Con Avatar: Fire and Ash, James Cameron sancisce l’evoluzione di un universo narrativo che mantiene saldo il suo messaggio principale e primordiale: l’interesse e il rispetto del proprio pianeta.
Sebbene questo tema resti principio e fine ultimo della narrazione epica di Cameron, in essa entrano in gioco nuove tematiche di grande profondità: l’elaborazione del lutto, la violenza e l’identità culturale e di specie. Essi sono temi fondamentali che percorrono tutto il film. Nonostante non si possa non notare la ridondanza in certi aspetti narrativi, queste tematiche perforano lo schermo tra effetti speciali sublimi e battaglie epiche per far ragionare lo spettatore non solo, appunto, sulla natura, ma anche su come ci rapportiamo fra di noi.
Un film trasversale
Fire and Ash vede la famiglia Sully confrontarsi con le ferite aperte dalla morte del figlio Neteyam, ucciso nella precedente battaglia, che trasforma radicalmente i rapporti familiari. Troviamo una Neytiri irriconoscibile, accecata dal dolore e incapace di reagire ad esso. Jake invece sembra elaborare il lutto come una perdita in battaglia, da soldato quale è, allontanandosi emotivamente dal proprio nucleo familiare.
Tuttavia è richiesto ai personaggi una reazione forte a questo lutto, in quanto, a differenza dei precedenti capitoli, la vicenda non si limita ad uno scontro tra Na’Vi e umani, ma dissipa i confini morali entro la stessa cultura di Pandora: l’introduzione dei Mangkwan mette in discussione l’innata natura buona dei Na’Vi e la loro cultura ecologica che ci eravamo abituati a vedere nei precedenti capitoli. Questa tribù, trafitta dalla sofferenza e dolore che ha portato un evento naturale, quale l’eruzione di un vulcano, è composta da personaggi che non sono interessati alla morale Na’Vi alla quale Cameron ci aveva abituati. Un esempio lampante è l’interesse e la ricerca del clan verso l’acciaio, volendone scoprire i segreti per poterlo brandire contro gli altri clan. Penso che questa sia un’importante riflessione che Cameron ci propone sull’utilizzo e la scoperta degli strumenti: è innegabile che l’essere umano ha accompagnato al scoperta di utensili e nuove tecnologie ad una proporzionale capacità di distruzione e violenza. Probabilmente lo shock per la violenza e la potenza inflitta dai primi uomini che brandirono armi in ferro fu la stessa che si percepì con la scoperta della polvere da sparo o, ancora peggio, delle armi nucleari (che non si limitano alla famosa bomba atomica). Sono convinto che Cameron sia interessato a farci ragionare non solo sul rapporto che abbiamo col mondo che ci circonda, ma anche sulla tecnologia che sviluppiamo: una tecnologia senza un fine può essere solo fine a sé stessa e in questo modo diviene facilmente un’arma. Perciò, quanto sono moralmente responsabili le scoperte tecnologiche con l’incremento della violenza in una società?
Questi aspetti dei Mangkwan, la ricerca di tecnologia per ottenere il potere e il disinteresse per la natura, ci mostrano i Na’Vi in un’ottica così umana che non avevamo mai visto nei due precedenti capitoli. Ed è proprio sull’onda di queste riflessioni che Cameron affronta anche il tema dell’identità culturale e di specie. Spider è la punta dell’enorme iceberg di questo discorso: un umano cresciuto come Na’Vi. Tuttavia se vi va ad approfondire il tema e si va al disotto il livello del mare, si trovano anche due esempi lampanti di come Cameron tratta il tema, uno diametralmente opposto all’altro: Neytiri, avvolta da rabbia e lutto, arriva a mettere in discussione anche il legame con i propri figli, in quanto ibridi e non puri Na’Vi; il colonnello Miles Quaritch invece sembra iniziare un percorso opposto, che lo vede immergersi (forse) nella cultura Na’Vi e a comprenderne i significati. A mio parere in questo film il personaggio di Quaritch è stato indubbiamente il più interessante, vedendolo in una situazione in cui lentamente sembra ribaltare ogni principio al quale era abituato. Non posso approfondire il tema, altrimenti dovrei per forza scrivere determinati spoiler.
Collegandosi a questo discorso, Avatar 3 è un’opera molto più dinamica, rispetto ai due precedenti capitoli, in termini di maturazione dei personaggi: nei primi due capitoli abbiamo visto eroi contro cattivi. Anche in Fire and Ash ci sono la fazione dei buoni e quella dei cattivi, ma i personaggi che vivono all’interno di queste fazioni si trovano in una zona moralmente più grigia di quanto lo siano mai stati. Determinate scelte e riflessioni di Jake e Neytiri sono probabilmente molto più moralmente discutibili di quelle prese dal colonnello Quaritch: questo è ciò che mi è rimasto di Avatar 3, la necessità di reagire ai propri sbagli, ricordandosi qual è la propria via.
