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Un’immagine.
E’ giorno, il sole ti scotta la pelle e se apri appena gli occhi lo vedi, lassù nel cielo, così lontano eppure così vicino, senti che ti abbraccia. Anche con gli occhi chiusi puoi ancora sentire il rumore del mare e il vento che trasporta le onde avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, per sempre. Ti sembra che quel momento non finirà mai.
E’ notte, ci sono lunghi giri in bici, amici che fanno a gara a chi arriverà prima là, in fondo a quella strada. E poi ci sono sedie bianche, partite a carte in cui nemmeno si capisce chi abbia vinto e chiacchiere fino al mattino dopo. Un momento, prolungato, vorresti non finisse mai.
Ci sono tante altre immagini, di risate, di abbracci, di quiete e di rumore, che si susseguono come fanno i giorni eppure tutte rimangono, lì, nella mente di chi le vive, di chi le guarda, di chi le respira e inala quei “per sempre”. Sono le immagini della nostra galleria mentale, quelle su cui torniamo ogni volta che decidiamo di riavvolgere il rullino per quella “recollection in tranquillity” tanto amata da William Wordsworth.
La sua immagine più nota è quella del campo dei narcisi, daffodils, danzanti nella brezza che continua a rivedere con il suo inward eye, il suo occhio interiore, la sua immaginazione. Wordsworth descrive la più pura nostalgia senza mai esplicitarla, ma forse è quello che fanno tutte le poesie, dipingono un’immagine lasciando lì il pennello per ognuno di noi per completarla e ricordarla e, infine, ripercorrerla con lo stesso sentimento di nostalgia.
Parlo tanto di immagini perché penso che di questo possa essere fatta la nostalgia, perché la vediamo nelle scene dei film, nelle parole dei nostri romanzi preferiti, nei ricordi che teniamo più stretti e più vicini ai nostri cuori. Il nostos, questo ritorno, è la continua corsa o la passeggiata o il veleggiare in queste acque ricche di immagini e tesserle in un fine mosaico, che è la storia della nostra esistenza.
La nostalgia è quella cosa che non rende il tempo lineare, che accomuna passato e futuro, in un fil rouge che continuiamo a percorrere, senza un verso specifico. Più lo facciamo, più accresciamo il desiderio del passato, che si proietta nel futuro e diventa yearning, un’aspettativa, una brama di ciò che ancora non conosciamo, ma che cominciamo ad intuire. Lo facciamo percorrendo delle scale, scendendo qualche gradino e poi tornando su, tastando le possibilità ad ogni passo.
La creazione dell’immagine collettiva di un tempo lineare nella cultura occidentale si deve ad Agostino, un filosofo del IV secolo che immagina il tempo come “distensio animi”, estensione della nostra anima, quindi una dimensione puramente interiore. Ed è così che lo viviamo, trasportati dalla nostalgia del passato e attirati dallo yearning del futuro, andando sempre avanti e indietro, come le onde del mare.
Ci sono solo pochi momenti in cui un’altra sensazione ci ferma nel momento, non l’immagine che sogniamo o immaginiamo o dipingiamo ad arte, ma quello che viviamo, totalmente. E’ un fortissimo senso di essere, quello che anche Sylvia Plath fa provare alla sua protagonista ne La campana di vetro. Qui, dopo anni di tormenti, di fatica a trovare il suo posto nel mondo, Esther Greenwood arriva alla sua realizzazione più importante: “Io sono, io sono, io sono”.
A una risposta simile è giunto anche Ungaretti con I fiumi, la poesia in cui investiga le sue radici, quei fiumi che l’hanno segnato, in cui sì è riconosciuto esistente e parte dell’universo.
[…] Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia […]
Forse in un mondo così sconfinato, in un tempo che ancora non capiamo siamo docili fibre spinte da nostalgia, che cercano un porto sicuro, che sia evidente o sepolto nella nostra immaginazione, che ci procuri quell’allegria di cui, come sapeva bene lo stesso Ungaretti, abbiamo tanto bisogno.
Autore
Clara Dall’Aglio