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Prima che si accendano le luci l’aria è carica di elettricità; la frizzantezza, l’aspettativa di qualcosa che sta per iniziare, quella sorta di quiete prima della tempesta avvolgono la stanzetta buia. Poi arrivano le musiche, i colori, la magia dello show. Una luce a neon vibra e illumina una figura, seduta a un tavolino con un piccolo specchio di fronte e fard, ombretti, matite disposti come la tavolozza di una pittrice o di un pittore - qui i confini sono molto labili, a volte irrilevanti. Basta solo la cipria, che si appoggia su tutto il viso, spostandosi dal contorno occhi, al naso, alle guance e agli zigomi per dipingere una realtà.
E ancora ci sono luci, zone d’ombra e di buio. Ma concentriamoci sulla luce.
New York, anni Venti. Tutto luccica, anche quando non è oro: sono i “roaring twenties”, gli anni Venti ruggenti, del benessere, della ricchezza, del divertimento. La speranza si risolleva dopo la fine della prima guerra mondiale e con essa si alzano anche le voci della comunità afroamericana, interprete del blues e del jazz e della cosiddetta “Harlem Renaissance”, una rinascita intellettuale che attraversa tutte le arti. Ne è capofila Langston Hughes, poeta, romanziere, giornalista e attivista, tra i primi a ritrarre a parole un drag ball:
"Strangest and gaudiest of all Harlem spectacles in the '20s, and still the strangest and gaudiest, is the annual Hamilton Club Lodge Ball at Rockland Palace Casino. I once attended as a guest of A'Lelia Walker. It is the ball where men dress as women and women dress as men. During the height of the New Negro era and the tourist invasion of Harlem, it was fashionable for the intelligentsia and social leaders of both Harlem and the downtown area to occupy boxes at this ball and look down from above at the queerly assorted throng on the dancing floor, males in flowing gowns and feathered headdresses and females in tuxedoes and box-back suits." - Langston Hughes, The Big Sea
[“Il più strano e vistoso di tutti gli spettacoli di Harlem negli anni 20, e ancora oggi il più strano e vistoso, è l’annuale Hamilton Club Lodge Ball al Rockland Palace Casino. Una volta ho presenziato come ospite di A’Leila Walker. E’ il ballo in cui gli uomini si vestono da donne e le donne si vestono da uomini. Durante l’apice della New Negro era e l’invasione turistica di Harlem, era di moda per gli intellettuali e le persone socialmente influenti sia di Harlem che della zona downtown occupare posti a questo ballo e guardare giù dall’alto a quella strana folla sulla pista da ballo, maschi in vestiti fluenti e coprcapi piumati e femmine in smoking e abiti neri.”]
I drag balls, ovvero balli in cui era accettato indossare abiti e esprimere atteggiamenti tradizionalmente usati dal sesso opposto e ballare con persone dello stesso sesso, esistevano già da decenni, anche se spesso erano portati avanti nella segretezza.
Negli anni Ottanta dell’Ottocento erano segreti i balli organizzati da William Dorsey Swann, la prima persona nota per essersi descritta come una drag queen - o anche “queen of drag” (per chiarezza: una drag queen è una persona, spesso un uomo gay, che usa un particolare accostamento di vestiti e trucco per imitare o esagerare l’espressione di genere femminile, solitamente a scopi di intrattenimento). A frequentare questi balli erano principalmente uomini neri e lo stesso Swann aveva vissuto la prima parte della sua vita in schiavitù - negli Stati Uniti era stata abolita solo nel 1867.
E se la segretezza di questi balli era spesso brecciata da raid della polizia, gli animi delle persone che vi partecipavano non erano così facilmente spezzati.
Nel buio asfissiante si cerca una luce, anche se piccola, e se non si riesce a trovarla, spesso, la si costruisce.
New York, 1967. “I have a right to show my color, darling! I am beautiful and I know I’m beautiful” esclama Crystal LaBeija, puntando il dito contro le sue avversarie, dopo aver appreso l’esito dell'All-American Camp Beauty Contest. Esclusa dalla terzina finalista, protesta che la decisione sia dovuta al colore della sua pelle, seppur reso più chiaro dalla cipria che lo ricopre.
Crystal è una donna trans e una drag queen, una delle tante che partecipano a quel contest, per niente dissimile dalla competizione di Miss America e organizzato e condotto da Jack, in arte drag Flawless Sabrina. Le parole di Crystal sono registrate da Frank Simon, che documenta ogni aspetto della competizione e dei suoi partecipanti nel film del 1968, The Queen.
Crystal, oltre a sapere che la fine giuridica della segregazione razziale e la presenza di spazi “integrati” non era corrisposta alla fine del sentimento razzista, era perfettamente conscia della sua bellezza. Era stato anche l’ambiente delle balls che da circa un decennio frequentava a darle quel riconoscimento e lei l’aveva presto integrato nel suo nome: l’appellativo “la bella” spesso utilizzato dalla comunità latina viene da lei riscritto in “LaBeija”.
