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C’era una volta, un ragazzo così piccolo da stare su un palmo della mano che viveva in un altrettanto piccolo paese di pescatori, il quale si estendeva per poche miglia sulla costa dell’Oceano Atlantico. Le case dai mattoni colorati e scrostati dal tempo, dalla salsedine e dalle intemperie si sostenevano a vicenda, piegate una sull’altra e arrivavano fino alla spiaggia. Lì accanto, si trovava il mercato del pesce e il porto, un piccolo molo di vecchie dory tenute con estrema cura. Gli abitanti di questo piccolo paese, fin da quando era nato, avevano preso in simpatia il ragazzo e lo chiamavano affettuosamente: Coyita, piccola cosa. «Coyita anche oggi fai un giro al mercato?» gli chiedevano a gran voce gli anziani dai tavoli traballanti del piccolo bar dell’unica piazza del paese. Dal palmo della mano della madre, che sempre lo accompagnava da ogni parte, lui rispondeva a testa alta: «Certo, il mercato del pesce è il mio preferito!». Loro si facevano una grassa risata e tornavano a fumare le loro grandi pipe di legno e a dibattere su come si stava meglio ai loro tempi, quando ancora la pesca era mestiere di pochi, rendeva molto e nel mare, di pesci, ancora se ne trovavano a branchi. Coyita era un ragazzo molto curioso e ogni mercoledì mattina andava con la mamma al mercato del pesce: vedere gli occhioni del pescato fresco che ancora si muovevano, i tentacoli dei calamari sguizzare negli acquari, le chele delle aragoste legate dagli elastici colorati, i gusci scuri e duri delle cozze e il delicato rosa degli scampi lo smuoveva dentro, gli sembrava che tutto quel pescato, ogni mercoledì, lo venisse a salutare come un amico di vecchia data. E lui ogni mercoledì doveva ricambiare il saluto. Andare al mercato del pesce era diventato un rito per Coyita, senza quello la giornata non sarebbe trascorsa allo stesso modo. La mamma, una donna dall’animo pacato e premuroso, lo metteva in guardia dai pescatori e dall’oceano: «I pescatori sono persone senza scrupoli, diffida dei loro sorrisi affabili, hanno grandi arpioni pronti a ferire e reti pronte a immobilizzare.» Coyita stava molto attento ai pescatori, a dirla tutta gli incutevano timore, dunque, si riguardava al dargli qualsiasi tipo di fastidio. Era un ragazzo curioso, sì, ma sapeva anche stare lontano dai guai. L’Oceano però gli piaceva tanto. Lui c’era nato vicino, il rumore delle onde sulla banchina, il loro frangersi sugli scogli erano suoni familiari, non pensava gli avrebbero mai potuto fare del male. Ma la mamma gli diceva sempre: «Riguardati anche dall’oceano! È grande, profondo, ti ci perderesti in un battibaleno!» E nelle profondità dell’oceano che cosa c’era? Quanti pesci amichevoli avrebbe potuto incontrare? Coyita avrebbe voluto così tanto saperlo… Quando ancora andava a scuola, durante le ore di lezione fantasticava sui lunghi viaggi d’esplorazione nell’oceano. Disegnava sempre un piccolo sottomarino colorato e attorno tanti piccoli pesci, crostacei, molluschi, meduse, cavallucci marini… non gli facevano paura, li reputava suoi amici e pensava che con loro si sarebbe sentito meno solo, meno diverso… alcuni di loro, come lui, erano talmente piccoli da stare in un palmo della mano; erano così simili a lui che insieme avrebbero potuto nuotare sulle correnti, senza sentirsi schiacciati da nulla, senza essere sorretti da niente e nessuno se non dalle proprie forze. Solo Ona non l’aveva mai fatto sentire solo o diverso. Ona era una bambina che abitava nella casa accanto a quella di Coyita. Tutti i giorni andavano a scuola insieme: lei lo prendeva sul suo palmo e s’incamminavano verso la Chiesa, lì il parroco teneva lezione ai pochi bambini del villaggio. Ona aveva lunghi capelli color sabbia, che mossi al vento e colpiti dalla luce del sole ricordavano a Coyita i sottili tentacoli delle meduse. Vestiva sempre con abiti soffici e vaporosi e ogni volta che lui la vedeva avvicinarsi al viale di casa sua, prima di avviarsi a scuola, riconosceva nelle balze delle sue gonne bianche