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Se vi capitasse di oltrepassare il confine tra Francia e Spagna, una cinquantina di chilometri oltre Perpignan, seguendo i primi accenni della costa catalana, vi ritrovereste, quasi senza accorgervene, nella piccola città di Portbou. Sembra un fantasma, il riflesso di una località di mare decaduta. L’unica punta di nota è forse la chiesa che s’erge al centro del paese. Senza tralasciare l’enorme snodo ferroviario che s’allunga verso sud, in direzione di Barcellona. Una volta giunti qui, nell’anonimità delle porte d’Iberia, partendo dal lembo di spiaggia che abbraccia la baia vi basterebbe imboccare una viuzza asfaltata, salendo verso un anonimo promontorio roccioso. Prima del cimitero, sulla sinistra, un sepolcro a dir poco singolare giace tra visioni mediterranee di ondine spumose, cespugli ben potati e qualche vela all’orizzonte. La lapide reca il nome di “Walter Benjamin”. Pochi mesi dopo la sua morte, consumatasi il 26 settembre 1940, Hannah Arendt, brandendo il manoscritto delle Tesi sulla Filosofia della Storia, scriveva: “È uno dei posti più belli che io abbia mai visto”.
Pare uno scherzo di pessimo gusto che dietro un innocuo villaggio di mare come Portbou si nascondano le speranze spezzate di una tradizione di rivoluzioni mancate e mutilate e di un’Europa schiacciata dal fascismo. Le disgrazie di un mondo dove “imperialismo”, “sfruttamento” e “diseguaglianza” descrivono ancora oggi più del dovuto.
È anche il memento del suicidio disperato di una delle menti più brillanti del secolo scorso.
“Non c’è mai stato un documento di cultura che non sia al contempo un documento di barbarie”.
Quando si evoca il nome di Walter Benjamin, un intero particolato filosofico, storico ed emotivo si materializza. Tutto si tinge d’inquietudine, la stessa che Benjamin ritrae abilmente osservando l’Angelus Novus di Paul Klee: quello della Storia, impossibilitato a scampare dalla tempesta-Progresso che continua a soffiare e a spingerlo verso l’incerto Futuro mentre guarda il Passato a bocca aperta e ad occhi tristi, incapace di afferrarlo. Giusto alcuni decenni prima, Nietzsche scriveva che noi “abbiamo bisogno di storia, ma in un modo tutto particolare. Non abbiamo bisogno che ci appesantisca la vita, che la soffochi, che la trasformi in un museo di oggetti morti (…)”. Il senso di storia, volente o nolente, imprigiona. È una teca che possiamo osservare da turisti e vivere da animali ingabbiati allo stesso tempo. Ahimè, una verità soffocante, soprattutto per uno “schieramento” come quello della fantomatica Sinistra. Dico “fantomatica” perché come tutte le etichette generaliste pure questa fallisce miseramente ogni qualvolta venga pronunziata. A riempire le file v’è sempre un collante nostalgico di speranze spezzate che si ostinano a rialzare la bandiera (spesso rossa ma non sempre), condito da autori le cui vicende biografiche ed intellettuali vanno a braccetto con i grandi drammi storici e collettivi.
Tutto ciò è la base concettuale di quella che Enzo Traverso ha voluto definire la malinconia di sinistra, come illustrato nel suo omonimo volume, pubblicato nel 2016. Sotto tale lente la malinconia non è mera tristezza o passiva nostalgia ma un dispositivo critico che permette di riconoscere le sconfitte senza illudersi d’avere alle spalle un passato dorato. È una memoria viva, consapevole, che mantiene aperto il dialogo con la Storia senza cadere nel rifugio consolatorio (e immobilizzante). Ed è anche la maniera fondamentale attraverso la quale si conserva la tradizione rivoluzionaria, afferma Traverso, il quale vi riconosce una funzione positiva e produttiva, specialmente sul lungo termine. In un certo senso, si potrebbe parlare di “nostalgica speranza” come duplice impeto: verso il passato, dei leggendari scioperi generali e degli opuscoli seminali, e verso il futuro, della liberazione e del socialismo utopico.
