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un breve monologo sul sentirsi piccole, sull'abitudine alla paura e sulla solidarietà silenziosa che si passa con uno sguardo
Ci sono abituata.
Ad alzarmi la mattina ed andare a lavorare; a ballare un venerdì di giugno fino a far sanguinare i piedi; ad essere messa in discussione sempre
e litigare con il mio capo ogni giorno della mia vita; ad inciampare sulle mie stesse scarpe e scheggiarmi i denti; ad andare al mare a Baratti da quando sono piccola, in quella casa che ha da trent'anni lo stesso odore.
Al commuovermi nascosta dietro a due anziani per le vie del centro, che se gli si contassero una ad una le rughe sul corpo, non si arriverebbe nemmeno lontanamente al pari dei giorni in cui si sono amati e rispettati.
Ad essere gelosa delle canzoni, all'ansia prima di dare un esame, a dover litigare con la serratura ogni volta che rientro a casa perché la chiave non gira mai al primo colpo e io sono di fretta e ho anche un po' di paura ma ho il polso fermo, mi giro per controllare che non stia guardando ed entro.
A tornare la sera e guardarci le spalle, le mie e quelle della ragazza dall'altra parte della strada che si abbassa la gonna perché ha appena ricevuto dei commenti volgari da un ragazzo in monopattino.
C'è quasi sempre una ragazza dall'altra parte della strada, o davanti, o dietro a fingere spesso insieme a me che questa paura non ci tocchi affatto.
Perché siamo forti e ci sentiamo scaltre e libere e perché i nostri genitori a 16 anni ci hanno comprato lo spray al peperoncino, fucsia, maculato e con su scritto 'diva' e noi non l'abbiamo mai usato, e quante molestie ci hanno toccate.
E poi abbiamo mandato la posizione in tempo reale, siamo diventate piccoli pallini blu galleggianti su una mappa;
e abbiamo inviato il messaggio alla mamma, questo però appena arrivate a casa, anche se si era raccomandata di chiamarla per avere compagnia lungo il tragitto e fare due chiacchiere.
Messaggio. Sono arrivata, buonanotte.
Così non si preoccupa e non mi sente mentre sbatto i tacchi per le vie del centro - o meglio, mentre cerco di non sbatterli - vorrei volare.
Ieri mi hanno accompagnata a casa i miei due amici maschi; hanno portato le loro bici a mano anche se abitano dall'altra parte della città.
In bici è più bello perchè si va piano e poi veloci e si ha il vento in faccia e tra i capelli; quando sono in bici mia mamma non vuole compagnia. Martedì mi sveglio e la giornata riparte. E’ festa.
Caffè - un po’ di mal di testa - doccia - sessione - caldo troppo intenso per essere a giugno - mi destabilizza - scrivania - distrazioni - pausa sigaretta poi produttività.
Sono finite le sigarette per la pausa sigaretta ma per fortuna la macchinetta parlante è sotto casa, si recuperano un po’ di monete e si scende a fare i fumi con il cemento che si sta preparando per i mesi a venire.
La macchinetta delle sigarette è un po’ lo specchio delle mie brame e neanche a me dice sempre quello che vorrei sentirmi dire.
Infatti mentre ci sono davanti, all’improvviso divento piccola, quasi rannicchiata.
Forse ho sentito male, non ce l’hanno con me, avrò sentito male sicuramente
come quella volta in cui, mentre passeggiavo tra i viali alberati, mi sono arrabbiata con degli uccellini pensando che fossero degli uomini che fischiavano.
Stavano solo facendo il nido ed erano loro a sentirsi piccoli, però potevano volare.
Patetica - sempre la solita fissa.
Le mie sigarette oggi sono finite, mi tocca provare con l'altra macchinetta-specchio, nella direzione opposta
la direzione verso la quale stanno andando questi due uomini che la mia frettolosità ha ritenuto responsabili di aver pronunciato parole volgari alle mie spalle sulla mia pelle sul mio corpo, su parti di esso coperte da strati di tessuto e occhi indiscreti.
Seguo il mio istinto a metà. Ho capito male, sì, ma faccio partire un video dal telefono, lo tengo in basso ed accelero, li sorpasso.
Avevo capito bene,
era proprio al mio corpo che si riferivano, prendendolo in prestito per le loro fantasie e facendomi sentire piccola, sempre più piccola ad ogni dettaglio che scandivano camminandomi dietro.
Le mani tremano e la bocca non può stare chiusa - prima in una smorfia attonita, poi con fiumi di rabbia.
Urlo e mi rigonfio,
rido perché è assurdo,
le loro schifezze mi vengono ripetute guardandomi dritta negli occhi.
Mando giù il nodo bolena che mi si è formato in gola mi riprendo il mio corpo e salgo in casa.
Scrivo. Condivido. Sono stufa e non sono l’unica.
Amy
La stesura di questo pezzo parte dalla spinta sovrastante sentita a seguito dell'ennesimo episodio di molestia che ho subito in pieno giorno per le strade di Parma, e che tante ragazze e ragazzi subiscono ogni giorno, con gradi di violenza che variano ma che partono sempre da un minimo sindacale. La condivisione della mia esperienza, volta a segnalare, creare allerta e - ovviamente - buttare fuori, si è rivelata una cassa di risonanza gigantesca; solidarietà, vicinanza, voci unite e voce prestata a chi non ne aveva più o a chi tremava, segnalazioni e disponibilità immediata. Da questo miscuglio di idee ed emozioni è nata @MAISOLE.MAI, una pagina che vuole essere un posto di ascolto e sicurezza. Chiamata a parlare di questa iniziativa in un locale, con le gambe che tremavano, su un palco accogliente con sopra un tappeto persiano, ho fatto un paragone cringe ma esplicativo della sensazione che ho provato nel vedere come ogni minuto così tante persone iniziassero a seguire la pagina ed a entrare nel gruppo whatsapp creato appositamente per essere un “pronto intervento a distanza” per chi si trova in situazioni di disagio o pericolo. Per me è stato come sentire la fame solo dopo aver dato il primo morso; c'era bisogno di sentirsi un insieme, intrecciate come le palle fatte di elastici di gomma.
Autore
Amy Sardei