messa così male.
Questo evento, oltre che profondamente ingiusto, è anche parecchio preoccupante, poiché ha avuto modo di creare un precedente.
Quello di Lucarelli è davvero il giornalismo che vogliamo ci rappresenti? È davvero questo il modo in cui vogliamo che le informazioni vengano reperite?
Oltre che un delitto di antipatia, a me sembra una vendetta personale, giustificata dal suo ruolo, che le consente di compiere indisturbata violente prevaricazioni. Nel momento in cui il giornalismo viene utilizzato in questo modo, perde la sua essenza informativa e diventa semplicemente un’arma.
Perché, nel secolo della comunicazione, una delle morti possibili diventa anche quella perpetuata dall’arma dell’informazione, che annienta la credibilità e l’immagine “virtuale” delle persone, ormai sempre meno astratta.
Quando parlo di vendetta personale, mi riferisco al fatto che Lucarelli è una grande amica dell’uomo che ha accusato Fonte, Vagnoli e Sabene di stalking.
Ma andiamo più a fondo: com’è arrivata questa accusa?
Queste tre attiviste si sono messe a disposizione per aiutare donne vittime di uomini abusanti, violenti, stalker — ad esempio con una “lista nera” contenente i nomi di questi ultimi, per aiutare concretamente le vittime a denunciare (lista, peraltro, resa pubblica, mettendo in pericolo le vittime).
Tra questi nomi compare anche quello di quest’uomo, segnalato dalla sua, all’epoca dei fatti, ex partner. Come spesso accade quando si ha a che fare con relazioni permeate dalla dipendenza affettiva, la donna che aveva denunciato l’uomo ha deciso poi di tornare sui suoi passi.
Nel frattempo, però, le attiviste si sono mosse per escludere l’uomo da tutti i contesti che potessero mettere in pericolo la vittima. Forse i modi non sono stati pacati o ritenuti consoni, ma, incredibilmente, la vittima è diventata l’uomo, che ha denunciato le attiviste poiché lo avrebbero spinto a tentare il suicidio.
La polizia del 61-bis si è immediatamente mossa per perquisire la casa dove vivevano le attiviste, facendo, ad esempio, spogliare Fonte per una perquisizione corporale più accurata, oltre a far sì che venissero loro sequestrati tutti i device in possesso (i device da cui sono state poi ricavate le chat pubblicate da Lucarelli).
Insomma, servizio tempestivo e impeccabile che — accusatemi pure di essere polemica — non mi sembra di aver mai sentito venisse applicato a uomini accusati di stalking, che poi magari hanno anche ammazzato la loro vittima, e che magari erano già stati denunciati.
Peccato, insomma, che la stessa accuratezza non sia stata dedicata allo stalker di Vanessa Zappalà, ad Alessandra Matteuzzi, a Marisa Leo... e potrei purtroppo andare avanti ancora a lungo.
La vicenda si farebbe ancor più stratificata se dovessimo parlare anche della faccenda che coinvolge Mazzini — casualmente altra grande amica dell’uomo “perseguitato” dalle tre attiviste — ma l’articolo rischierebbe di perdere il suo focus principale.
È importante però sapere che questa stratificazione sussiste, e non solo in questa vicenda, ma in tutte.
In questi anni, in cui siamo sempre più assuefatti all’immediatezza e all’impazienza, abbiamo progressivamente perso la capacità di valutare la complessità delle cose, affidandoci alla loro lettura più semplice — ma soprattutto semplicistica.
È semplice, dunque, pretendere una coerenza assoluta da parte di attivist* che si battono per la verità e la giustizia, rendendol* icone da idolatrare o distruggere.
È invece semplicistico pretendere che esista solo il bianco o il nero, senza possibilità di una scala di grigi nella rappresentazione di persone che, dal momento in cui prestano la loro voce per i diritti di tutt*, perdono il loro diritto personale di essere trattate come persone complesse, fallibili, umane.
Autore
Sofia Mori
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