Sono questi gli ingranaggi di una trappola benefica, capace sì, di fornire il focolare al sopravvissuto, ma a durissimo prezzo: quando le braci si animano la carne brucia e l’enciclopedia dei fallimenti si allarga ulteriormente. Nelle sue vesti peggiori, infatti, la “speranza di Sinistra” è un palliativo nostalgico, un veleno di ricordi, immagini estatiche e miti Soreliani che non portano alla morte del socialista ma ne sopprimono la reale volontà d’azione. O almeno così sembrerebbe. Il 25 aprile si scende tutti in piazza a cantare “Fischia il Vento” e “Bella Ciao”. Socialdemocratici, democristiani, comunisti e pure liberali.
Significa che ci siamo, no? Un po’ più vicini alla meta? Ancora vive il ricordo storico? Della Resistenza, dico, e dell’altro “radioso maggio” — durante il quale per l’Italia e l’Europa terminavano due guerre, una combattuta con le armi e l’altra con i manifesti. Forse in quegli attimi di “orgasmo” (a ricordare l’utilizzo che ne faceva Beppe Fenoglio di questo termine) la nozione nostalgica vestiva tutt’altre braghe, facendo appello ai martiri antifascisti caduti nelle carceri e nelle strade e a un senso di patria che spingeva pure gli stessi Garibaldini ad indossare sulle casacche il tricolore — rigorosamente dotato di stella rossa (sia mai il contrario).
Ma oggi a che serve sperare? Ma più precisamente: in che cosa dobbiamo sperare?
Occorrerebbe estrarre un altro epitaffio, pur sempre mediterraneo. Quello di Nikos Kazantzakis, filosofo greco morto nel 1957, il quale recita:
“Non spero nulla / Non temo nulla / Sono libero”.
A che serve un’utopia in un’epoca dove il pensiero utopico è morto?
Come si può pretendere di ereggere, per l’ennesima volta, il mito della Sinistra rivoluzionaria a colonna portante di un universo ideologico vecchio tanto quanto il Capitale stesso ed eternamente sconfitto da esso? Il paradosso della nostra epoca giace proprio qui, nella consapevolezza che negli ultimi dieci anni a fare le rivoluzioni sono state per lo più “masse informi” — raggruppate dietro dubbie definizioni — o, ancora più assurdo, movimenti di Destra, la cui stretta populista sulle fasce di reddito più basse (e demograficamente più numerose) è inequivocabile.
Il linguaggio della ribellione, come notato da Slavoj Žižek tra i tanti altri, è passato dall’altra parte della barricata. Esempi “banali” sono l’assalto al Campidoglio americano del 6 gennaio 2021 e l’analoga trovata di Bolsonaro giusto due anni più tardi. Ma anche la fissazione per il concetto di “egemonia culturale” (gramsciano, tra l’altro) e lo spostamento generale del dibattito politico sul piano civile piuttosto che economico, dimostrano un interesse crescente ad arginare qualunque possibilità concreta di cambiamento sistemico.
A suo modo si tratta di una forma di rassegnazione per la Sinistra: l’accettazione di un altro compromesso storico che da una parte ha spinto ai margini del convenzionale i movimenti radicali che si nutrono di desideri rivoluzionari, e dall’altra i moderati e socialdemocratici, che da movimento del cambiamento progressista si sono tramutati in partito della gestione e dell’amministrazione.
Ma tutto ciò è ovvio, sono fatti già noti, scanditisi nel corso di decenni e decenni di degenerazione della figura “cittadino” e della sua capacità di farsi sentire, di difendere privilegi collettivi la cui età, in migliaia d’anni di storia umana, copre forse un 1%. Tolleranza e sopportazione nei confronti delle ingiustizie diventano ingannevoli virtù quando subentrano, quasi sempre, dopo il primo (ed ultimo) atto di indignazione: l’esatto istante in cui si scopre la notizia calda, la mazzetta pagata al deputato, il ponte che crolla, etc. Non importa cosa leggi e ostenti sui social. Che sia il libretto di Mao, il manifesto di Marx o addirittura i testi di Unabomber, se non sei capace di applicare un briciolo di sano (de)costruttivismo critico al tuo circostante e nei rapporti con il prossimo stai già sbagliando tutto. È ormai un classico la cazzata semi-religiosa del tipo “qui ci serve una rivoluzione”, “bisogna scendere in piazza”. Lo chiamo “othering della salvezza”, ovvero il continuo delegare ad un gruppo di ipotetici (in genere giovani e volenterosi) la responsabilità di cambiare le cose. Oltre ad una generale ed implicita percezione di sé come esseri privi di agentività, di possibilità d’azione e di voce in capitolo (leggi: non votano). Tutto ciò profuma di escatologia, ahimè.
