4
Come navighiamo in acque ogni giorno più burrascose? Come possiamo opporci a forze che sembrano tanto più grandi di noi? Come possiamo resistere agli scogli che incontriamo sul nostro percorso?
Sono domande che ci poniamo oggi, ma che molte e molti si sono già fatti in altre epoche, in altri luoghi, per tentare di colmare quel silenzio assordante che li opprimeva.
A volte è un silenzio che non significa altro che morte. Lo sapeva perfettamente Keith Haring: quando muore nel 1990, a causa di complicazioni legate all’AIDS, non lascia nelle sue opere nient’altro che vita.
Qualche giorno fa, tornando a casa, mi è capitato di passare vicino alla mia vecchia scuola materna e vedere un murales in cui, attorniate dai cosiddetti omini di Haring, si snodavano le parole: “Quando perdiamo il diritto di essere uguali, perdiamo il privilegio di essere liberi”.
Mi si è stretto il cuore a pensare che anche oggi, a trentacinque anni di distanza, quelle figurine colorate continuano a racchiudere il seme di quelle battaglie, di quelle emozioni e di quei pensieri che animavano il loro creatore. Una semplice linea nera, netta e un colore a tinta unita, pieno, accesso al suo interno, un intero mondo di significato. E’ un’intuizione potentissima quella che ha avuto l’artista quando ha iniziato a disegnare, un po’ per caso, queste immagini.
All’inizio degli anni Ottanta, un giovane Keith Haring, arrivato a New York per proseguire i suoi studi artistici, vede nel tunnel della metropolitana uno spazio pubblicitario coperto da un foglio nero, compra un gesso bianco e traccia alcune semplici linee per riempirlo. Da quel momento, non si ferma più. Si allontana sempre più dal mondo accademico per avvicinarsi alle strade, ai graffiti e alle persone. Segue la scia di altri artisti “pop” dell’epoca, come Jean-Michel Basquiat e Andy Warhol, e i suoi omini cominciano ad abbracciare muri di edifici, installazioni, gallerie, riviste, programmi televisivi, ma, soprattutto, le sue figure toccano apertamente le tematiche del mondo in cui vive.
Quando l’uso di cocaina devasta gli Stati Uniti e, specialmente, l’East Village di New York dove lo stesso Haring abita, realizza un murales in cui unisce arte e parole con la frase “CRACK IS WACK!”. Più avanti coniugherà arte e attivismo, portando nella pubblica piazza le sue immagini e il suo corpo.
In quegli anni, l’apice della sua fama coincide con lo scoppio dell’epidemia di AIDS negli Stati Uniti. Inizialmente scoperta nel 1981, la malattia era stata diagnosticata largamente nelle comunità di uomini gay - essendo una comunità autoreferenziale e chiusa, a causa anche delle politiche che vedevano l’omosessualità come un reato - ed aveva creato caos e panico nelle principali città, tra cui la New York di Haring. Vedendo progressivamente i suoi amici ammalarsi e morire, nel silenzio e nella noncuranza dell’amministrazione di Ronald Reagan, decide di denunciare la mancanza di azione del presidente in una serie di collage provocanti che includono titoli del New York Times, come Reagan’s Death Cops Hunt Pope e Reagan Slain by Hero Cop.
Capisce presto che è quel silenzio ad uccidere così tante persone ed è a quello che oppone la vivacità della sua arte. Dipinge così SIlence=Death, riprendendo l’immagine del triangolo rosa, usato dai nazisti per identificare gli omosessuali e riappropriato come simbolo di resistenza, e il motto del gruppo di attivismo contro l’AIDS, ACT UP. Tramite l’uso del colore acceso, riporta in piena vista la strage che si stava consumando nell’oblio e lo fa con figure che creano un’attività incessante, portando una visione di eccitazione, gioia, vita, nonostante il pericolo di morte.
Ancora, in Ignorance=Fear le figure sono giustapposte al semplice, ma potente, linguaggio della protesta. I soggetti sono segnati da una “x” per la loro “colpevolezza” di avere l’AIDS, ma immergendoli nell’innocenza della danza Haring ci ricorda che la resistenza può essere un’azione felice.
