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L’uomo uscì dalla fabbrica per l’ultima volta, ridotto dal licenziamento a un grumo di gemiti d’infante.
Sputato via dalle grandi fauci imprenditoriali – scagliato con forza giù da un Olimpo di carne e d’acciaio – tirò fuori dallo zaino un pezzo di cartone rettangolare, carezzandone via la polvere dalla superficie con amorevolezza. Trascorse brevi minuti eterni così, sprofondando nella caligine e nei timori.
D’improvviso rinvenne. Adagiò il suo misero Sajjada sul cemento del parcheggio e vi si inginocchiò al di sopra, recitando:
I.
Senza principi, ora e sempre,
nei secoli dei secoli.
Dio, il mio unico: se è Uomo chi possiede, dammi merce di cui nutrirmi. Acquisterò il senso della Vita.
Senza principi, ora e sempre,
nei secoli dei secoli.
Dio, il mio unico: rendimi Uno con la massa, abbatti le molteplicità. Scarnifica i sensi della Vita.
Senza principi, ora e sempre,
nei secoli dei secoli.
Dio, il mio unico: iniettami orgasmi nel dolore, concedimi altra produttività. Competo contro il senso della Vita.
Senza principi, ora e sempre,
nei secoli dei secoli.
II.
Fammi perdere coscienza, reintroducimi nel circolo del tuo santo Mercato
Che non sia la mia ultima cena, che non sia sterile fosso il solco del tuo aratro
Benedetto sia il tuo Verbo.
Si riebbe per pochi istanti, distratto dal baluginio di pensieri lontani. Sollevando di poco il capo, si accorse che la caligine si era rapidamente infittita, rendendo il ritorno a casa sempre più difficoltoso. Ormai completamente abbattuto, sembrava piangere nebbia, come se, spinto da un’inerte volontà di vendetta, avesse voluto inondare tutto e tutti con quelle sue brumose lacrime.
Di scatto richinò il cranio, abbandonandolo fra le mani, sul pavimento freddo:
III.
Illuminami il volto con la luce dei tuoi schermi O Creatore, io ti adoro
Non bandirmi dal tuo sguardo, non esiliarmi più in campagna Imploro il tuo perdono
Misericordioso Sommo non riprenderti i miei beni Voglio bene solo a loro
Non recidermi gli eccessi, non ridurmi all’essenziale Non saprei più chi sono
Realizzò, nel riporre il cartone nello zaino, di essere stato amato nel profondo. Il frammento di scatolone, che per mesi aveva sostenuto chissà che merce nel suo pellegrinaggio commerciale, aveva trovato la forza di sostenere anche lui, anonima merce vivente. E che il lettore ci creda o no, anche lui sentiva di amarlo.
Lo scatolone era divenuto scrigno, scrigno di speranze. L’uomo, invece, aveva percepito una sorta di eco genetico, come se le sue mani poggiate sull’amato cartone fossero tutte le mani in preghiera della storia, e la sua schiena dolente, prostrata a pregare un idolo di cemento, si facesse carico di tutte le schiene dolenti del mondo. L’Umanità tutta aveva pronunciato una flebile richiesta d’aiuto tramite lui.
L'amore reciproco aveva elevato entrambi: il cartone strappato, da materiale era divenuto immateriale; l’uomo spezzato, da disumano era divenuto umano. Nessuno dei due era più uno scarto dal momento che andava a colmare l’insensatezza dell'esistenza dell’altro.
Consapevole di questa compenetrazione, l’uomo, rincuorato, si sentì finalmente Uomo. Così, nell’arco di pochi minuti o secondi o istanti, si ritirò da quella vecchia vita – se così può essere chiamata – a cui sentiva di non appartenere già più, e la nebbia si ritirò con lui.
Si dice che quel giorno inseguì il futuro con una tale velocità da svanire agli occhi dei semplici umani, ancorati alle vanità del presente materiale, diradandosi e aleggiando nelle vie delle città, ridendo per sempre di tutti noi.
Autore
Sublime Blasfemia