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Diversi fan, diversi linguaggi
Urla e schiamazzi, cori e corpi per le strade, che si ammassano in ogni dove, che creano una fiumana umana. Dicono che siano pazzi, o meglio pazze, che siano isteriche, che farebbero di tutto per loro, lo si vede anche solo dalle lacrime che si uniscono alle loro grida. Devono avere qualcosa che non va per rivolgere tutta la loro attenzione, anzi tutta la loro vita, a dei semplici cantanti.
E ancora urla, cori, fumogeni, talvolta risse quando escono dagli stadi. Indossano i colori dei loro favoriti, per dire che stanno dalla loro parte, che saranno loro per sempre leali. È normale che ci tengano così tanto, che occupino le strade, le piazze, che disturbino la circolazione, dopotutto ha appena vinto la loro squadra del cuore.
Certo, i tifosi sono una cosa, le fangirls, ovviamente, un’altra.
Le fangirls sono estremamente emotive, irrazionali, fanno code per giorni solo per un concerto, spintonano tra le folle solo per un autografo.
I tifosi sono ragazzi con una passione, che è la più nobile, lo sport. Sono seri, non superficiali. Sono sempre razionali, anche quando sfasciano vetrine, anche quando iniziano risse, anche quando esprimono le loro emozioni violentemente - in Inghilterra, i casi di violenza domestica denunciati aumentano del 26% tutte le volte che la squadra nazionale gioca e del 38% quando perde. [1]
Dalla Beatlemania alle Directioners, alle Swifties, alle Armies, le fangirls - che a volte non sono girls ma donne adulte, che a volte non si identificano nemmeno nel genere femminile - non sono prese sul serio quando esprimono i loro interessi. Ci si chiede cosa ci sia che non vada nel loro cervello - è stato chiesto a una psicologa, per cercare di capire come mai le ragazzine tenessero tanto ai One Direction. [2]
Sono chiamate “fangirls”, in senso - inspiegabilmente, ma tant'è - svilente, ma non ci dovrebbe essere niente di svilente nell’essere fan, perché i tifosi dello sport lo sono, e nell’essere girls, perché metà della popolazione globale lo è. Eppure il lessico che usiamo per parlare delle fan, considerate tipicamente donne, è estremamente diverso da quello che utilizziamo per qualsiasi altra categoria sociale che esprime una passione.
Possiamo sorvolarci sopra e negare, come spesso facciamo, non andare a fondo sul perché adottiamo certi termini e non altri e quali visioni del mondo quel linguaggio veicoli, ma la verità è che il modo in cui parliamo delle cose crea il mondo che viviamo e problematizza, spesso, comportamenti a seconda di chi è il soggetto che li esprime.
Di persone, più che di parole
Oltre le parole ci sono persone e ci sono storie, non di sole parole, ma di azioni, esperienze, emozioni. Quelle che provava quella ragazza alla vista di Elvis Presley non sono dissimili da quelle espresse da una sua coetanea che pochi anni dopo ascolta un concerto dei Beatles. Entrambe riconoscono negli artisti che si trovano davanti personaggi, valori che non hanno mai trovato altrove - specialmente nella società postbellica dei primi anni Sessanta - e nelle persone che le circondano all’interno di quella stanza buia vedono molti più colori di quelli sotto la luce del sole.
E la necessità di evasione, così squisitamente umana, di perderci in qualcosa che ci permette di ritrovarci, continua per molti anni negli spazi fisici dei raduni e dei firmacopie e, poi, anche in quelli virtuali.
L’avvento dei social networks cambia il mondo in tutte le sue macro e micro realtà, creando un’ondata di nuove connessioni tra individui e comunità anche fisicamente molto lontane. La maglia di relazioni tra fan ormai ricopre ogni angolo del globo.
Anche oggi, una grande fetta delle persone che vivono i social media sentono di appartenere a questo o quell’altro fandom, perché sono questi i gruppi di persone che hanno dato forma agli spazi virtuali così come sono ora, dalle parole ai meme, alle pratiche come la cancel culture - “cancellare” una persona implica il più delle volte averle riconosciuto a monte un grande valore, esserne fan.