Lo stesso cognome viene presto assunto da un’altra drag queen nera, Lottie LaBeija, e le due, nel 1972, daranno un ballo specialmente per queen nere, intitolato “Crystal & Lottie LaBeija presents the first annual House of LaBeija Ball at Up the Downstairs Case on West 115th Street & 5th Avenue in Harlem, NY”.
E’ la prima volta, con House of LaBeija, che appare la dicitura “house”. Molti saranno familiari con la comune traduzione del termine anglosassone all’italiano, ovvero la casa come edificio, ma le houses nella ball culture vanno ben oltre il lato materialistico. Le persone che le formano non sono legate dal sangue, ma da un senso di appartenenza ancor più forte, una necessità di comunità e condivisione che porta “madri” e “padri” - spesso drag queen, uomini gay o donne trans, quasi sempre nere o latine - a prendersi cura di “figli”, perché il mondo che vivono è ora fatto, sì, di alcune luci, ma ancora tanta, troppa oscurità.
New York, 1987. Le luci sulle balls sono nuovamente accese dalla regista Jennie Livingston, che nel suo documentario del 1990 Paris is burning documenta i preparativi che portano al ballo dallo stesso nome, organizzato da Paris Dupree, drag queen e personaggio cardine nell’ambiente delle balls.
Sono gli anni Ottanta, gli anni della moda, della musica pop, dei colori vibranti e la House of LaBeija continua a regnare; con lei, tante altre. Prendono i loro nomi da grandi vincitrici della scena (LaBeija, Corey, Dupree, Pendavis, Ninja) o da grandi nomi della moda (Saint Laurent, Chanel).
Quando le telecamere di Livingston la raggiungono, la figura davanti allo specchio sta stendendo attentamente il trucco per la serata che l'aspetta. E’ Dorian Corey, donna trans e drag queen, fondatrice della House of Corey. Lei, che nel tempo è stata madre di tante e tanti, con la pazienza che solo una madre può avere, racconta come il loro piccolo pezzo di mondo si sia evoluto dagli anni Sessanta.
Se prima l’estetica di riferimento era quella delle drag queen o delle showgirl di Las Vegas, già dagli anni Settanta lo sguardo si era spostato alle grandi superstar, come Marilyn Monroe e Elizabeth Taylor e poi alle modelle Iman, Christie Brinkley e Maud Adams.
Non solo l’immagine, anche le persone che calcano le scene sono inevitabilmente cambiate. Crystal LaBeija ha passato il testimone a Pepper LaBeija, che sarà mother della house dal 1981 fino alla morte, nel 2003. Pepper è una drag queen, che usa spesso i pronomi femminili (she/her) ma non si identifica come donna - in un mondo di luci e ombre, riflettori e morte, le sfumature sono parecchie e il genere pare molto meno dicotomico di come ci può sembrare. Oltre a vincere circa 250 trofei nella sua carriera, il lavoro più importante che svolge è quello rivolto alla sua comunità e all’accoglienza di tantissimi uomini gay alienati dalle loro famiglie di provenienza. Li introduce in una nuova realtà, quella che tanto faticosamente è stata costruita da chi è venuto prima di loro, o, nelle parole di Pepper “a ball is our world, wonderland, as close to reality as we would ever be” [“una ball è il nostro mondo, il paese delle meraviglie, tanto vicini alla realtà quanto potremmo mai esserlo”].
Quando nel mondo reale - quello del razzismo, dell’omofobia, della transfobia - non si ha niente, si sogna di essere tutto: alle balls partecipano cosiddetti legendary children e upcoming legends e i preparativi sono come quelli per la notte degli Oscar.
Bisogna pensare ai vestiti: comprarli non è quasi mai un’opzione, allora spesso si cuciono a partire da ciò che si ha, come fanno Kim e Freddie Pendavis, parte della house dallo stesso nome. Ancora più spesso, si rubano. E’ il mopping, il trafugare vestiti dagli store, una delle tante tecniche messe in atto per vivere in quel paese delle meraviglie.
Poi, le luci della sala da ballo si accendono e ai suoni di chanté! chanté! chanté! work! si comincia a competere. Le categorie sono moltissime e permettono a ognuno di avere il suo momento: pretty girls, high fashion vintage sportswear, luscious body, high fashion parisian, butch queen first time in drag at a ball, high fashion evening wear. Ma la più importante e politica rimarrà sempre la realness, il saper adattarsi al mondo esterno, mostrare che davvero l’abito fa il monaco e con il giusto look anche loro potrebbero ricoprire tutti quei ruoli e posti di lavoro da cui la comunità LGBTQ+, nera e latina era normalmente esclusa.