la leggera spuma del mare. Era gentile, sensibile, divertente con due grandi occhi blu, come l’oceano. A Coyita i suoi occhi piacevano parecchio. Era stata lei a difenderlo dalle malelingue che gli altri bambini spesso gli soffiavano addosso con le loro lingue biforcute di perfidi serpenti. Lei l’aveva aiutato a tornare a casa quel giorno in cui quei disgraziati l’avevano quasi schiacciato sotto il peso del libro di algebra. Da quella volta, la mamma di Coyita ne aveva dette quattro al parroco, che paonazzo e mortificato cercava inutilmente di giustificare lo spregevole comportamento dei bambini, e l’aveva ritirato da scuola: «D’ora in avanti t’insegno io come si sta al mondo, Coyita», gli aveva detto. E così era stato. Ogni mercoledì mattina, Coyita aveva iniziato ad andare al mercato del pesce del villaggio. Un mercoledì mattina diverso dagli altri però - Coyita, lo sentiva, c’era qualcosa di più denso nell’aria, come se si fosse caricata di una sensazione d’attesa sospesa- i guai gli si avvicinarono. Quel giorno al mercato del pesce c’era un gran subbuglio: gli occhi dei pescatori scattavano da una parte all’altra, le braccia si agitavano confusamente in aria; indignati, si urlavano addosso accuse e minacce brandendo gli arpioni, scuotendo le reti vuote. Coyita si volle avvicinare a un bancone e volle chiedere a un pescatore dagli occhi gentili, che gli sembrava non avere rabbia nei gesti, cosa fosse accaduto: «Come mai tutto questo fermento oggi?» «Ah…» sospirò quello: «Il mercato andrà in rovina, io lo sapevo che il giorno sarebbe arrivato per tutti, dovevo mettermi a fare l’apicoltore!» Coyita era confuso: «Mi scusi pescatore, mi può spiegare che significa? Non capisco proprio!» L’uomo, un giovane col naso aquilino bruciato dal sole, smise di pulire il bancone con lo straccio che aveva in mano e iniziò a raccontare: «Stamattina quelli rientrati dall’oceano hanno trovato sulla spiaggia una conchiglia vuota.» Coyita sentì la mamma lasciar trapelare un sospiro di sorpresa e la sua mano si mosse, instabile. S’è qualcosa che turba la mamma, pensò il ragazzo, allora è grave davvero… «Era da anni che non se ne trovavano più… sembra che l’oceano si stia prendendo gioco di noi…» continuò il pescatore, immerso nei propri pensieri. Coyita era curioso di sapere, si rivolse al giovane pescatore e alla madre: «Com’è fatta, di preciso, una conchiglia vuota?», ma lei aveva già preso la via di casa: quel mercoledì al mercato era stato un vero disastro! Arrivati a casa la mamma pose Coyita sul tavolo da pranzo e si sedette di fronte a lui, con le braccia conserte e la durezza nello sguardo: «Non ti devi avvicinare all’oceano per nessun motivo Coyita, hai capito? Da oggi in avanti non ti accompagnerò più in spiaggia.» «È per via delle conchiglie vuote, vero?» chiese il ragazzo. La mamma accennò un sorriso: «Non è che si chiamano conchiglie vuote Coyita, prima dentro erano piene». «E dentro che c’era?» domandò ancora. «C’erano le perle: l’oro bianco del mare» disse la mamma in tono nostalgico. I piccoli occhi di Coyita si allargarono di stupore: «L’oro bianco del mare?» «Sì,» annuì la mamma: « tanti anni fa, i pescatori di questo villaggio che ora vedi così piccolo erano centinaia. Il mare era ricco di pescato e anche di ostriche. Le ostriche sono quelle conchiglie che stamattina i pescatori hanno trovato vuote sulla spiaggia. Un tempo al loro interno si trovavano le perle, da diversi anni però sembra che l’oceano abbia deciso di non concederci più l’oro delle ostriche.» «Come mai mamma?», Coyita non si spiegava il motivo. «Perché i pescatori sono diventati avidi, vogliono sempre più pescato, sempre più oro, ma l’oceano lo sa, sente la malvagità dell’uomo nei modi in cui getta le reti, in cui urla ai compagni per dare ordini, nel modo in cui gli arpioni infilzano i pesci non per necessità, ma per ingordigia. L’Oceano lo sa e così punisce gli uomini, per ricordargli di non eccedere nei loro superflui vizi e di godere di quanto basta per poter vivere felici.» «E quanto basta mamma per vivere