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Prima parte - il processo
La prima udienza del processo sulla trattativa Stato-Mafia ha avuto luogo a Palermo il 29 ottobre 2012.
Il procedimento è stato istruito dai pubblici ministeri Antonio Ingroia, Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene.
Siedono sul banco degli imputati cinque membri di Cosa Nostra: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà.
Insieme a loro ci sono cinque rappresentanti delle istituzioni: Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Calogero Mannino e Marcello dell’Utri.
Tutti questi sono accusati del reato di “Violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario”.
Massimo Ciancimino è invece imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Giovanni De Gennaro, mentre Nicola Mancino è a processo per falsa testimonianza. Giovanni Conso, Adalberto Capriotti e Giuseppe Gargani sono accusati di aver dato false informazioni ai pubblici ministeri. Insomma, sono processati gli uomini della Mafia che hanno ricattato lo Stato e gli uomini dello Stato che, si pensa, abbiano aiutato la Mafia a ricattare lo Stato.
Una cosa è certa, i fatti avvenuti tra il 1992 e il 1994 in Italia sono stati letti in tre modi diversi nei tre gradi di giudizio. In primo grado i carabinieri e Dell’Utri erano tutti stati condannati perché avevano concorso a portare la minaccia dei boss rispettivamente ai governi di Carlo Azeglio Ciampi nel 1992-93 e di Silvio Berlusconi nel 1994.
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In primo grado, il 20 aprile del 2018, la Corte d'Assise presieduta da Alfredo Montalto (a latere Stefania Brambilla) aveva inflitto 28 anni al boss Leoluca Bagarella, 12 anni ciascuno proprio a Mario Mori ed Antonio Subranni, nonché a Dell'Utri e all'ex medico e uomo di fiducia di Totò Riina, Antonino Cinà. Otto anni fu la pena per De Donno, la stessa inflitta - ma per il reato di calunnia - a Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, inizialmente supertestimone poi giudicato "inattendibile", che era stato contestualmente scagionato dall'accusa di associazione mafiosa. Era stata poi sancita l'assoluzione (definitiva da tempo e mai impugnata) per l'ex ministro Nicola Mancino (che era finito sotto processo per falsa testimonianza) e dichiarata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca. I giudici ritennero quindi pienamente provate le accuse, costruite soprattutto sulle presunte rivelazioni di Ciancimino (che tuttavia, come era emerso nel processo precedente sulla mancata cattura di Provenzano, aveva consegnato agli inquirenti documenti falsificati in modo grossolano e mai fatto avere il famoso "papello") e quelle - decisamente tardive - di Brusca (nel frattempo tornato libero).
In secondo grado, celebrato il 23 settembre 2019, i giudici hanno assolto tutti, ma con motivazioni diverse: dell’Utri non aveva commesso il fatto, perché non era provato che avesse portato il messaggio intimidatorio a Berlusconi. Invece, i Carabinieri, erano assolti perché il fatto non costituiva reato. Sintetizzando brutalmente le migliaia di pagine della sentenza, i carabinieri avevano trattato con Vito Ciancimino puntando a dialogare solo con l’ala ‘moderata’ guidata da Bernardo Provenzano e non con il ‘Capo dei Capi’, Totò Riina.
Per i giudici di appello lo scopo del generale Mori non era quello (meno nobile) di salvare i politici più vicini ai vertici del Ros nel mirino di Riina, ma quello nobile di fermare le stragi, nell’interesse dello Stato. Quello scopo sarebbe stato perseguito arrestando Riina anche mediante un’operazione di polizia particolare che puntava a incunearsi nella frattura tra ala stragista di Riina e l’ala meno efferata, guidata da Provenzano. Per la Corte di Assise di Appello non c’era quindi nell’animo dei Carabinieri il dolo di partecipare alla minaccia. Magari un approccio alla lotta alla mafia criticabile ma non un reato. Di qui l’assoluzione.