Un’opera transmediale: Frontiers of Pandora come anteprima narrativa
Il rapporto tra Avatar: Fire and Ash e il videogioco Avatar: Frontiers of Pandora non è un semplice caso di merchandising cross-mediale: si tratta di un esempio significativo di sinergia creativa tra media cinematografico e interattivo nel mondo transmediale contemporaneo. Avatar: Frontiers of Pandora, prodotto da Ubisoft diventa parte integrante dell’universo. Nel videogioco si esplora la cosiddetta Western Frontier di Pandora, introducendo nuove creature, biomi, clan e persino personale umano e Na’vi. La produzione del gioco ha avuto accesso ai copioni delle pellicole future per allineare le sue idee narrative con quelle del film, e contiene elementi che pagano direttamente nella visione cinematografica successiva: un’espressione palese di questa sinergia è la presenza di nuove forme di vita — flora e fauna — e di specifici clan nomadi come i Wind Traders (Mercanti del Vento), che nel film vengono evocati tramite sequenze narrative e ambientazioni. Addirittura elementi come frecce speciali o alcuni dettagli di fauna e flora appaiono sia nel gioco che nel film, segnalando che il mondo esplorato dal videogioco è stato un’anticipazione del film e potrà ancora esserla per i prossimi film, in quanto il videogioco viene aggiornato con nuove ambientazioni e contenuti in maniera costante, approfondendo sempre di più tutto l’ecosistema e mondo culturale di Pandora. Questo legame è più profondo di un semplice easter egg: il gioco fornisce un background culturale, ecosistemico e antropologico di Pandora che amplia l’universo narrativo della saga.
La sinergia tra Avatar: Frontiers of Pandora e Avatar 3 rappresenta un esempio avanzato di integrazione narrativa tra cinema e videogioco. Diversamente da altri grandi franchise (come Star Wars o Marvel), dove i videogiochi fungono spesso da espansioni laterali o spin-off, qui il videogioco è un’esperienza preparatoria e complementare all’esperienza cinematografica: anticipa elementi di ambientazione, cultura e concetto che poi trovano riscontro nel film.
Questo rapporto bidirezionale — dove il videogioco non è mero supporto promozionale, ma strumento di costruzione narrativa — rappresenta un modello inedito soprattutto per blockbuster cinematografici di questa scala. È un cambiamento significativo nella produzione culturale contemporanea: un ecosistema narrativo in cui cinema e videogiochi co-creano mondi condivisi, attingendo l’uno alle tecniche dell’altro per arricchire l’esperienza complessiva del pubblico.
Riflessioni quasi tecniche sul film e conclusione
Gli effetti speciali di Cameron si confermano essere su un altro livello: non vi è un solo dettaglio trascurato, dai capelli in movimento ai graffi sui corpi dei vari animali. Ogni dettaglio è stato realizzato con una cura maniacale.
Il 3D, unica modalità di visione in IMAX, trasmette forte emozioni grazie ai dettagli curati, come un sottotitolo che viene coperto da un’onda in movimento nel mare, ma sulla bilancia dei pro e contro, mi sento di sbilanciarmi sul contro: la bellezza visiva di Avatar è il punto centrale, a mio avviso, del successo di questo film. Si perde la maggior parte di questa bellezza a discapito di una focalizzazione sul soggetto della scena: il 3D offre momenti suggestivi, ma secondo me è più ciò che si sta perdendo.
La durata del film, che fa paura a leggerla, si è rivelata proporzionata: non arrivi alla fine dicendo È già finito?? ma sicuramente il ritmo è stato azzeccato. Paragonandolo ad un altro film sia di durata immensa (3h e 34m contro le 3h e 17m di Avatar 3), sia che ho apprezzato infintamente, ovvero The Brutalist, la lunghezza del film l’ho percepita in maniera totalmente diversa: approfondire i personaggi per Cameron è stato un passaggio fondamentale di questo film, ma che non ha esasperato e questo ha permesso al film di non avere momenti troppo lungamente lenti; in oltre, l’elevato numero di scontri ha alternato azione e riflessione in maniera costante e coerente.
La trama si presenta sicuramente ridondante in determinati aspetti che non approfondirò per evitare spoiler e questa è, a mio avviso, l’unica vera critica che si può porre al film; ma secondo me questa ridondanza è decisamente più impattante nel secondo capitolo. In Ash and Fire la presenza di una nuova tribù e delle dinamiche interne alla famiglia Sully permettono allo spettatore di avere una trama simile e originale allo stesso tempo.
Allo stesso tempo è giusto precisare un aspetto (col quale ho iniziato questo articolo): il vero messaggio di Avatar si conferma nel primo e nel secondo capitolo, quanto in questo. James Cameron, con questa opera visivamente eccelsa e narrativamente semi-ripetitiva, ci porta all’attenzione sempre il medesimo messaggio: il pianeta non è qualcosa di esterno a coloro che lo vivono e la sinergia che vi è tra Na’Vi e il pianeta. Il legame con Pandora, non è qualcosa di fisico, ma di spirituale e culturale. I Mangkwan sono l’errore che conferma la regola: non è il loro legame biologico e la loro anatomia ad unire i Na’Vi con Pandora, ma sono le loro scelte e la loro cultura. Quindi, non è dal corpo, ma dall’anima di ogni singolo Na’Vi, dalle sue decisioni, che nasce l’amore e la cura verso il suo pianeta. Cercare nuove tecnologie o di cambiare il nostro mondo non sarà la via per salvare il nostro pianeta: ciò che potrà fare la differenza sono il rispetto e il legame che dobbiamo rinstaurare col nostro mondo.
Autore
@Daniele Mainolfi