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Guardati. Ti scongiuro, guardati.
Come ci sei arrivata fino a qui?
Ti guardi allo specchio e vedi - chi, cosa vedi- chi è quella? No, non sei tu. Non la sei, non più almeno.
La tua ombra nuda ti fissa con due occhi spenti.
Cerco di riprendermi lo spazio che merito; sgomito tra queste sensazioni ingigantite che mi schiacciano. L’ansia mi guarda storto da sopra la spalla con iridi grandi e gialli: un avvoltoio che conficca gli artigli al ramo cui è poggiato e attende. Attende qualcosa.
C’è talmente poca aria che fatico a respirare, ho la vista annebbiata. Il nervosismo mi schiaccia lo sterno con entrambe le mani -prepotente- e l’ossessione mi martella i timpani, non so se la voglio più ascoltare.
Sono più forte di così. Lo sono, non è vero?
Gli occhi scorrono sullo specchio e scavano -frenetici, torvi, malevoli- cercano qualcosa, ma sembra non riescano a trovarlo.
Il capo s’inclina leggermente su un lato, le sopracciglia si aggrottano.
I raggi del sole che, timorosi, toccano il vetro della finestra dietro lo specchio, illuminanodebolmente il tuo corpo nudo: hai lasciato i vestiti accartocciati per terra e nascondi le mutandine nel palmo della mano. La noncuranza con cui ti sei spogliata è rimasta ingarbugliata tra le fibre della maglietta dei Depeche Mode che ascoltavi nella macchina di papà quando ti passava a prendere a scuola.
Enjoy the silence era la tua preferita. Forse, la ricordi ancora tutta a memoria. Tre versi del ritornello sono tatuati sopra il tuo gomito:
all i ever wanted
all i ever needed
is here in my arms
(tutto ciò che ho sempre voluto, tutto ciò di cui ho bisogno è qui tra le mie braccia).
Abbassi lo sguardo e sollevi appena le braccia -che fatica- il blu dei capillari, delle vene emergeprepotentemente dalla tua pelle carta velina e disegna intrecci confusi.
Non hai più la certezza di avere tutto sotto controllo, di avere tutto ciò di cui hai bisogno tra le tue braccia; sono braccia che senti diverse, estranee, fragili, fredde. Un freddo ignoto che il calore di un abbraccio non riuscirebbe a placare, un freddo che si è insinuato nei meandri della tua mente e ha intorpidito i tuoi sensi, ha avvilito il tuo spirito, svuotandolo.
Di ciò che ricordi non è rimasto niente, è inutile che provi a cercare: nel riflesso dello specchio non troverai nulla. I folti capelli fulvi che qualche mese fa ti contornavano il viso sono radi, sottilissimi. Ci passi, delicata, una mano e qualche ciocca rimane sul palmo, con un gesto disgustato sfreghi le dita tra loro e le ciocche cadono, affrante, sul pavimento della camera.
Un po’ non ti mancano? I giorni d’estate in cui lasciavi che il vento leggero ti soffiasse fra i capelli?
«Alba, coraggio, muoviti! Altrimenti ci perdiamo lo spettacolo!» Rebecca mi precedeva sul marciapiede: due cartoni con due pizze fumanti in una mano, un asciugamano nell’altra.
I suoi occhi verdi fremevano d’impazienza e un sorriso eccitato era deciso a non lasciarle il volto.
«Smetti di correre e aspettami, siamo in tempo!» le dissi ridendo, trascinando gli scomodi infradito sull’asfalto caldo di quella placida serata di giugno.
Era quell’ora in cui il giorno trascolora nella notte e il cielo si tinge d’indescrivibili sfumature; in cui il Sole abbraccia con gli ultimi bagliori l’orizzonte immergendosi negli abissi e lascia che la luna, col suo manto stellato, prenda governo delle maree.
«Non è incredibile?» domanda Rebecca finita la sua pizza, sdraiatasi sul manto umido della sabbia.
«Cos’è incredibile?» mi ricordo di averle chiesto.
«Non è così bello poter essere qui a guardare tutto questo? Sembra fatto apposta per noi, dice:fermati, ammira e respira, senti il vento sulla pelle, nei capelli, fra le braccia, senti i brividi che ti lascia e sii grato di essere vivo».
Trassi un profondo respiro e percepii la brezza marina spirare tra i capelli, alzai lo sguardo e mi si riempì di costellazioni. Quella notte, ricordo, tornai a casa con la meraviglia negli occhi.
Ora, l’apatia ha preso possesso delle tue iridi abituate a scintillare, il tuo volto è atrocemente asciutto, le labbra sottili hanno disimparato a sorridere, le guance sono scavate, prosciugate come se uno sciacallo, bramoso di ciò che si celasse all’interno, avesse voluto rubarne il vigore.
Le costole affiorano sulla pelle del tuo torace, le anche spingono in fuori, come stessero cercando di lacerarti dall’interno: sembrano lanciare un grido silenzioso, supplicante, straziante.
Posi i palmi sul ventre inospitale: l’utero è congelato, del pube è rimasto solo un incavo guasto.
Le gambe sono storte, sottili, tremano convulsamente: la fatica che ti costa stare in piedi ti fa girare la testa, il cuore -indebolito dalla mancanza di cure- arranca a stare dietro al caos che nascondi.
Ti costringi a camminare, due passi avanti, tre indietro. Ti richiede uno sforzo immane, ma ancora rimani dell’idea di doverti muovere, perché non sei abbastanza; non sei abbastanza bella.
Sì, ma bella per chi?
Imperterrita, l’ossessione -serpente seducente- ti sussurra all’orecchio l’ennesima meravigliosa illusione e ti smorza il respiro, ti scivola sinuosa sul braccio e sibila parole velenose.
