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Dalla finestra socchiusa della cucina di un appartamento al terzo piano di una villetta a schiera, si spandeva nell’aria un dolce profumo di frutta. Se un osservatore curioso si fosse fermato a guardare la luce che filtrava dalle tende dal marciapiede adiacente, ricoperto da un sottile strato di neve, avrebbe intravisto l’ombra di una figura. Sembrava un’ombra giovanile, ricurva sul tavolo, con le spalle rigide e intenta a mescolare qualcosa in una ciotola. Forse, dalla distanza, e magari anche dal freddo secco tipico del mese di dicembre, l’osservatore curioso non avrebbe potuto notare le sue mani tremanti e gli occhi colmi di lacrime. Non avrebbe fatto caso alla quantità esorbitante di ciotole sporche gettate alla rinfusa nel lavandino né tantomeno al vapore che il forno, ormai stanco di tutto quel lavoro, rigettava fuori sbuffando. Stringendosi nel suo pesante cappotto di lana e assicurandosi di non aver perso nessuno dei recapiti che gli erano stati assegnati, l’osservatore curioso scese dal marciapiede e si avviò verso la villetta. Attraversò la strada, stando attento a non scivolare e sbuffò per il freddo. Il periodo natalizio era arrivato, portandosi dietro qualche sporadica nevicata e aveva preannunciato quella frenesia tipica delle feste con una miriade di luci appese ai balconi delle case, ai rami degli alberi addormentati, alle porte d’ingresso degli appartamenti. Arrivato all’uscio si tolse i guanti e con le dita arrossate suonò il campanello. Il profumo di frutta che aveva sentito dal marciapiede si fece più intenso e gli ricordò le crostate con la confettura di albicocche di sua moglie. Strofinandosi la fede, ripensò al sorriso di Rebecca quando gliel’aveva fatta assaggiare la prima volta e lui estasiato le aveva detto essere la torta più buona che avesse mai mangiato. Lì, all’uscio della porta di una casa non sua, pensò che non vedesse l’ora di rivedere sua moglie e il suo sorriso luminoso, di darle un bacio e stringerla a sé. Attese qualche minuto e una voce distorta e metallica rispose scocciata: «Chi è?». Lui si era abituato alla scortesia dei citofoni e semplicemente rispose: «Il postino!». Un clangore meccanico aprì il portone d’ingresso e il postino salì fino al terzo piano, fermandosi alla porta da cui proveniva quella fragranza fruttata. Qui, premette il campanello con l’indice destro e attese nuovamente. Quando la porta si aprì una vampata di calore lo invase e le sue guance fredde pizzicarono. L’ombra che il postino aveva intravisto dalla finestra gli si presentò davanti agli occhi con la fretta nei modi e il disordine nei capelli: una giovane donna, non doveva avere più di venticinque anni, dagli occhi lievemente gonfi e arrossati, con indosso un grembiule a quadri rossi e verdi sopra una tuta grigia e un mestolo di legno sporco in mano. I capelli ramati erano raccolti alla bell’e meglio in uno chignon, qualche ciuffo ostinato le ricadeva morbido ai lati del viso. «Oh, ciao Giulio! Dalla voce non ti avevo riconosciuto!» lo salutò la ragazza distrattamente, soffiando via una ciocca di capelli dalla fronte: «Ti va di entrare un attimo a riscaldarti? Mi sembri congelato come un merluzzo!» «Ciao Gemma,» le rispose lui: «non mi sento più le dita a suonare continuamente i campanelli, questi guanti non sono abbastanza pesanti, se posso riscaldarmi quanto basta le mani, poi continuo a consegnare la posta.» «Ma certo, entra pure» convenne Gemma. Gemma conosceva Giulio da molto tempo, era il postino del quartiere ed era amico della nonna della ragazza, Marisa ch’era stata, per tutta la vita, una pasticcera: “La più brava di tutta la città!”, così dicevano i suoi compagni di briscola quei pomeriggi in cui Gemma l’andava a