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Ti avevo intravista una sera di fine giugno.
Quell’estate sarebbe stata “la più calda degli ultimi due anni”, almeno così sostenevano i giornalisti le cui voci monòtone gracchiavano in casa già dalle prime ore del mattino: mio padre, uomo robusto e burbero, era solito ascoltare i titoli del primo telegiornale, indossare la propria uniforme e con uno sbuffo sostenuto uscire di casa per ritornare -sfinito e soddisfatto- solo la sera.
Me ne stavo seduto a leggere sulla spiaggia, aspettando che anche l’ultimo bagliore del sole si gettasse nelle profondità marine quando all’improvviso, una melodia mi distrasse e mi costrinse a chiudere il libro gonfio di salsedine che mi costringevo a portare appresso dovunque andassi. Era La bella estate, di Pavese. In realtà, non mi era ancora chiaro il motivo per cui mi fossi così tanto affezionato a quella lettura; in qualche modo aveva fatto breccia nella mia sensibilità di ventenne -per quanta sensibilità un ventenne possa riconoscere di avere, sia chiaro-.
Drizzai la schiena, tentando di distinguere quel sottile suono da quello placido e pacato delle onde che s’infrangevano a ritmo cadenzato sulla banchina, schiacciata dalle orme profonde di chi vi era passato e che faticavano a essere modellate dall’opera puntigliosa della spuma. Per qualche tempo rimasi immobile, in silenzio, con le orecchie ben tese tenendo lo sguardo incollato all’orizzonte: l’arancione e il giallo -ora solo sfumati- un rosa pallido, assieme a un viola appena più acceso, avevano iniziato a trascolorare il giorno e annunciavano l’arrivo della sera.
In lontananza, una melodia indistinta faceva fremere la mia immaginazione. Incuriosito, raccolsi le poche cose che mi ero portato per passare un tranquillo pomeriggio in spiaggia e infilandomi le ciabatte ai piedi ancora ricoperti di sabbia bagnata, mi avviai verso la strada. Il motivo accrebbe, ma ancora non riuscivo a riconoscere di cosa si trattasse.
Il lungomare a quell’ora era sempre gremito: chi tornava a casa dopo una lunga giornata sotto il sole, chi andava a comprarsi qualcosa da mangiare per cena, chi faceva semplicemente due passi e chi invece si metteva in macchina per lasciare la casa o l’hotel in cui aveva trascorso le vacanze: ogni estate la stessa storia.
Con l’asciugamano sulla spalla, in costume, mi allontanai da quella marea indistinta di persone imboccando una via perpendicolare alla spiaggia, che si dirigeva verso il centro della cittadina.
Il suono si faceva più nitido a mano a mano che mi avvicinavo e finalmente, dopo qualche passo, mi fermai: il basso, la chitarra, la voce, come non avrei potuto riconoscere quel brano? Era she moves in her own way dei Kooks, una band indie-rock britannica che mio padre ascoltava spesso.
Che coincidenza, chi mai poteva ascoltare a volume così alto quella canzone?
Poi li vidi: un gruppetto di ragazzi, appena prima della piazza, formava un cerchio. Uno di loro portava sulla spalla uno stereo e tutti erano intenti a molleggiare sulle gambe, per tenere il ritmo della canzone.
Mi parve strano, come mai erano in cerchio? Non riuscivo a capire, non vedevo molto bene da dov’ero: un venditore ambulante mi stava passando davanti portandosi appresso una biciletta a cui aveva legato miliardi di cianfrusaglie tenute insieme da una corda troppo sottile, per i miei gusti. Avanzava lento per evitare che tutti i suoi prodotti si sparpagliassero per la strada.
Iniziai ad allungare il collo a destra e a sinistra per cercare di non perdere di vista quei ragazzi e quando mi riuscì di passare il venditore, cercando di non urtare le persone sul marciapiede, raggiunsi corricchiando quello strano cerchio di giovani.