Tale contesto, per chi ancora aspira e respira, in cui speranza e nostalgia — vini del malinconico esitare — nutrono di miti e ricordi idealizzati, pretendendo di mantenere in vita un sogno talmente utopico da condannare all’inazione, volontaria o meno. L’apparenza è sempre quella di un sentimento innocuo e genuino, rivestito delle spoglie di una qualche memoria storica collettiva e condivisa. Spada di Damocle affilata e pulita con la cura dell’ammirevole discepolo. Ad indossarne le vesti sono sempre i soliti noti: il pedante teorico marxista di turno, il precario armato di slogan da piazza e lo studentello che si scopre attivista sui social. Ogni qualvolta il retaggio storico decide di eruttare, la Spada tremola giusto quel che basta per cadere e decapitare il “malcapitato” (leggi: noi che ci preoccupiamo di queste cose). I calorosi attimi immortalati nella sospensione di quelle che Clifford Geertz definiva le “ragnatele” dei significati umani continuano a tormentarci di nomi e leggende, di esempi da seguire e di modelli da ricordare.
Un pantheon semi-religioso, dotato pure di un proprio canone, se ci pensate.
E dei relativi apocrifi.
Fa tutto parte di quella scacchiera teleologica che è, a proprio modo, il materialismo storico, ovvero la percezione di finalità ed inevitabilità della Storia, schiava dell’altro angelo, l’Oeconomicus. Torna alla mente la prima tesi di Benjamin: un automa (materialismo storico) gioca a scacchi, manovrato da un nano (la teologia) nascosto tra i suoi ingranaggi. È piccolo, schifoso, nessuno lo vuole vedere, ma c’è, è lì. E serve per “vincere”. La Sinistra, intesa come lignaggio, va ben oltre il mito di Marx ed Engels. Ricordo sempre a tutti che prima del 1848 erano Buonarroti e Blanqui a far tremare i regnanti europei esattamente come prima di Gregorio Magno e Innocenzo III erano San Paolo di Tarso e gli gnostici greci a dettare l’avanguardia del neonato cristianesimo.
Enzo Traverso vi vede una tradizione nascosta e duratura, analizzabile nel campo dell’arte e della sua riproduzione, della musica e del teatro. E pure nello srotolarsi stesso degli eventi storici collettivi, oltre che nei testi teorici e nei dibattiti intellettuali.
Forse è la stessa fonte a cui attinsero Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg quando decisero di nominare “spartachista” la Lega che tentò l’insurrezione bolscevica nella Germania del gennaio 1919. Si creava un salto cronologico attraverso migliaia di anni di vittorie e fallimenti degli uni sopra l’Uno, andando a pescare proprio la figura del ribelle per eccellenza, lo schiavo gladiatore sconfitto in battaglia dalla Repubblica che non sapeva d’essere già un Impero. O dovremmo parlare della Primavera di Praga e di figure come Jan Palach, il più celebre dei giovani studenti cechi letteralmente immolatisi in risposta all’intransigenza dei carri armati sovietici? E che dire del ’68? Mi riferisco alla sua incapacità di divenire davvero proletario e di riuscire a decostruire le parole del Potere, gli orologi del capitale industriale e le accademie dei miopi letterati. Per chi fosse attento pure i risultati delle lotte anticoloniali e delle liberazioni nazionali africane, asiatiche ed arabe non lasciano altro che amarezza in bocca ai posteri, costretti ad ammettere che forse, in fondo, il ritorno dei popoli sommersi non è riuscito a scostare le tenebre della gerarchia, dell’ineguaglianza e pure dell’ignoranza. Chissà che direbbe Frantz Fanon a vedere com’è finito il suo progetto terzomondista. Stessa cosa il sogno guevarista, tradito “in terra boliviana”, come cantava Guccini, “in un giorno d’ottobre”.
A ravvivare la vivida nostalgia per la Comune parigina o per le grigie “gioie” delle piazze sovietiche è anche e soprattutto il prodotto dato dalla estirpazione di tali attimi collettivi, sia con il pensiero (quindi la storiografia antagonistica e “storicista”) sia con le armi (nel maggio del 1871 si camminava col sangue alle caviglie a Parigi, stando ai resoconti dei soldati repubblicani).