Quella sentenza era stata criticata perché sembrava ammettere e legittimare la trattativa con Provenzano nella logica del ‘meno peggio’.
Ma la Cassazione, in data 27 aprile 2023, accoglie il ricorso di Mori e compagni e riabilita completamente i Carabinieri: non hanno fatto niente di quel che gli veniva contestato. I mafiosi defunti come Riina e quelli vivi e imputati, come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, per effetto di questa diversa ricostruzione, hanno solo tentato la minaccia allo Stato mediante i Carabinieri senza riuscirci. Quindi, grazie alla riqualificazione del reato, possono fruire della prescrizione.
Per sintetizzare, I giudici di primo grado hanno ritenuto che la trattativa ci fu ed era reato (“minaccia a corpo dello Stato”). Per quelli d’appello ci fu, ma era reato solo per i mafiosi: i Ros presero “un’iniziativa quantomai improvvida oltre che in totale spregio dei doveri del loro ufficio”, con una “ibrida alleanza con la fazione mafiosa di Provenzano” per “indicibili” motivi di “interesse nazionale”: trattarono, veicolarono la minaccia mafiosa allo Stato, ma senza dolo, cioè a fin di bene (il fatto c’è, ma “non costituisce reato”): infatti, anziché degradati sul campo, furono tutti promossi. Per la Cassazione, i Ros non veicolarono neppure la minaccia, dunque i politici favorirono la mafia per pura telepatia (“non aver commesso il fatto”) e i mafiosi provarono a intimidirli senza riuscirci (“tentata minaccia”, prescritta).
Ma la trattativa è stata ammessa e raccontata nei minimi dettagli non solo dai mafiosi (i pentiti Giovanni Brusca&C., e gli irriducibili, da Riina a Graviano, intercettati in carcere). Ma anche dai carabinieri del Ros. Dopo che Brusca la svelò nel 1996-’97, il generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno furono sentiti dalla Corte d’assise di Firenze sulle stragi del 1993-’94. E confermarono tutto, chiamandola proprio “trattativa”.
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Ecco Mori il 27.1.’98: “Incontro per la prima volta Vito Ciancimino… a Roma, nel pomeriggio del 5 agosto 1992 (subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, all’insaputa della Procura di Palermo e del comandante dell’Arma, ndr). L’Italia era quasi in ginocchio perché erano morti due fra i migliori magistrati… non riuscivamo a fare nulla dal punto di vista investigativo e cominciai a parlare con lui: ‘Signor Ciancimino, cos’è questa storia, questo muro contro muro? Da una parte c’è Cosa Nostra dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?’. La buttai lì, convinto che lui dicesse: ‘Cosa vuole da me, colonnello?’. Invece disse: ‘Si può, io sono in condizioni di farlo’… Ciancimino mi chiedeva se rappresentavo solo me stesso o anche altri. Certo, io non gli potevo dire: ‘Be’, signor Ciancimino, lei si penta, collabori che vedrà che l’aiutiamo’. Gli dissi: ‘Lei non si preoccupi, lei vada avanti’. Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa… Il 18 ottobre, quarto incontro. Mi disse: ‘Guardi, quelli (Riina&C., ndr) accettano la trattativa’…”. Anche De Donno, che aveva condotto da solo i primi incontri con Ciancimino subito dopo Capaci, parlò di “trattativa”: “Gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti di Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, e Ciancimino accettò”.
E ancora: “Facemmo capire a Ciancimino che non era una nostra iniziativa personale… Successivamente ci disse che… la persona che faceva da mediatore tra lui e Riina (il medico Antonino Cinà, ndr), voleva una… prova della nostra capacità di intervento: la sistemazione delle vicende giuridiche pendenti del Ciancimino, con conseguente concessione di passaporto… Al quarto incontro, si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Ci disse: ‘Sono d’accordo, va bene, accettano, vogliono sapere che cosa volete’”. Riina, che voleva “fare la guerra per fare la pace”, era raggiante: le stragi pagavano.