prendere al circolo della zona. Il postino entrò nell’appartamento della giovane e poté non solo ritrovare il tepore che il suo corpo aveva perso per il freddo, ma constatare anche, coi suoi occhi, il disordine che regnava in cucina. La ragazza tentò di giustificarsi: «Sto cercando di cucinare un dolce seguendo una ricetta di mia nonna Marisa, come vedi non sta funzionando molto…» Giulio si lasciò scappare una risata sommessa e senza lasciargli tempo di replicare, Gemma continuò a parlare: «La nonna era brava e aveva talento, io faccio proprio cilecca! Ma, prego accomodati pure, ti verso un bicchiere d’acqua, siediti qui, si ecco, qui.» disse a Giulio avvicinandogli una stretta sedia di legno, che sembrava alquanto scomoda: «Scusami tanto, non ti faccio sedere in salotto perché devo proprio finire, sai, mi sono proposta per cucinare un dolce per la cena aziendale di questo venerdì e se non finisco stasera non avrò tempo i prossimi giorni, non si può fare una cena aziendale senza alcun dessert!» gli raccontava mentre riempiva con dell’acqua un bicchiere preso da una credenza: «Figurati! Nessun dessert a una cena aziendale, che assurdità! E-» «Gemma» la interruppe il postino: «ho posta anche per te». La ragazza fermò quel turbinio di parole e si zittì immediatamente. Poggiò il bicchiere accanto al postino, in un angolo vuoto del tavolo e aspettò che Giulio tirasse fuori dalla sua borsa una busta. Era un involucro color panna, vecchio stile, con decori colorati e il nome del destinatario, il suo, era scritto con una calligrafia che la ragazza non vedeva più da mesi ormai. Giulio teneva la busta con la mano sospesa a mezz’aria, aspettando che Gemma la prendesse, ma la ragazza era interdetta. Un’espressione corrucciata formò due rughe tra le sopracciglia chiare della giovane e dallo stupore emise un sottile mormorio: «Non è possibile…» Gemma prese la busta e guardò il postino, poi ancora la busta e di nuovo Giulio: «Ma questa è la scrittura della nonna, com’è possibile? Quando te l’ha data?» «È venuta a trovarmi alle poste quando ero in turno qualche mese fa, sai che la sua pasticceria era proprio lì accanto» iniziò a spiegare Giulio. Gemma annuì, spronandolo a continuare: «Doveva pagare una bolletta per il negozio e nel consegnarmi il pagamento mi ha anche consegnato questa busta qui. Io non avevo capito cosa dovessi farci e lei mi disse semplicemente che avrei dovuto farle un ultimo favore.» “Devi consegnarla a mia nipote quando io non ci sarò più. È importante che non te ne dimentichi”, aveva sussurrato la signora Marisa davanti a Giulio, allo sportello delle poste: “è il mio ultimo regalo per lei, per starle sempre accanto quando ne avrà bisogno, quando non saprà a chi rivolgersi” disse Marisa con un tenero sorriso sulle labbra e continuò: “Consegnagliela quando ti sembrerà smarrita, quando sembrerà aver perso di vista il filo della propria felicità.” «”Portagliela tu, come se gliela portassi io”, così mi ha detto» finì di spiegare il postino: «Poi ha pagato la bolletta ed è uscita tranquillamente dalle poste. È rientrata in pasticceria, risistemandosi il grembiule sul vestito e ha ripreso a lavorare». Giulio si alzò dalla sedia e chiese a Gemma di accompagnarlo alla porta: «Ora, se non ti spiace continuo a lavorare, buona fortuna col tuo dolce e buona lettura Gemma». La giovane ringraziò il postino e si chiuse la porta di casa alle spalle, non sapendo cosa aspettarsi dalle parole della nonna racchiuse in quella lettera. Quando Gemma rimase sola, il silenzio si fece più pesante del solito. Si sedette al tavolo della cucina e con mani tremanti aprì lentamente la busta. Dentro c’era ripiegato con cura un foglio profumato di vaniglia. Un sorriso colorò di ricordi le guance della ragazza: la nonna usava sempre i sacchetti di zucchero vanigliato, persino per conservare le ricette. Gemma trasse un respiro profondo e cominciò a leggere:
