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Il mercato delle parole logora il significato della lingua, la impoverisce e il peso delle parole svanisce.
Questo pensava Elvenya mentre si avvolgeva la sciarpa di cashmere rosa attorno al collo.
Prese le chiavi di casa e le mise in borsetta. Prima di uscire dalla porta si guardò allo specchioappeso al muro dell’ingresso: una giovane donna dai capelli rossi, un capotto verde speranza e una scintilla di determinatezza negli occhi color ebano. Guardando il proprio riflesso si chiedeva come avesse fatto a non accorgersi prima della gravità della situazione. Forse non aveva voluto vedere, forse aveva avuto paura. Oggi non devo avere paura, si disse e uscì.
Mentre si avviava al mercato, Elvenya percepiva la desolazione delle strade. Il silenzio permeava nell’aria e colmava perfino le intercapedini dei palazzi, aderendo tenacemente all’intonaco. Una coltre grigia di timore e apatia serpeggiava per i vicoli del centro, in agguato tra le persone.
Ogni mattina tutti gli abitanti della città si dovevano recare al mercato delle parole – così era stato decretato dal ministero della Cultura. Non era obbligatorio comprare, ma presenziare.
Ogni persona era riconosciuta ai cancelli d’ingresso attraverso un braccialetto che indicava il quartiere di provenienza, la famiglia e le spese effettuate al mercato. Chi non si presentava veniva segnato su una lista e tenuto sotto controllo per tutto il mese. Se entro trenta giorni non si fosse fatto vivo, il ministero lo avrebbe interrogato sui motivi della sua assenza. Se ritenuti validi, lo avrebbero lasciato andare, in caso contrario, la persona veniva tenuta sotto osservazione poiché considerata “soggetto deviante”. Da quando il ministero della Cultura aveva preso il pieno controllo del Paese, i cittadini avevano perso la libertà di esprimersi ed era stato imposto loro il dovere di conformarsi, anche con le parole.
Elvenya e la sua famiglia non erano mai stati favorevoli all’idea del mercato delle parole. Ogni sera si trovavano in salotto, si stendevano sul divano e si confrontavano su tutto, anche sulle decisioni del ministero. Nella sua famiglia era sempre stato importante pesare le parole, essere consapevoli del loro potere e della loro incidenza sulla realtà. Suo padre, fioraio, le ripeteva sempre: «Le parole sono come i germogli dei fiori. Si sedimentano in noi come semi e hanno bisogno di tempo e cure per essere pienamente comprese. Non essere ingorda di parole, impara quelle che hai e custodiscile con cura».
La loro sincera opposizione al ministero venne presto scoperta. Una tiepida sera di fine aprile, le autorità di controllo delle parole avevano fatto irruzione in casa e con l’accusa di “discorsi disfunzionali” avevano portato i genitori di Elvenya a lavorare per il ministero della Cultura.
Elvenya poteva andare a trovarli due volte a settimana, per un’ora soltanto. Essendo minorenne le autorità non avevano preso provvedimenti drastici nei suoi confronti. Tuttavia, sapeva di essere tenuta d’occhio, perciò aveva imparato il valore del silenzio e delle parole: non parlava per scelta, non per timidezza.
Sono venuta al mercato per cercare le parole, si disse, quelle cariche di senso, quelle che tutti considerano vecchie, inutili, troppo pesanti. Sono le parole che voglio parlare, che noi tutti dovremmo preservare. Ora le parole che sono sulla bocca di tutti sono vuote, superficiali, preconfezionate…
Così rifletteva Elvenya, mentre leggeva con disgusto e fastidio l’insegna sopra gli altissimi cancelliin ferro battuto: “Benvenuti al mercato delle parole: più parli leggero, più vali”. Da brividi.
Ci prendono in giro guardandoci dritti negli occhi e nemmeno ce ne accorgiamo. Siamo talmenteossessionati dal dire la parola giusta al momento giusto che finiamo per non ascoltarci né capirci.
«Ha comprato solo qualche parola vecchia e impolverata lo scorso mese, come mai?» le chiese un’autorità dall’espressione sospettosa mentre scaricava i dati dal suo braccialetto.
«Non sono avida, tutto qui» rispose lei.
