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Contro un cielo di lamiera, con movimenti fiacchi, quel mattino albeggiava lui.
Da un’apertura del suo abituro, una finestra di plexiglass incastonata in un accrocco di lamine, s’intravedeva un anziano camminare. Dopo essersi svegliato, aveva rimescolato i lineamenti del proprio viso per scacciarne il torpore prima di iniziare ad eseguire con dedizione la catena d’impegni a cui ineluttabilmente dedicava tutte le sue giornate. Aveva indossato gli occhiali, s’era alzato dalla sua brandina e aveva sottratto alla polvere del pavimento alcune istantanee, per poi – avendole prima baciate a lungo – risolversi a posarle di nuovo di fianco al suo giaciglio.
Dopodiché, aveva misurato a passi lenti e frangibili l’intero perimetro di quel rifugio. Con lo sguardo rivolto all’insù, ne aveva controllato la salute – tastandone le pareti, carezzandone ogni angolo – accertandosi che un’altra notte fosse passata senza che gli spostamenti d’aria delle macchine, i respiri taurini dell’autostrada, avessero ferito la sua amata abitazione.
Da quando non aveva più potuto permettersi di aggiornare il proprio corpo, sostituendo almeno le mani, le braccia o la schiena (che per la Legge del Lavoro erano considerati gli organi vitali dell’operaio), era stato definitivamente condannato alla pensione. Dimenticato da tempo dai figli – che senza accorgersene sfrecciavano di fianco a lui più volte al giorno – veniva ora abbandonato anche dallo Stato, il quale gli aveva tolto gli approvvigionamenti e il diritto alla casa per sempre.
Nell’arco di poche ore s’era ritrovato a caricare la moglie, improduttiva più di lui, e poche masserizie sulla macchina del vicino di casa. Dopo aver reciso le loro stesse radici e aver ceduto quella loro teca di ricordi a un giovane ben più performativo di loro, i due s’erano fatti trasportare dal vicino in un bassopiano isolato al fianco dell’autostrada. Spazientito dall’inutile perdita di tempo, quel fattorino di anime li aveva depositati come pacchi, accomiatandosi poi con un cenno del capo.
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Ritrovatisi soli fra quei boschi di smog, che sembravano volersi nascondere fra le montagne e i vasti piloni che sorreggevano la strada, nel corso della primavera avevano scavato con le unghie delle rudimentali fondamenta e vi avevano eretto un pavimento di fango essiccato, su cui avevano accozzato una baracca con materiali di scarto trovati nei dintorni. Abituatisi all’etichetta infamante che gli era stata affibbiata – Pensionati –, in quei mesi i due si erano sforzati di ricreare un’umile magione in cui essere nuovamente liberi di amarsi.
Tuttavia, gli sforzi fisici e l’esposizione continua alle impietose intemperie degradavano visibilmente le condizioni della donna. Finché, dopo poco, camminare non le era diventato impossibile.
Per i primi tempi lei stava a guardarlo amorevolmente mentre lui lavorava per entrambi, ringraziandolo di continuo per la fatica:
– Grazie. Davvero, grazie. Non merito i tuoi sforzi e nonostante ormai io non valga nulla tu li fai ugualmente. Ti amo. Grazie. Dovresti gettarmi via... grazie!
Al che il vecchio, commosso, correva a sollevare il morale della moglie, sempre più contratta in sé stessa, riempiendola di baci e rimproverandola per le cose che diceva: lei valeva più della vita stessa e sarebbero stati felici ancora per anni, loro due insieme!
Il tempo sfuggiva lontano, inesorabile. E con esso, le energie della vecchina.
Giunti alle porte dell’inverno, lei non lo guardava più lavorare. A dire il vero, non lo guardava proprio più. Giaceva buttata su un fianco e tossiva con forza, con gli occhi serrati, tutto il giorno.
L’anziano sfiniva ogni sua fibra nel tentativo di riscaldare quella carcassa. Correva per il bosco per accumulare legna, soffiava, agitava le braccia: si batteva con il gelo, giurando a sé stesso che avrebbe mantenuto vivo quello stanco fuocherello.
Tosse.
Avendo quasi terminato le provviste che si erano portati dalla loro vecchia vita, tentava di percorrere i sentieri novembrini alla disperata ricerca di bacche, frutti, nutrimenti di qualsiasi tipo, ma sentiva le gambe tagliolate dal futuro che incombeva.
Rantoli.
Dopo un mese e mezzo di questa sua battaglia con la Fine, un pomeriggio s’era infilato sotto al loro unico piumone, insieme a lei. Le aveva cinto i fianchi delicatamente, quasi di soppiatto, e l’aveva baciata lentamente sul collo, non separando le labbra dalla cute dell’amata neanche durante i colpi di tosse più brutali. Lei non sembrava nemmeno essersi accorta della sua presenza.
Ansimi.
Era rimasto in quella posizione per ore, ascoltandola boccheggiare con l’impressione di abbracciare un ricordo distante. Provando a distrarsi – se così si può dire – dai presentimenti che gli appestavano la mente, aveva iniziato a ripercorrere a voce alta alcuni momenti felici del passato, con la fioca speranza di ricevere una reazione da parte del busto martoriato che stringeva fra le braccia.
– Ti ricordi quando ci siamo conosciuti? Passavo tutti i giorni davanti casa tua in quel periodo quando andavo a lavorare e ti vedevo annaffiare i fiori, le tue amatissime peonie... Oh! Quanto eri bella!
