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Che l’anno nuovo porti gioie e sorprese: è la classica frase di rito che accompagna il brindisi con un calice di prosecco allo scoccare della mezzanotte del primo gennaio di ogni anno. Un augurio semplice, ma carico di speranza. E se stavolta questo augurio non fosse rivolto all’anno in sé, ma ai giovani studenti e studentesse che si apprestano a vivere un nuovo anno scolastico?
Durante una camminata – uno di quei momenti in cui si cerca di dare ordine ai pensieri – mi è capitato di incrociare una classe di liceo, probabilmente una quinta. Li ho visti ridere, scherzare, chiacchierare tra loro al loro ultimo “primo giorno” di scuola. Una scena che mi ha fatto riflettere.
Mi sono seduto, lasciando fluire i pensieri. E tra questi, uno in particolare: da quest’anno, quegli studenti non potranno più usare lo smartphone in classe. Una misura che sa di proibizionismo, e che – come ci insegna la storia – raramente funziona. Quando desideriamo qualcosa, troviamo comunque il modo di ottenerla. Magari anche in modi discutibili, che sarebbe meglio evitare.
Ma la questione è più profonda. Ancora una volta, ci si affida a divieti anziché ascoltare chi davvero conosce le nuove generazioni. Uno di questi esperti è Matteo Lancini, psicoterapeuta e studioso dell’adolescenza. Nei suoi libri e interventi, Lancini ci ricorda che viviamo in una società onlife, dove il confine tra reale e digitale è sfumato. E per i giovani, lo smartphone non è solo uno strumento: è un mezzo essenziale per costruire relazioni, per appartenere.
Vietare l’uso del cellulare a scuola non risolve il problema, anzi, rischia di aumentare le distanze. Le relazioni umane, soprattutto in età scolastica, sono fondamentali. Sono quelle che ci aiutano a crescere, a capirci, a diventare – nel bene e nel male – ciò che siamo.
Mentre riflettevo, mi sono tornati alla mente i ricordi dei miei anni tra i banchi: i tentativi goffi di nascondersi per non essere interrogati, le pause troppo lunghe in bagno per sfuggire a una lezione noiosa, le risate tra compagni. Ma anche quei legami, profondi e autentici, che hanno fatto la differenza.
Sì, forse questo flusso di pensieri sembra disordinato. Ma se ci fermiamo un attimo, possiamo vedere il filo che li unisce: la scuola come luogo di crescita umana, non solo culturale.
Negli ultimi anni, riforme mal pensate e tagli hanno messo in difficoltà il sistema scolastico. Ma, come diceva Antonio Gramsci: “Quando tutto sembra perduto, bisogna tranquillamente mettersi all’opera e ricominciare dall’inizio.”
E allora sì, vietare il cellulare non serve a nulla, se prima non si valorizza la figura di chi ogni giorno sta in classe con i ragazzi: gli insegnanti.
Non parlo di eroi da film, non del Robin Williams de L’attimo fuggente. Parlo di quei docenti veri, che con passione e dedizione hanno lasciato in ognuno di noi qualcosa di importante. Tutti, almeno una volta, abbiamo avuto un insegnante che ci ha fatto sentire visti, ascoltati, capiti. Personalmente ne ho avuti tanti e non basterà mai un semplice “grazie”.
Mi accingo a concludere, anche se vorrei scrivere ancora per ore di quanto per me la scuola sia stata (e sia) uno strumento fondamentale. Ma capisco che l’essere prolisso è un bene quanto un male al tempo stesso.
A tutti gli studenti e le studentesse, auguro di vivere intensamente ogni istante tra quei banchi, tra le pagine di un libro o davanti a una poesia di Leopardi, o cercando di risolvere un’equazione che sembra impossibile.
Perché quei momenti non torneranno più.
Non sottovalutateli. Non sottovalutate voi stessi.
Perché questi, più che mai, non sono “gli anni del grande Real”.
Sono gli anni del “tranquillo, siamo qui noi”.
Autore
Pietro Intini