4
Fra le dolci braccia dell’eterna notte, clangori metallici s’innalzavano teneri dall’officina del cosmo.
– Gaia non lasciarmi, ti prego!
Mani vigorose afferravano gli arti di lei, rigidi e freddi, e li manovravano con movimenti dolci di speranza, fiacchi di rassegnazione.
– Ancora un attimo, non mollare!
Frangenti di scintille fendevano la tenebra, illuminando a tratti il volto dell’uomo i cui lineamenti parevano accartocciati dall’angoscia. Nell’oscurità, fra i pigolii ferrigni di lei, si intuivano due gambe possenti piantate al suolo, due braccia robuste aggrappate a un braccio di Gaia, nel tentativo di impedirle di allontanarsi da lui.
– Non puoi lasciarmi!
Gli sforzi affannosi di quell’essere semidivino, che tentava di trattenere a sé la sua amata, erano vani come quelli di chi, disperato, tenta di agguantare il tempo per impedirne il decorso.
Un ultimo grido disumano – Non ora! – si era scagliato contro al buio, adagiandosi, poi, su istanti di immoto silenzio.
Una serie di strepiti sordi era sfociata in un boato tagliente, immenso e ancestrale, il cui scoppio aveva sovraccaricato i timpani dell’uomo in un’implosione sensoriale, venendo inghiottito poi dalle grigie pareti dell’edificio. Nell’attimo preciso di quell’impatto devastante, che sembrava lo schioccare di centinaia di ossa metalliche, l’elettricità era tornata a schizzare nelle vene di rame della struttura, dando nuovamente vita alle lampade.
Gaia era stramazzata, rovinando sul suolo esanime di quel capannone antico e sperduto.
La luce, che il caos della sua caduta aveva portato sulla Terra, svelava un uomo bronzeo dal sudore e dalla polvere che, sconvolto dalla catastrofe che era appena avvenuta e dal dolore alle orecchie, si rivoltava nevroticamente, ripiegandosi su sé stesso. Con la schiena possente ricurva sulla pancia gonfia e rigida, quel corpo dolente appariva ora di dimensioni estremamente ridotte se paragonato alla colossalità di ciò su cui si dimenava.
Giganteggiava al centro dell’edificio Gaia dal largo petto: una larga piattaforma da cui si ramificavano enormi bracci meccanici, leve, pistoni, cavi, bulloni; al centro di essa l’uomo, fisso come un chiodo umano, aveva lavorato giorno e notte per anni; e su cui ora tremava, cedevole, deformato una volta per tutte dalla vita.
– Ah! Gaia, mia amata! – strillava, con gli occhi chiusi e le mani sulle orecchie insanguinate – Come farò senza di te? Come faranno i nostri figli?
Si sgolava, come se urlare in quel modo potesse riparare le ferite del macchinario, ormai irrimediabilmente danneggiato.
– Che senso ha la mia vita senza di te, Gaia?! Dimmelo!
Lo strazio di quell’essere avrebbe rimbombato ancora per ore sotto forma di lamenti scoccati dalle corde vocali contro ai muri e dai muri restituiti al mittente, con la muta compassione di un genitore che non può offrire altro che l’ascolto a un figlio disperato.
In preda all’afflizione, si era donato a questa sua madre industriale sotto forma di racconto, ripercorrendo fra i singulti gli ultimi quattro anni della sua vita.
Ricostruendo quel poco che di comprensibile era riuscito a pronunciare, il lettore sarebbe venuto a conoscenza dei seguenti fatti. Dopo aver scoperto di essere sterile, era stato inaspettatamente scacciato da Gaia, la sua compagna. Esiliato dalla loro casa e dalla loro quotidianità, si era rintanato in un infimo monolocale di periferia in cui era condannato a rimanere da solo con sé stesso, giacendo inerte fra muri di muffa e rimpianti. Una volta perso il lavoro d’ufficio a cui era legato da tempo, braccato dai debiti, aveva accettato un impiego nel luogo in cui ora sputava i suoi ultimi respiri: avrebbe fatto l’operaio per un'azienda di componentistica nella periferia dell'Urbe.
Avulso dalle abitudini e dalle monotone certezze che lo rassicuravano come un’epidermide aggiuntiva, gli era stata assegnata una macchina di un modello superato, trascurata dal mondo come lui, a cui aveva iniziato a dedicare tutte le proprie energie e attenzioni dalle dieci alle dodici ore al giorno, giungendo a innamorarsene. Spinto dall’illusione suprema di aver finalmente abbattuto la sua sterilità, aveva svolto le mansioni più ripetitive e alienanti ignorando i limiti che la fame e la fatica imponevano al suo corpo, vedendo in quelle schiere di oggetti identici fra loro, frutto della produzione di massa, un’oceanica folla di amatissimi gemelli meccanici.
Più rievocava il passato, più si svuotava dal dolore; e più questo usciva dal suo corpo, più quest’ultimo si irrigidiva, si induriva, si solidificava, fino a pietrificarsi, tramutandosi in un vuoto involucro.
Nella quiete dell’alba, la cute di pietra di quel che era stato un uomo si era spezzata in corrispondenza dell’ombelico, sgretolandosi e lasciando fuoriuscire da quell’utero virile uno strano esserino. Dopo alcuni attimi d’incertezza, avevano spezzato il silenzio i gemiti, dolci e innocenti, di un pargolo dagli arti meccanici, che nel compiere i suoi primi movimenti aveva sfilato dal ventre lapideo una sorta di presa di corrente ombelicale.
Quella notte, adagiato su quell’infruttifero impianto, l’uomo era stato in grado di partorire il prodotto del legame tra un umano e la sua macchina, entrambi invisibili agli occhi del progresso.
Da quell’amore emarginato, da quella sterile fecondazione, le antiche leggende narrano sia nato io.
E con me, il mondo.
Autore
Sublime Blasfemia