Pantheon di autori, pantheon di martiri.
Sulla questione “teologica” torna utile Guy Debord, morto suicida in circostanze ben diverse da quelle di Walter Benjamin: lui, pur sempre ebreo e fuggitivo esasperato dall’avanzata nazista sul fronte occidentale, si avvelena a Portbou per non cadere in mani nemiche. Debord, invece, il genio del Situazionismo sessantottino, si spara un colpo al cuore nel 1994, depresso e rassegnato. Non senza lasciarci la perla critica e, ahimè, pessimistica che è La società dello spettacolo, saggio all’interno del quale ci ricorda quanto il marketing e l’immagine si siano accomodati all’interno delle stesse scarpe che un tempo indossava così calorosamente la religione, in Occidente. Ciò ovviamente non esclude una critica, seppur costruttiva, di Marx. Nel ‘900 diventa chiaro che il lavoratore è alienato e non soltanto mentre lavora; che il nuovo capitale è lo spettacolo (leggi: la capacità mediatica); che il partito-struttura è spettacolo stesso (e noi italiani potremmo ridercela fino a domani su quest’ultimo punto).
Tentativi di decostruzione dell’ortodossia marxista come quello di Debord potevano essere un’ottima arma contro il rischio nostalgico, un tentativo concreto di svecchiare strutture fin troppo lontane nel tempo e incapaci di flettersi all’innovazione tecnologica e alle profonde differenze socioculturali rispetto ai tempi del Das Kapital. Autori come Louis Althusser non hanno fatto altro che enfatizzare tali spaccature.
In Ideologia e apparati ideologici di Stato non esiste più un soggetto rivoluzionario ma solo una costellazione di apparati — istituzionali o meno — che producono l’illusione del soggetto stesso. In altre parole, la Storia non ci libera ma ci ripete. Vi si potrebbe leggere la parabola della Sinistra contemporanea, talmente decostruzionista da aver perso lingua, gesti e pubblico. A tal punto da doversi ritirare su un piano sempre più esistenzialista del dibattito. L’uomo dietro k-punk, ovvero Mark Fisher, a sua volta morto suicida nel 2017, descrive espressamente la condizione dell’uomo contemporaneo, figlio del Realismo Capitalista.
In Hauntology, a differenza di Althusser, non si presuppone la totale distruzione del soggetto ma se ne esplica la condanna contemporanea: è innestato tra binari confusi, sbiaditi; bloccato tra i propri lost futures in un vuoto quasi indescrivibile, generatosi con la morte del sogno politico e delle possibilità ideologiche che hanno sempre promesso il mondo intero al fedele smarrito. La caduta del Muro ha cambiato tutto.
Insomma, alla fine della fiera la domanda non è più “in che cosa sperare” ma se la speranza possa ancora esistere come categoria politica e umana. Un sentimento a lungo termine in un mondo dove il tempo sembra essere sempre meno: per noi stessi e per gli altri.
Dove le disillusioni d’ogni giorno ci impediscono di immaginare (quindi di compiere fisicamente) un vero cambiamento.
L’epitaffio di Kazantzakis potrebbe celare la soluzione a questi dilemmi.
Nella precipitosa epoca delle crisi strutturali, ciò che un tempo era uno slancio collettivo è ora micro-affetto individuale, fragile gesto di resistenza interiore.
Proprio quando la speranza sembra svanire, ne riaffiora l’ombra: non come promessa di salvezza, ma come atto negativo, ovvero un rifiuto. Non attendere più nulla, ma continuare a pensare e ad agire nonostante tutto. Un approccio di questo tipo, quasi ascetico, potrebbe davvero generare uno spazio postumo all’interno del quale la Sinistra o qualunque progetto di emancipazione collettiva, possa trovare, ancora una volta, la forza di respirare. Ciò significa ricominciare dal locale, dal minuto, dal micro. Dalla sincerità nei rapporti umani e dall’onestà intellettuale come virtù da elevare ed impartire.
Forse è ciò che intendeva il celebre slogan del ’68 francese: Sous les pavés, la plage.
“Sotto i ciottoli, la spiaggia”.
Sotto il cemento dell’ordine e della mercificazione quotidiana, non vi è una promessa utopica ma un “qui e ora”, un’altra possibilità.
Autore
Nicholas Contini
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