«Si prende gioco di me?»
«Affatto signore, semplicemente so quello che dico.»
«Sia meglio per lei signorina Elvenya, la tengo d’occhio. Può andare».
Elvenya si strinse nel verde del suo cappotto, poi s’immerse nel caos del mercato.
I banchi con le parole più richieste e alla moda erano disposti a semicerchio appena dopo i cancellie le parole venivano esibite nei modi più diversificati: chi le mostrava su cuscini di velluto, chi in teche trasparenti, altri su espositori rotanti. Ogni banco faceva a gara con quello a fianco: le scritte a led lampeggianti indicavano promozioni, novità, tendenze…
I mercanti erano abili e furbi. Ben vestiti, puliti, con sorrisi smaglianti, cercavano tra la folla i migliori acquirenti e cercavano di vendere il maggior numero di parole per essere premiati e finanziati dal ministero.
Tutti i cittadini si fermavano ai banchi d’ingresso, attratti dalle insegne luccicanti e dalle parole patinate. Si schiacciavano, accalcandosi gli uni sugli altri, spinti dalla cupidigia di averne di più, sempre di più. Stringendo le banconote in mano compravano parole, le vendevano al vicinopretendendone altre, le scambiavano con quello accanto. Erano così lustre da dar fastidio agli occhi e così care da indebitare il più ricco dei compratori.
Nessuno passava oltre: abbagliati dalla brillantezza dell’apparenza, restavano lì, ingordi d’approvazione.
Fu il mercante di Venezia di Shakespeare a insegnare a Elvenya che non è oro tutto ciò che luccica.
Osservando le loro espressioni congestionate dalle urla, non riusciva a capire se il loro comportamento fosse dato dalla paura di non conformarsi, dall’ignoranza, o peggio ancora, dall’indifferenza.
Passò attorno agli schiamazzi e superando il semicerchio dei primi banchi, Elvenya arrivò alla zonadel mercato che le interessava: un angolo buio, dimenticato, polveroso.
Non c’erano insegne, né frastuono. Nessuno se non qualche mercante.
Si avvicinò cauta a un piccolo banchetto, dove le parole non erano esibite, ma custodite con cura:tra le pagine dei libri, sotto teche impolverate, scolpite nel legno, chiuse in barattoli di vetro.
Il mercante era un signore anziano, indossava un panciotto, aveva un orologio da taschino nel palmo e una bombetta sulla testa. Vedendo qualcuno avvicinarsi si alzò in piedi e si schiarì la gola:
«Era da tempo che nessuno si faceva vedere da queste parti, buongiorno signorina» disse sollevando il cappello con galanteria.
«Buongiorno signore» salutò Elvenya: «M’interessano molto le sue parole. Posso dare un’occhiata?»
«Certo signorina, impieghi tutto il tempo che le serve» le disse tornando a sedersi.
Lesse con fatica alcune parole esposte: amore, autenticità, resistenza, libertà, dignità, giustizia, perdono, empatia, memoria, morte.
«Non interessano da anni ormai» disse il venditore scuotendo la testa sconcertato:
«Le parole che fanno male o che fanno pensare non vendono più. Le svendiamo a prezzi stracciati. Per questo in giro sente gente parlare –sempre sottovoce per l’amor di Dio!– d’amore, di libertà, di giustizia, di empatia…senza capirne un accidente.»
«Ma allora perché le vende, se sa che verranno usate a sproposito? »
«Perché, bambina, di qualcosa si deve pur campare.»
«Quindi lei campa approfittando della bramosia delle persone. Non dovrebbe vendere parole a chiunque…dovrebbe riconoscerne il valore, non è così?»
«Lo so, bambina. Ma questi sono tempi bui, le parole non evocano più ricordi, non stimolano grandi emozioni, non difendono, non scuotono. Non sono più ricercate con pazienza né espresse con consapevolezza. Il vecchio deve lasciare spazio al nuovo, ma non per questo deve scomparire.»
«Io non voglio farlo sparire. Sono qui per questo. Vorrei comprare queste parole per riportarle al loro profondo splendore. Non voglio che vengano cancellate, eppure nessuno sembra più curarsene.»