Cara Gemma, nipotina mia, se stai leggendo questa lettera, vuol dire che io non ci sarò più e che il mondo ti sta tirando da tutte le parti. Sai, è un vizio dei tempi: si corre, si rincorre, si sgomita, come se la felicità fosse una gara un’eterna competizione. Tutti quelli che mi hanno conosciuta pensano che io sia stata felice perché mi vedevano tutta sorridente dietro il banco del mio negozio, con i dolci esposti in vetrina e le mani sporche di farina, col profumo dei biscotti nell’aria. Era vero, in parte. Ma la felicità, tesoro, non sta nel fare tutto perfettamente e mascherare gli errori col sorriso; sta nel procedere piano, con cura e attenzione. In cucina ho imparato che le cose buone richiedono tempo. La pasta frolla deve riposare. Il panettone non si può convincere a lievitare prima. Le creme impazziscono se le giri con troppa fretta. Ecco, anche la vita funziona così: se corri troppo rischi di dimenticare gli ingredienti più importanti. Per favore, te ne prego, non metterti a inseguire una felicità che non è la tua. Piuttosto, rallenta. Assaggia e assapora quello che vivi, un pezzetto alla volta. Fatti delle domande e lascia riposare ciò che ti fa male. Ricordati che non serve molto per stare bene, per essere felice: un po’ di cura, un po’ di calore e la volontà di ascoltarti davvero. Dopo una vita a preparare dolci l’ho capito, non esisterà mai la ricetta perfetta, esiste solo il modo in cui tu puoi creare e preparare la tua. Ti auguro di essere felice con tutto il mio cuore, Ti voglio un bene immenso tesoro mio, ti proteggo anche da quassù. Un abbraccio, Nonna Marisa
Le lacrime sul viso della giovane rischiavano di bagnare l’inchiostro delle dolci parole di nonna Marisa. Da sempre Gemma aveva avuto un legame molto stretto con la nonna e leggere quelle parole sembrava averle tolto un enorme peso dalle spalle: quello delle aspettative. Come se Marisa, accanto a lei, le avesse sussurrato all’orecchio che sarebbe andato tutto bene, che si sarebbe potuta fermare un attimo, per respirare, per capire dove si trovasse, per riprendere il filo della propria coscienza, persa chissà dove, schiacciata tra una riunione aziendale e l’altra, nel mezzo della settimana. Gemma trovò il coraggio di fermarsi un attimo. Si guardò attorno, tra le miriadi di ciotole sporche di uova e farina nel lavandino e si portò le mani coperte d’impasto ormai seccato al naso, annusandone il profumo fruttato. Il suo sguardo andò al calendario appeso accanto alla porta della cucina, ogni giorno della settimana era pieno di colori diversi e tra quei colori individuò la data di venerdì e il promemoria della cena aziendale, segnato in un rosso acceso. È questa la vita che voglio? si chiese. Se dal marciapiede adiacente alla villetta un osservatore curioso si fosse fermato a guardare la luce che filtrava dalle tende della finestra della cucina dell’appartamento al terzo piano, avrebbe intravisto l’ombra di una figura in movimento. Non vi avrebbe trovato fretta nei modi, ma risolutezza. Non avrebbe potuto notare il sorriso nostalgico sul viso della giovane, né tantomeno la leggerezza che sentiva nel cuore mentre sistemava le stoviglie e riponeva la farina nella dispensa. Giulio, il postino, non avrebbe potuto vedere né capire nulla di tutto questo, ma dopo aver aspettato qualche tempo sotto il portone della villetta, per sicurezza, si strinse nuovamente nel cappotto e maledicendo il tessuto troppo leggero dei suoi guanti si avviò a consegnare le ultime lettere, continuando a pensare al sorriso di sua moglie Rebecca e alla dolcezza della crostata con la confettura di albicocche.