felici?» «Basta davvero poco Coyita, davvero poco» rispose sorridendo la mamma: «A me basti tu», gli disse stringendogli con forza la mano. Coyita passò il mercoledì pomeriggio a riflettere sulle parole della madre, sui pescatori e i loro arpioni appuntiti, alle conchiglie vuote, alle perle e all’oceano che sembrava sapere tutto. Quella sera sul far del tramonto, Ona bussò alla finestra di Coyita, che solitamente dormiva sul davanzale della sala. Lui sgusciò fuori dalla finestra semiaperta e la salutò con un gran sorriso. Lei sembrava preoccupata, lo scuro dei suoi occhi blu oceano presagiva cattive nuove. «Stamattina non sono andata a scuola Coyita,» iniziò a spiegargli: «sono corsa sulla spiaggia a vedere i gusci delle conchiglie vuote e non hai idea di cos’hanno visto i miei occhi.» «Che hanno visto?» le domandò Coyita accigliato e confuso. «Non ci credi se non lo vedi coi tuoi occhi.» gli disse. Coyita la guardò stupito: «Allora portami a vedere, subito, coraggio!». Si mossero rapidi lungo la strada sterrata che conduceva alla spiaggia, l’ombra di Ona si allungava a dismisura sull’asfalto inondato dagli ultimi bagliori del sole. Coyita si reggeva forte al suo palmo per non rischiare di cadere. Arrivati alla spiaggia proseguirono fino al bagnasciuga: era disseminato di piccole conchiglie semiaperte. Coyita fece segno a Ona di poggiarlo sulla sabbia accanto a una di quelle ostriche e non poté trattenere un sospiro di sorpresa. Piccole orme si snodavano dalle conchiglie vuote sul bagnasciuga, alcune in direzione del villaggio, altre verso l’Oceano. Coyita si avvicinò piano ad un’orma e titubante vi mise il piede sopra: aderiva perfettamente. Si voltò a guardare Ona con sconcerto, lei annuiva in silenzio. Non riusciva a crederci. Allora, erano forse quelli i sottomarini che gli sarebbero serviti per esplorare l’oceano? Davvero nelle ostriche c’erano le perle? Esistevano altri come lui, al mondo? «Coyita! Coyita dove sei?» sentirono urlare i ragazzi dalla spiaggia. Con un tuffo al cuore Coyita disse: «È la voce della mamma, si sarà preoccupata non vedendomi in casa.» constatò Coyita con l’affanno e lo spavento nella voce. «Che vuoi fare Coyita, ti porto via di qui?» gli chiese Ona in tono gentile, accovacciandosi accanto a lui. Coyita non sapeva che fare, non sapeva che pensare, non sapeva dove andare. Guardò le piccole orme che scomparivano verso il mare e si chiese se fosse poi così tanto pericoloso come l’aveva descritto la mamma. Le onde iniziavano a ingrossarsi, il vento iniziava a soffiare forte e freddo. Sembrava che l’oceano stesse dando tempo a Coyita di decidere. Le orme sulla spiaggia pian piano sparivano, cancellate dalla marea, col senno di poi si sarebbero perse tutte. Coyita guardò Ona e nei suoi lineamenti distinse una paura che mai aveva visto prima. La guardò e guardando i suoi occhi blu oceano d’improvviso capì cosa intendesse la mamma quando diceva che per essere felici basta poco: un paio di occhi di cui potersi fidare. Forse Coyita non era mai stato solo, forse quelle non erano vere orme e la sua fantasia gli stava giocando un brutto scherzo. Forse la curiosità lo avrebbe spinto a essere più solo di quanto non fosse mai stato, magari i pesci non sarebbero stati così amichevoli come credeva. Forse Ona gli stava silenziosamente chiedendo di non andare, di restare con lei, con la mamma. Forse la speranza che aveva sentito montargli in petto quando aveva visto quelle orme così simili alla sua, la realizzazione di non sentirsi così solo, l’aveva sentita anche quando Ona l’aveva protetto coi palmi delle sue mani dai bambini del villaggio, quando dopo esser rimasto schiacciato l’aveva aiutato ad alzarsi, a tornare in piedi. Forse l’oceano che cercava, l’avventura che tanto desiderava vivere, l’aveva già trovata: sotto i suoi piedi, nel palmo delle mani di Ona, nei suoi occhi blu oceano, profondi e pazienti. Il sole si era gettato negli abissi, l’oscurità ora permeava nell’aria e l’orma del piede di Coyita era stata cancellata dolcemente dalla marea.
Autore
Erica Zambrelli