La sua arte fa rumore, insomma, usando sempre l’arma del colore, della semplicità, della figura iconica che chiunque può comprendere, rendere sua, riprodurre all’infinito. E le immagini di Haring si moltiplicano ovunque, dai capi di abbigliamento che vende nel suo Pop shop ai poster di ACT UP - AIDS Coalition to Unleash Power, un'organizzazione internazionale ad azione diretta, impegnata a richiamare l'attenzione sulle vite dei malati di AIDS - alla quale Haring stesso aderisce.
Anche quando riceve la sua diagnosi nel 1987, a soli ventinove anni, continua a lavorare instancabilmente: in lui non smette mai di pulsare lo spirito del Radiant Child, “the purest and most positive experience of human existence.”
Con il suo ideale congedo dall'esistenza, Unfinished Painting (1989), apre ancora uno spiraglio alla vita. Nella tela in cui appaiono le sue tipiche figurine, solo l’angolo in alto a sinistra è decorato, mentre il resto è lasciato volutamente incompiuto per rappresentare la vita dell'artista stroncata dall'AIDS, la sua carriera incompiuta e l'arte che non sarebbe stato in grado di creare.
Eppure ancora queste semplici figurine ci parlano, nel loro movimento riescono a spingere il nostro, ad affiorare nel silenzio e dirci di alzare la voce, di disegnare con i pennelli o con i fatti un mondo alternativo, di resistere a questo.
Perché quando crescono gli autoritarismi e le voci scomode vengono piano piano spente, è bene ricordarci che il fascismo è violenza ed è morte, mentre la resistenza - qualunque essa sia - è vita. Per Haring era il colore vivido, per noi può essere la scrittura, la piazza, la condivisione, l’ascolto di ogni esperienza.
Quando vediamo un governo cancellare più di 250 termini dalle ricerche scientifiche e dagli archivi degli istituti pubblici, dovremmo riflettere sull’importanza delle parole, che affermano l’esistenza delle cose e delle persone; metterle al bando è un atto di negazione della realtà.
Quando poi guardiamo l’agenzia statunitense ICE (Immigration and Customs Enforcement) prelevare dalle strade e detenere senza accuse formali studenti che avevano partecipato a manifestazioni contro il genocidio in Palestina, dovremmo continuare ad alzare la voce, non solo guardare dalle retrovie, ma esistere e resistere, opponendo al silenzio il rumore, alla morte la vita.
Mahmoud Khalil, studente alla Columbia University, è stato arrestato l’8 marzo 2025 senza accuse criminali, per essere poi trasportato in un centro di detenzione in Louisiana. E’ un residente legale - quindi possiede una green card - ed è noto per aver condotto proteste contro il genocidio all’interno del campus universitario.
Rumeysa Ozturk, dottoranda alla Tufts University, è stata arrestata il 12 marzo 2025 da agenti ICE con visi mascherati e senza distintivi di riconoscimento. La sua possibile accusa è quella di aver scritto un editoriale per il giornale universitario in cui riconosceva il genocidio e chiedeva di boicottare le imprese legate a Israele.
Badar Khan Suri, ricercatore alla Georgetown University, è stato arrestato il 17 marzo 2025, senza essere accusato di alcun crimine, ma la sua detenzione sembra legata al matrimonio con una cittadina statunitense di origini palestinesi.
Alireza Doroudi, studente iraniano dell’University of Alabama, è stato arrestato il 27 marzo 2025, nonostante avesse uno status regolare e nessun coinvolgimento in azioni di attivismo politico.
Ripetiamo i loro nomi, spargiamo le loro storie, perché non si consumino nel silenzio.
Anche quando pensiamo che non ci riguardi, che il nostro sforzo è inutile, che non ne valga la pena, ricordiamoci le parole di Martin Niemöller, ancora oggi più vive che mai.
«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare.»
Autore
Clara Dall’Aglio