Interrotto da un accesso della bronchite di lei, l’aveva sorretta per diversi secondi per aiutarla a respirare, poi era tornato a sdraiarsi e l’aveva girata, poggiandole la testa sul suo petto. Lasciando vagare lo sguardo sul tetto metallico del loro rifugio, aveva continuato, scherzosamente:
– Dai, su! Non c’è bisogno che ti arrabbi, sei bellissima anche adesso! Ah... che bel periodo quello. Me lo ricordo ancora benissimo, sai? Ti pensavo ogni sera quando uscivo dall’officina, fin quando un giorno, anche a costo di fare ritardo a lavoro, ho attraversato la strada per parlarti, non so... con una scusa, e ti sono venuto a dire...
– T’amo – era prorotto dalle labbra di lei.
Lui, esterrefatto, era trasalito e aveva chinato la testa di scatto per guardare quel viso scuro, intarsiato di rughe, che era ora più bello che mai. Per un attimo, solo un attimo, due iridi piccole e dolci avevano fatto capolino dalle umide ciglia.
Con immensa fatica, quelle due parole compresse in una sillaba sola le erano sfuggite dai bronchi e avevano lasciato l’oltretomba per raggiungere l’amato, per poi spegnerlesi inermi sulle labbra, sigillate in eterno da quell’adorabile sorriso.
Aveva smesso di tossire.
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Era rimasto immobile. Due giorni infiniti di sangue che circola in corpo, di lacrime mute sul volto eran trascorsi, e lui era rimasto immobile.
Le macchine sgomitavano rapide e si accanivano sull’asfalto, trascinandosi dietro come i cavalli di Elio giorni e notti che duravano istanti. Ma lui era rimasto immobile.
Aveva deciso che sarebbe rimasto in quella posizione, percependo con ogni sua cellula il peso leggero del cumulo d’ossa che si ostinava a tenere sul petto. Il suo futuro proseguiva senza di lui, che lo ignorava e ignorava la fame e il sonno pur di rimanere presente. Avrebbe sfiorato la morte pur di esperire totalmente l’ultima volta che la sua piccola amata vecchietta si era accoccolata su di lui di sua spontanea volontà.
A questo pensava l’anziano signore, scostando il terriccio in consunti vasi di latta. Con quel suo tocco sensuale scavava piccoli fori e v’inseriva simulacri di vita, semi sterili di peonia, i soli che un pensionato come lui poteva permettersi.
Stava spostando quei fusti in metallo, sulle cui etichette si leggevano antiche mansioni – SMALTO SINTETICO, PRIMER ANTIRUGGINE – quando un’ombra era stata sbalzata dall’alto dell’autostrada.
Con andatura affannosa si era precipitato a vedere. Una gatta bianca giaceva buttata su un fianco e debolmente tossiva, con gli occhi spalancati. Con le dita tremanti e la gola stretta dal pianto, aveva esaminato il minuto felino. Il corpo dell’animale pareva invertebrato e si lasciava maneggiare passivamente in ogni direzione; solo il musetto era ancora animato dai rantoli, dagli ansimi e da qualche sputo di sangue, per poi spegnersi.
Aveva smesso di tossire.
Marciando solenne con la gattina esanime fra le braccia e il pensiero abbandonato al passato, aveva raggiunto una croce d’acciaio, piantata nel suolo dietro alla sua casupola. Con sguardo torvo indugiava, osservando assente le zolle che un anno prima aveva ammucchiato in corrispondenza della croce.
Dopo alcuni minuti, il vecchio, poggiando la bestiola sul suolo a un metro da lui, s’era genuflesso, aveva arcuato a fatica la rigida schiena e aveva iniziato a scavare. Lentamente. Poi un po’ meno lentamente. Sempre più rapido. Con zelo crescente usava le unghie, immergeva le falangi nella terra e nei pensieri, progredendo verso il regresso, rivedendo in quelle manciate di argilla la carnagione bruna che aveva ammirato, baciato, ama-
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to per tutta la vita. Una tenue speranza gli germogliava nel cuore: più percepiva la vicinanza con ciò che gli era stato strappato per sempre, più si radicava la segreta convinzione che lo avrebbe riottenuto da lì a poco. E così, contravvenendo ai sacri dettami del Dio dei Consumi, scavava senza tregua verso il passato, lasciandosi alle spalle il futuro.
Bruscamente s’era arrestato. Gli era parso di sfiorare una superficie vellutata fra le friabilità di quel secco terreno. Spostando un altro strato d'argilla e di sabbia aveva visto ciò che sapeva che avrebbe trovato ma che ora non gli sembrava vero. Sentendosi tradito, schiacciato dal peso universale dell’ingiustizia, guardava inebetito il volto emaciato, evanescente che era stato – in un tempo prossimamente antico – quello di sua moglie.
Il vecchio muoveva il corpo per inerzia, disanimato, esausto. Meccanicamente aveva prelevato l’animale e lo aveva adagiato sui rimasugli di peonie che mesi prima aveva riposto sul corpo dell’amata, con l’intimo desiderio di renderla felice per un’ultima volta. Con gesti scattanti e gli occhi gonfi di pianto aveva rigettato la terra sulle sue due signorine.
Era rimasto da solo, gettato sul fondo di quel bassopiano sepolcrale. Torchiato come frutta sul cemento sotto ai passi del destino, scrutava la feritoia celeste tra i monti e la strada, illudendosi di intravedere qualcosa.
Aveva iniziato a tossire.
Autore
Sublime Blasfemia