Non volevo pensassero fossi interessato a loro, così mi misi a scorrere con gli occhi i titoli di giornale esposti alla cartoleria lì a fianco. Ogni tanto gli lanciavo un’occhiata, non troppo lunga per non rendere la situazione più ambigua di quanto già non fosse.
Ti avevo intravista al centro del cerchio.
Allora capii il motivo per cui si fosse creato: ti stavano guardando ballare. Ti avevano offerto la musica e tu ci ballavi sopra. Non eri capace, non eri brava per niente, ma sembrava che il ritmo ti fluisse nelle vene e ti muovesse da dentro.
C’era caldo, avevi i capelli sciolti e qualche ciocca ebano era appiccicata teneramente ai lati del tuo viso.
Avevi la pelle chiara nonostante il segno del costume, il naso e le guance un po’ scottate; un sorriso gentile stampato sul volto. Avevi gli occhi socchiusi e i piedi nudi.
Allargavi e stringevi le braccia, muovevi le mani in modo strano, sensuale, come se stessi carezzando l’aria, ti spostavi leggera, spesso ruotavi su te stessa. Non seguivi un ordine preciso, i tuoi erano movimenti casuali, creati dal nulla, irregolari, a volte fuori tempo, ma eri meravigliosa.
«Ehi!» un richiamo cercò di sorpassare il volume della musica. Ti eri sporta dal cerchio, mi avevi rivolto un cenno. Mi guardai le spalle, sicuramente avevi salutato qualcuno dietro di me.
«Ehi! Tu, col libro sottobraccio!» urlasti di nuovo. M’indicai, tu annuisti: «Coraggio, vieni!».
Mi posizionai al bordo del cerchio e tu immediatamente mi prendesti le mani trascinandomi al centro.
Ti avvicinasti al mio orecchio: «Ti ho intravisto sai, fissarci da lì dietro» ti misi a ridere, una fossetta comparve sulla tua guancia sinistra: la trovai estremamente carina.
«Ma non c’è problema,» dicesti facendo una piroetta su te stessa: «ora puoi ballare con noi!» esclamasti allargando le braccia verso gli altri.
Mi guardai attorno spaesato: dalle espressioni dei loro volti non sembrava importasse chi fosse all’interno del cerchio, bastava che qualcuno mantenesse vivo il ritmo.
La canzone non era più quella dei Kooks da un po’ ormai, ma la base era più o meno simile.
Non so per quanto ballammo in quel cerchio, ricordo solo che non ti staccai gli occhi di dosso. Non ero aggraziato come te; tentavo di copiare qualche tuo movimento, ma con scarso successo.
«Non guardare loro, non ci pensare, ci siamo solo io e te» mi dicesti sorridendo quando notasti che non mi stavo muovendo più di tanto. Quindi mi prendesti le mani e ballammo così, per diverso tempo, senza dirci una parola; sembrava giusto ballare e nient’altro.
Ballare come se ci fosse solo lei e la musica, solo io e lei, pensavo.
Non ti conoscevo, tu non conoscevi me: mi sembrava di capire che non t’importasse. Mi aveva sorpreso la tua leggerezza, si addiceva alle sere d’estate e ai colori del tramonto.
Ancora oggi ti ricordo come una leggera brezza estiva.
Abbiamo ballato insieme -così- più volte.
Serena, questo è il tuo nome. Me lo urlasti dalla parte opposta della strada tra i tuoni, la pioggia e il vento quel giorno in cui mi baciasti per la prima volta.
Inutile dire che ti si addice, come le sere d’estate e i colori del tramonto.
Mi ero innamorato, forse, Serena, ma la tua leggerezza ti ha fatta volare via da me. Nonostante questo, ogni volta che ascolto qualche canzone dei Kooks sei sempre lì, all’angolo della strada prima della piazza, in quel cerchio a invitarmi a ballare con te.