Quindi con queste parole i carabinieri stessi confermano l’esistenza della trattativa.
Seconda parte: Le reazioni dei giornali
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E ora passiamo a parlare del modo in cui i giornali si sono occupati dell’intera vicenda (passiamo dalla tragedia alla farsa)
Purtroppo, la grande stampa si è occupata solo della sentenza di Cassazione, facendo dire alla Corte di Cassazione che, dal momento che trattare con la mafia non veniva considerato un reato, allora la trattativa con la mafia non era mai esistita. Dal Foglio al Giornale, passando per Libero e Il Riformista, in tutti i quotidiani allergici ai magistrati (almeno a quelli ancora in vita) e al controllo di legalità al di sopra di un certo livello di potere e di un certo censo, è un tripudio di lodi e sberleffi: “Disfatta manettara”, “Quell’assurda guerra che ha distrutto le vite di tanti servitori del Paese” (Il Giornale), “La Trattativa non c’è stata. Gli imputati sono innocenti, i PM forse no”, “Trattativa, dieci anni di balle. Scusatevi con Mori e i Ros” (Il Riformista), “Trattativisti umiliati”, “Sì, era tutta una boiata” (Il Foglio).
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“I soli colpevoli, oltre ogni ragionevole dubbio – esulta Tiziana Maiolo sul Riformista – sono coloro che il processo-farsa, il processo-bufala, il processo-calunnia, hanno voluto e costruito (…) un gran numero di giudici, e (…) giornalisti, scrittori, registi e compagnia cantando che in tutti questi anni (…) hanno lucrato e fatto carriere sulla trattativa che non c’era”. Posizioni, peraltro, ben sintetizzate dal direttore editoriale della stessa Maiolo, Matteo Renzi, che ha twittato: “Certe redazioni come quella del Fatto Quotidiano dovrebbero scusarsi o al massimo tacere per qualche anno. Non lo faranno perché non conoscono il significato della parola Vergogna”.
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“Avevo ragione – dichiara il professor Fiandaca a Giuseppe Sottile sul Foglio – a sostenere che il processo fosse una boiata pazzesca. Un pasticcio giuridico, non si sarebbe mai dovuto fare. (…) È evidente che i PM sono andati all’avventurosa ricerca di un ipotetico reato perché muovevano da un pregiudizio storico-morale”. “Chiunque sapesse un po’ di diritto – scrive alla stessa testata il gip di Milano, Guido Salvini – sapeva che il processo galleggiava sul nulla, sostenuto soprattutto dai mass media, e che prima o poi sarebbe affondato. Un vero Titanic per alcuni pubblici ministeri”.
Ma evidentemente questi giornalisti e questi giuristi non conoscono le sentenze e non conoscono le parole dei carabinieri, i quali hanno pubblicamente ammesso l’esistenza di una trattativa.
Tra l’altro, è divertente come certi giornali si occupino solo ora della trattativa, dopo averla sottaciuta per circa 15 anni.
E i giornalisti e i magistrati che hanno raccontato e indagato sulla trattativa dovrebbero scusarsi con i Ros, solo perché hanno creduto alle loro parole e hanno preteso il “muro contro muro” fra Stato e mafia? Ma si scusino loro. E si vergognino.
Anche perché , purtroppo, la trattativa, anche qualora fosse vero che fu fatta per impedire altre stragi e non solo per salvare la pelle ai politici che dovevano essere uccisi, purtroppo ha sancito l’effetto opposto, ovvero quello di far capire alla Mafia che più stragi quella avrebbe fatto, più vantaggi avrebbe potuto ottenere dallo Stato, dal momento che lo Stato dopo la prima bomba era già in ginocchio ed andava a pregare i mafiosi di interrompere la strategia stragista.
Ma non disperiamo: la Mafia si è pentita, anche perché tutto quello che conosciamo lo conosciamo grazie ai mafiosi e al figlio di un mafioso.
Attendiamo che a pentirsi sia , prima o poi, anche lo Stato. (Fine)