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– Santa ketamina, santa ketamina...
– Santa ketamina, santa ketamina... – ripeté lui, stregato. Sembravano le uniche due parole che avesse mai saputo pronunciare.
– Devi per forza intonare ‘sta nenia ogni volta che stendi? Muoviti! – sbottò lei, contorcendo le sue minute, fragili mani.
Per un attimo, un attimo solo, lui interruppe il suo rito e distorse le aride labbra, lasciando intuire un ghigno felino fra i dread che gli oscuravano il volto. Riprese a declamare la sua litania. Ammaliato, accarezzava con una tessera una polvere bianca finissima, delineando con cura forme geometriche all’apparenza prive di significato: linee imprecise, collegamenti, sbavature, poligoni indefinibili.
– Lo sa! Lo sa benissimo che non la prendo da due settimane, lo fa apposta! – pensò lei, muovendo gli occhi spasmodicamente – Non so come sia venuto in mente a mia madre di mettermi in punizione, di chiudermi in quell’appartamento di merda!
Lui si immergeva, solenne, nel profondo del suo raccoglimento; fendeva e cuciva, ricuciva e fendeva ciclicamente quella sostanza inconsistente sullo schermo del telefono. Polvere, vetro e metallo: in quel bagno chimico i trent’anni della sua vita gli parevano un sospiro ora che sentiva di trascendere il presente maneggiando con destrezza i rimasugli della storia. Non si stancava mai di avviluppare le sue falangi attorno a quell’esile utensile, per poi perdersi nel ticchettio metallico sul vetro del telefono. Ne era rapito, amava con tutto sé stesso quel suo rituale, non c’era null’altro che – Ti vuoi muovere?! – strillò lei – Il pippotto è pronto da un pezzo, fai due strisce, inizio io ‘sta volta!
Le grida della ragazzina irruppero nella mente dell’uomo, che parve rinvenire. Alzò la testa, scostando i capelli da due occhi inaspettatamente innocenti. A lei sembrò una persona diversa rispetto a quella di un attimo prima, come se riaversi d'un tratto da quello stato ipnotico gli avesse rimescolato i pensieri, rovesciato l’anima. Lei, facendosi piccola piccola, gli rivolse un timido:
– Tutto bene?
Lui, spalancando il suo ghigno e rivelando una fila di denti giallognoli, rimase alcune decine di secondi in silenzio.
Lei, sempre più in allerta, chinò la testa e iniziò ad arrotolare e srotolare nervosamente la banconota che teneva in mano, giocando con la carta come quand’era all'asilo.
– Vuoi essere mia figlia? – proferì lui.
Un rimbombo di allarmi tuonò dentro alla testa di lei, che rispose, simulando arroganza:
– In che senso? Cosa ti viene in mente adesso?!
– Sai, ho ripensato a quello che mi hai detto l’altro giorno… io ho sempre sognato di essere padre e il tuo non ti ama come faccio io, sono l’unico che ti nutre, vedi? Te la preparo subito, ti do tutta la ketch che vuoi, però permettimi di farti da padre, ti prego!
Nauseata dal tanfo d'urina della turca e dal palpitare del terrore nei nervi rigurgitò un:
– Ma che cazzo vuoi?! Non so manco chi sei, stendi ‘ste righe che voglio tornare a ballare!
Un silenzio di piombo calò e le pareti sanguigne del bagno divennero sbarre d'angoscia. Lui ritrasse il sorriso e corrucciò il volto assumendo un'espressione austera, contraendo le labbra in una sorta di muso felino. Iniziò fiaccamente a disporre quella polvere sacra in due righe parallele.
Lei aveva già intuito tutto. Come paralizzata, si abbandonò contro alla porta del bagno, quasi sparendo come un topino nella sua felpa di tre taglie più grande.
– S-scusami, davvero... è che sono nervosa e la tua domanda... non aveva molto senso – fu l'unica frase che riuscì a balbettare.
Lui non rispose e continuò la sua prestazione con solerzia crescente. Più riordinava quei piccoli corpuscoli immacolati e più aggrottava la fronte; più sbatteva la tessera su quel buio specchio e più deformava i suoi lineamenti, fino a divenire una caricatura di sé stesso.
– Ecco le ceneri di Santa Ketamina, sono una reliquia! Sarebbe un peccato non pipparsele, inizia tu, cosa aspetti? – disse lui, porgendole il telefono con beffarda ossequenza, mentreun nuovo, lungo solco dentato gli sfregiava il volto da un orecchio all'altro.
Tutto taceva nella mente di lei. Guardando distratta le mani dell'uomo si stupì a desiderare di essere il fango, i germi, il lerciume sotto alle sue unghie pur di non dover rimanere nella situazione in cui si era ficcata. Con un movimento d’automa inarcò la schiena, si poggiò delicatamente un dito su una narice, si scostò il septum dall’altra con un'estremità della banconota arrotolata e tirò, tirò forte. Inspirò fino a scottarsi il setto nasale.
Peccato.
Sentendosi già sepolta con tutta quella polvere nel naso, avrebbe scommesso sul fatto che sarebbe salito prima l’effetto della droga che le mani dell’uomo, ma ormai dieci artigli le abbrancavano i fianchi.
Peccato.
Sperava le venisse strappata prima la coscienza che i vestiti.
Peccato.
– O Madre Ketamina, non abbandonare un’altra figlia! Accoglimi all’interno del tuo grembo e rendimi all’abbraccio della vita! – è l’ultima cosa che la ragazzina, poco più che una bambina, ricorda di aver pensato.
Ma ora mi duole lasciarvi,
miei cari amati lettori,
alle porte di questo nefasto finale;
vi cedo il piacer di spiegare
alla nostra pura fanciulla
il resto di quella sua ultima,
oscura notte da vergine.
Peccato.
Autore
Sublime Blasfemia