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Mi sono svegliato in un corpo che non riconosco.
Chi sono?
Mi sono svegliato e non sento nulla se non un sottile fischio, continuo, costante, crescente.
Mi sono svegliato e intorno a me tutto è indistinto.
Faccio fatica a tenere gli occhi aperti: c’è polvere sospesa nell’aria, fluttuante, lenta come una neve sporca che non tocca mai terra.
Mi sono svegliato e non respiro: la polvere mi sale alle narici, mi graffia la gola, mi annebbia i pensieri. Ho un peso enorme sul petto: il mondo mi grava addosso e mi schiaccia.
Non riesco a capire dove mi trovo, non c’è luce e tutto sembra avere un’insolita inconsistenza. Non distinguo il sopra al sotto, la destra dalla sinistra: l’ordine del mondo mi pare sovvertito.
Mamma dove sei? Ti avevo vicino, dormivi accanto a me tenendomi la mano, ma non ti trovo più, non sento più la tua mano delicata stretta alla mia… dove sei mamma?
I boati delle bombe scuotono e fanno tremare tutta la Terra, scandiscono lo scorrere del tempo. Rendono le notti infinitamente lunghe. Le ore si dilatano e si caricano di una spasmodica e logorante attesa. Il sonno non si trova, non si cerca: si teme. Il buio permea di paura profonda e di lievi speranze sussurrate -piano- ricolme di misericordia.
Mi sono svegliato e ho pregato Allah di darmi la forza, di concedermi abbastanza respiro per un giorno ancora. Un altro giorno d’inferno, uguale a tutti gli altri.
Emergono dai flussi della mia coscienza brandelli di un incubo: corro per le strade di un quartiere che non è più il mio, il cielo che ricordavo essere blu -di un blu immacolato come quello delle lunghe e afose giornate d’estate, - è rosso, rosso come il sangue: un sangue scuro come la morte, invaso da una coltre sottile di fumo perenne. È il fumo che lasciano i missili quando percuotono la terra: quando colpiscono noi, indiscriminatamente.
Cerco casa mia -dove sei? - ma non trovo il quartiere, le strade né le case, né alberi o lampioni… Mi muovo in un labirinto tetro di desolazione, detriti, spaesato, impaurito, solo. Il mio sguardo passa in rassegna gli scheletri delle cose, delle persone, non è rimasto nulla e tutto mi pare estraneo: le case sono sradicate, diroccate, vuote, ridotte a brandelli. Distinguo, tra le macerie e i tralicci di quotidianità ormai persa da anni, stracci di vestiti, una carcassa d’auto, materassi e cuscini, barattoli di spezie, un frigorifero, una bambola di pezza -doveva essere di una bambina, lì vicino un sandalo rosa coperto di polvere: quella bambina ora dov’è? - mi viene da vomitare e mi tremano le gambe.
Corro nella polvere, i miei passi stanchi rimbombano dentro il battito frenetico del cuore. Sento il tuono mortale delle bombe, fragori forti che si propagano fino alle viscere, fischi di proiettili pronti a stroncarmi la vita.
Nella mia corsa sfrenata -verso una qualche salvezza, una qualche luce, forse il blu del cielo o il tepore del Sole- un bagliore mi costringe per un momento a chiudere gli occhi. Mi fermo col fiatone, le lacrime e il caos in testa. Una grossa pentola grigia riflette un debole raggio di luce e -lì accanto-un corpo è riverso a terra. Chi è?
Riconosco la maglia a strisce rosse-blu e mi si mozza il respiro. Una sfilza di proiettili sulla schiena impregna il tessuto di sangue, un sangue innocente. Mi avvicino cauto ansimando, delle mosche ronzano attorno al corpo senza posarcisi -forse riconoscono l’ignominia dei proiettili ed esitano a cibarsi di un cadavere indifeso-. Il viso esanime poggia sul terreno, mi piego e con una mano lo rivolto: distinguo, tra il sangue incrostato e la tumefazione dei suoi lineamenti, l’espressione di perenne stupore di Kahled.
Sobbalzo sconcertato e mi ritraggo con orrore, l’odore di morte mi confonde. Dove vado? Sento delle urla, il frastuono delle sirene dell’ambulanza mi sfreccia accanto: qualcun altro dev’essere rimasto ferito. Nella baraonda corro via, non riesco a fare altrimenti, la paura mi spinge avanti.
Kahled è il mio migliore amico: ha due grandi occhi marroni e delle folte e arcuate sopracciglia nere, forse per questo sembra sempre stupito di tutto. Kahled è rimasto ucciso mentre andava a prendere una razione di cibo per la sua famiglia.
Qui si muore e si muore anche di fame. Si muore perché si esiste, si resiste.
Un odore acre mi costringe a fermarmi di nuovo: sul ciglio della strada cadaveri divelti e corpi inermi sono disposti ordinatamente uno accanto all’altro. Mi pare di aver visto il velo di mia madre -la tua mano dolce stringeva la mia, dove sei mamma? – un senso d’inquietudine mi pervade, scuoto la testa e mi strofino gli occhi: ho visto male, no?
Mi avvicino ai corpi, alcuni li sposto, un volto mi scruta con occhi spenti: gli occhi grandi e marroni di Kahled. Urlo di terrore e immediatamente mi pizzico un braccio, ma non cambia nulla: che incubo è mai questo?
I volti iniziano a confondersi, si moltiplicano, vorticano nella mia mente: Kahled, la mamma, parenti, amici, vicini, mi sembra persino di vedere il mio volto. Un teschio mi fa un sorriso ossuto: chi è? E io chi sono?
Mi copro la vista con le mani: non voglio che immagini di morte mi colmino gli occhi. Dove vado?
Corro ancora, evitando vetri che scintillano nella polvere. Mi chino su un frammento: vedo un viso sconosciuto, impolverato, con le labbra secche per mancanza d’acqua, le guance scavate per mancanza di cibo, scavato dalla fame, assetato, irriconoscibile. Mi guardo e non capisco più chi sono…
Non riesco a distinguere ciò che vedo da ciò che percepisco, il confine è talmente sottile da sfumare assieme alle mie sicurezze.
Mi sono svegliato mamma e l’incubo permane, è proprio qui: si riflette nell’ombra di rassegnazione dei miei occhi e di quelli dei pochi sopravvissuti. Si riflette nella magrezza malata dei neonati, nella fame delle pance gonfie, nelle bende dei mutilati, nell’arsura delle nostre gole, nel dolore dei nostri animi, nella vaga speranza dei nostri cuori stremati.
Anche oggi mi sono svegliato in un Inferno e anche oggi ho pregato Allah di potermi sollevare come quegli aquiloni con cui giocano i più piccoli dei bambini sfollati: di librarmi alto, nel cielo, senza la minima paura. Sentire il vento soffiarmi sul viso e indicarmi la via di casa, farmi guidare verso la mia famiglia.
Mi sono svegliato mamma, ti chiamo, ti chiedo se tutto questo è un sogno. Ti supplico di dirmi che lo sia, ma non mi rispondi.
Dove sei mamma?
Autore
Erica Zambrelli