Il vecchio la guardò sorridendo, soppesando le sue intenzioni. Poi disse: «Bambina nessuno se n’è dimenticato, fidati di me. Hanno solo paura. Molta gente passa di qui, getta uno sguardo incuriosito e ritorna all’ingresso. Nei loro occhi vedo valori assopiti, schiacciati volontariamente dal peso enorme della conformità.»
«Il problema oggi, signore, è che le parole volteggiano nell’aria e volano via senza radicarsi nelle coscienze delle persone. La paura è solo una giustificazione. Sono tutti così concentrati ad apparire che si dimenticano di esistere. O meglio, esistono in funzione di apparire. È un pensiero che ingabbia la propria creatività e che rende gli uni uguali agli altri. Rende tutti egoisti. Io non voglio esserlo.»
«E tu, bambina, credi davvero di poter cambiare qualcosa?»
«Non so se riuscirò a cambiare qualcosa, signore, ma ci proverò con tutte le mie forze. Mi venda queste parole, per favore.» Elvenya allungò risoluta la mano, con quelle poche monete che sarebbero bastate a comprare tutte le parole disposte con cura sul tavolo.
«Non voglio soldi da te per queste parole. Tu ne comprendi il valore, per questo ho bisogno di una promessa.» Il vecchio si alzò, passò attorno al bancone e posò le mani rugose sulle spalle di Elvenya, stringendole con sorprendente forza:
«Promettimi che non userai mai una parola se non ne senti il peso; che parlerai sempre per costruire, non per distruggere.»
Elvenya annuì: «Lo prometto.»
L’anziano le sorrise appena e con gesti lenti tirò fuori da sotto il bancone un piccolo portagioie di legno: «Le parole non sono solo lettere da dire, sono anche semi da piantare. Falle crescere anche dove sembra impossibile». Il venditore pose la scatola nelle mani di Elvenya e tornò a sedersi soddisfatto. Le sue parole ricordarono a Elvenya il tono delicato e la sensibilità del padre.
Strinse con forza il portagioie e si assicurò di non perdere nemmeno una parola, nemmeno un seme.
Si diresse verso l’ingresso del mercato, dove ancora si sgomitava per comprare le parole più lustre. Lo devo ai miei genitori, a tutte quelle persone che non hanno dimenticato il potere delle parole e per questo si sono messe nei guai. Non devo avere paura. Prese un lungo respiro, accantonò il tentennamento ed entrò risoluta nella bolgia.
Le rivolsero parole di accusa senza senso, le arrivarono spintoni, gomitate, ma non reagì.
Si limitò a parlare. Una parola al momento giusto, con il giusto peso. Qualcuno si voltò incuriosito, qualche volto sembrò illuminarsi di emozioni, ricordi, sensazioni assopite. Pian, piano, una parola alla volta, Elvenya uscì dalla moltitudine e oltrepassò i controlli a cui altri cittadini erano sottopostiprima di entrare al mercato. Passò davanti alla fila all’ingresso e continuò a sussurrare parole, piccoli semi di linguaggio.
Un bambino sentì la parola amore e chiese alla madre cosa significasse, lei si portò una mano alla bocca e le lacrime le illuminarono gli occhi.
Non accadde nulla di eclatante quel giorno al mercato delle parole. Eppure, nelle settimane successive, nel silenzio di certe mattine, qualcuno cominciò ad avvicinarsi ai banchi dimenticati epolverosi del mercato. Alcuni iniziarono a comprare qualche parola, un signore di mezza età con una promessa iniziò a custodirne una nel taschino della giacca.
Il mercato delle parole continuava ad esistere, ma qualcosa era cambiato. Il vecchio lo percepiva guardando le iridi delle persone che si presentavano al suo banco, scambiando promesse o i loro ricordi più cari con le sue parole.
Lì dove Elvenya aveva sussurrato le parole custodite nella piccola scatola di legno, il suolo cominciava a fendersi. Nessuno se ne accorse subito, ma tra le crepe dei sampietrini del mercato, un giorno, qualcuno trovò un germoglio. Non aveva etichette né prezzo. Solo una piccola targa appesa a un filo con su scritto:
“Parola: Speranza”.
Autore
Erica Zambrelli