Certo, i fandom, soprattutto nel mondo virtuale, non sono avulsi da criticità, da spazi tossici, dall’estrema polarizzazione che ormai ci accompagna, ma così è in ogni gruppo sociale vasto e variegato - e così dovrebbe essere, a meno di vivere paralizzati - e questo non cancella il valore di quei colori, di quella luce, che ancora splende, anche attraverso i nostri schermi.
La verità è che il mondo ti è straniero quando hai 16 anni, lo è ancora di più se hai 16 anni e sei una giovane donna. E trovare spazi in cui riconosci tante persone simili a te, in cui ti puoi costantemente specchiare in tanta passione e tanta umanità ti fa sentire indubbiamente meno sola. Si formano legami virtuali che sembrano più stretti di quelli fisici, ci si interfaccia con un mondo e una comunità che è nuova, varia, diversa dalla nostra ma che allo stesso tempo sembra spesso più sicura e autentica di quelle che attraversiamo ogni giorno con i nostri corpi. Non è da sottovalutare come gli ambienti dei fandom siano stati laboratori di partecipazione, di confronto, di conoscenza dell'altro, di progressismo, e questo è dovuto alla forte presenza giovane, ma anche e soprattutto di minoranze, marginalizzate nella società, che però hanno trovato il modo di prendersi lo spazio che necessitavano, seppur solamente virtuale.
Ed è uno spazio profondamente democratico, perché tutti hanno possibilità di espressione, di inclusione, perché quella persona queer o razzializzata percepita come non conforme nella società e nei media tradizionali troverà sempre una voce e una rappresentazione nella virtualità, fino al momento in cui non potrà averla nella realtà. Il fandom, insomma, è spazio di nessuno e di tutt*, è pratica di un futuro di progresso e giustizia sociale che solo immaginiamo.
La società del presente
Nel mondo che ancora vediamo, invece, quella ragazzina che veniva chiamata isterica quando piangeva di emozione durante un concerto del suo idolo, nel tempo, diventa una donna considerata “troppo emotiva” quando si propone per ruoli importanti, per cariche pubbliche, per essere presidente - una discussione che abbiamo visto riemergere almeno due volte negli ultimi otto anni. [3]
Il pregiudizio implicito è lo stesso, anche a distanza di anni, anche in ambienti e contesti differenti.
Non ci stupiamo, invece, quando il ragazzo che urlava cori contro la squadra avversaria cresce e diventa un illustre dirigente. Lui non sarà mai considerato eccessivamente emotivo per una posizione di lavoro, anche quando tratterà con prepotenza i suoi sottoposti.
Scopriamo che nei due binari che la società ha costruito nel tempo i treni che passano, anche se sostanzialmente uguali, ricevono un pubblico di commenti molto diversi, commenti così radicati che sembrano impossibili da estirpare. Forse è il terreno stesso a dover cambiare e noi a doverci finalmente accorgere che sì, abbiamo un problema con le fangirls, ma, più di tutto, abbiamo un problema con le emozioni.
Ci sono compartimenti stagni su quali sono e su chi può esprimerle. I bambini quando piangono sono chiamati “femminucce”, come a dire “quello non è per te” o anche “non vorrai mica abbassarti al loro livello?” e, quindi, imparano a rimangiarsi ogni lacrima, che rimane non versata. E le emozioni, tutte intrappolate, creano una ragnatela che rischia di asfissiare - in Italia il 78,8% di persone che si tolgono la vita sono uomini [4] - oppure esplodere in modo sbagliato nelle relazioni interpersonali - non c'è bisogno di citare dati, quando li vediamo quotidianamente nelle pagine dei giornali.
Forse l’emotività ci spaventa, forse ci sentiamo troppo razionali per comprenderla, ma lasciarla da parte non fa che aumentare i muri tra noi e gli altri, e dentro noi stessi.
E non possiamo vivere di muri, se aspiriamo a più di sola polvere e oscurità.
[1] https://www.ncdv.org.uk/the-not-so-beautiful-game/
[2] https://www.youtube.com/watch?v=ElR_zjbRE6c
Autore
Clara Dall’Aglio