“Oggi avresti potuto non mangiare, come hai fatto ieri. Saresti stata diversa, sicuramente migliore.
Hai camminato troppo poco, la mela dell’altro giorno ancora ti pesa nello stomaco. L’avresti già dovuta smaltire. Ti sei pesata? Guarda che devi tenere controllate le cifre sulla bilancia; se salgono vuol dire che stai facendo qualcosa che non va, che non sei ancora abbastanza, che stai perdendo il controllo. Chi apprezzerebbe una nullità come te, che non riesci nemmeno ad autocontrollarti? Sei proprio patetica.”
Io, in realtà il controllo l’ho già perso. Da quel momento sono qui che sgomito ancora, sono convinta di potercela fare, devo solo riprendermi lo spazio che mi è stato sottratto così prepotentemente.
Me lo merito.
Mi sento stanca, spossata, ma non devo arrendermi. Lo devo fare per te perché io ti vedo, ma tu ti stai guardando senza vedere niente. Quindi avanzo, un passo e un altro ancora.
Sposto a lato l’inquietudine, è leggera come una bolla, ma la paura mi tira indietro, mi prende per un braccio e quasi mi fa perdere l’equilibrio -via, allontanati! - non riesco a lasciarmela alle spalle quindi la prendo sottobraccio.
Non scorderò mai il terrore pietrificante che mi pervase quella notte.
Nell’appartamento le luci erano spente, solo una, flebile e artificiale proveniva dalla cucina. Avevo aperto il frigorifero, le mani protese in avanti frugavano in ogni ripiano e portavano tutto ciò che trovavano alla bocca. Senza distinguere consistenza, sapore, odore, tutto finiva per piombare nel mio stomaco. Uno stomaco desolato, contorto dai morsi di una fame sofferta per giorni, per settimane. Più ingerivo, più faceva male; era un dolore insopportabile, ma pensavo di meritarlo. In quel momento, sembrava l’unica cosa che mi avrebbe potuta salvare da quei continui sussurri, quelle risa sprezzanti che continuavo a sentire nella mente. In uno stato di panico e confusione tale da non avere cognizione di ciò che stessi facendo, percepivo la ragione assottigliarsi, diventare sempre più piccola, indefinita. L’ho cercata, ho tentato di richiamarla, sentivo di doverla tenere stretta, ma non la trovavo più. Schiacciata dall’ansia, dal nervosismo, dalla paura di non essere all’altezza, dall’incertezza, dall’ossessione di dover dimostrare sempre di valere di più.
Poi ricordo di essermi fermata. Improvvisamente immobile, con lo stomaco sazio, la bocca avida e le mani sporche. Ho visto nell’anta del frigorifero la mia immagine riflessa e ho avuto paura perché mi guardavo e non mi riconoscevo. Mi ha colto un disgusto tale che sono corsa in bagno, ho abbracciato il gabinetto e ho cercato di abbandonare quel senso d’estraneità che mi aveva fatto gelare il sangue.
Ho rigettato cercando di liberarmi da tutto; il cibo, sì, ma non solo. Quel nodo alla gola che non mi faceva respirare; quel misero tremolio della voce che non mi permetteva più di esprimere ciò in cui credevo; quell’ansia che mi ha rinchiuso in una prigione senza sbarre; quel freddo ostinato che mi ha congelato dall’interno e che mi ha quasi fatto fermare il cuore.
Un rumore di passi preoccupati, le luci della casa si accendevano man mano: «Alba, tesoro, sei tu?»ricordo la voce dolce come il miele di mamma e il tono apprensivo di papà: «Che ci fai lì, stai male?»
Ricordo di non aver risposto. “Si papà, non vedi? Sto male” avrei dovuto dire, ma un tremore convulso mi scuoteva tutta. Tra un fremito e l’altro: «Ho bisogno di aiuto, così non ce la faccio», tra una lacrima e l’altra: «Non so che cosa devo fare. Questa non è più la mia vita.»
Con la paura sottobraccio avanzo più velocemente, mi sento rinvigorita. La tengo stretta a me e continuo a sgomitare, intanto riprendo aria. Torno a respirare e la vista si rischiara un poco.L’avvoltoio sembra essere volato via, noto i segni lasciati dai suoi artigli sul ramo. Forse si era stancato di attendere, forse sono diventata più forte.
È passato diverso tempo da quando sei lì davanti, il sole si è spostato: ora t’illumina completamente. Il suo calore sulla pelle ti fa venire i brividi, ti sposti all’ombra anche se hai freddo, un freddo da morirci. Ti discosti dal sole, dalla luce, dal tepore e ti costringi ancora una volta a dimenticarti che siamo esseri impregnati di vita. La desideriamo, la pretendiamo, con tutto il nostro essere e il nostro volere, ma nonostante questo, una volta spogliati da quegli abiti intrisi di vitalità sembra non rimanga altro che un mucchio di carne ed ossa.
La vita è a noi intrinseca.
Siamo compenetrati dalla vita, ma spesso ci dimentichiamo come viverla e rimaniamo davanti allo specchio che riflette la nostra ombra nuda, ci osserviamo, ci analizziamo, ci squadriamo da capo a piedi e non troviamo nulla che valga la pena di essere vissuto.
La vita ti scivola accanto e non hai abbastanza forza per raggiungerla, anche solo col pensiero.
Ti sei lasciata sciupare, corrodere: tu che dovresti risplendere di vita ti sei adornata di morte.
Guardati.
Ti scongiuro, guardati.
Guardati e mentre lo fai amati perché nessuno lo può fare al tuo posto.
Autore
Erica Zambrelli