I giudici ricompensano le e i performer con nove, dieci e ovah - un oltre, un di più, il riconoscimento più ambito - ma non tutte sono sempre in accordo sui verdetti. Così nasce il reading, una forma artistica per insultare le avversarie, trovando un difetto e esagerandolo a dismisura. Dal reading viene poi la shade: “non ti devo dire che sei brutta perché già lo sai”. E quando le parole e gli atteggiamenti non sono abbastanza, il ballo diventa lo spazio tanto di condivisione quanto di conflitto: invece che picchiarsi ci si sfida sulla pista da ballo. Così nasce il voguing, uno stile di danza che imita le pose delle modelle nelle riviste e da una delle più celebri, Vogue, prende il nome. Il miglior voguer degli anni Ottanta è indubbiamente Willi Ninja, mother e fondatore della House of Ninja. La fortuna di questo stile, aiutata moltissimo dall’omonima canzone di Madonna, gli permette di diventare un ballerino di fama mondiale.
Sono pochissimi coloro che riescono a trovare un vero successo e riconoscimento anche al di fuori delle ballrooms, che, seppur mondi ricchi di vita, sfumature, diversità, vivono nell’oscurità della notte. Sono un ambiente in cui rifugiarsi e trovare conforto, un paio d’ore di gioia e di riscatto da un mondo che ti soffoca o, più semplicemente, che non ti vede. Lì è il contrario, sei visibile, sei al centro della pista, illuminato da un fascio di luce, che rivela la tua immagine più autentica.
Quando quel fascio si spegne, bisogna cercare modi di vivere, o meglio, sopravvivere nel mondo là fuori.
“The ballroom tells me that I’m somebody but when the ballroom is over, when you come home you have to convince yourself that you are somebody and that’s where you get lost”- André Christian
[“la ballroom mi dice che sono qualcuno ma quando la ball finisce, quando vai a casa ti devi convincere che sei qualcuno, ed è lì che ti perdi”]
Venus Xtravaganza è figlia di David e Angie Xtravaganza, prima figlia di Pepper LaBeija. Venus è una donna trans ma esserlo gli è costato tantissimo, in primis essere cacciata di casa. Sogna di diventare una modella ma il mondo in cui vive la costringe, come quasi tutte le donne trans di quegli anni, al sex working, a mettersi costantemente in condizioni di pericolo e rischiare la vita ogni giorno. I suoi sogni sono preziosissimi ma rimarranno disattesi: nel 1989 il suo corpo viene trovato sotto il letto di un hotel, è decretata morta per strangolamento.
Le notti sono solo feste, musica, colori, ma il giorno è spesso dedicato a marce di protesta per le strade e veglie funebri: si diceva “bury your friends in the morning, protest in the afternoon, and dance all night”. Nel silenzio mediatico, la comunità LGBTQ+ continua a morire di AIDS, ma non cessa, imperterrita, di alzare la voce contro la discriminazione che subisce, a rendere rumorosa quell’epidemia silenziosa che la sta distruggendo, a ritagliarsi spazi in cui respirare, in cui ballare. La gioia diventa l’atto di resistenza più radicale.
Oggi. Le balls esistono in tutto il mondo, si sono moltiplicate in realtà particolari, ormai visibili anche senza documentari ad hoc che le mostrino. Sono entrate nella cultura pop specialmente grazie alla serie tv Pose, creata da Ryan Murphy, che ha raccontato la storia della comunità che frequentava le ballrooms nella New York degli anni Ottanta e Novanta. Intanto sul mondo drag RuPaul ha creato molteplici reality show e talent, amati in tutto il mondo.
Ma le tante luci accese sulla comunità non escludono ancora zone d’ombra: le discriminazioni, seppur attenuate, non sono certamente scomparse e soprattutto le persone trans sono spesso nel mirino dei governi sovranisti. Nelle ultime settimane Donald Trump, con diversi decreti, sta tentando di cancellarne l’esistenza, escludendole dagli sport agonistici, non riconoscendone l’esistenza nei documenti d’identità, eliminandole nelle parole dalle ricerche mediche e sociologiche, dai curriculum scolastici. Non sono azioni da poco, perché mettono a rischio la vita di persone vere, rendono difficoltoso il loro attraversare il mondo. Eppure le persone trans continuano ad esistere e a resistere, a tenere accese quelle luci e a far in modo che non vengano mai spente.
“Everybody wants to make an impression, some mark upon the world. [...] You don't have to bend the whole world. I think it's better just to enjoy it. Pay your dues, and just enjoy it. If you shoot an arrow and it goes real high, hooray for you.” - Dorian Corey
[“Tutti vogliono lasciare un’impronta, un segno sul mondo… Non devi piegare l’intero mondo. Penso sia meglio solo goderselo. Fai il tuo dovere e goditelo. Se scocchi una freccia e va molto in alto, hurrà per te.”]