La cattura di Riina e la mancata perquisizione del covo
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Il 17 settembre 1992, un commando guidato dal boss Leoluca Bagarella uccide Ignazio Salvo, mafioso e imprenditore siciliano vicino alla DC e condannato per associazione mafiosa nel Maxiprocesso di Palermo, per non aver rispettato i patti con la Mafia. La seconda fase della trattativa inizia dalla consegna del “Papello”. Alla fine di agosto del 1992 avviene un ulteriore incontro tra Vito Ciancimino e i carabinieri del Ros. Nel corso di questo incontro, vengono consegnate dai carabinieri a Ciancimino delle mappe della Sicilia, affinché l’ex sindaco potesse indicare dove si trovasse il covo di Riina. Queste cartine, nel novembre dello stesso anno, vengono, a loro volta consegnate, a Bernardo Provenzano, il quale fa dei segni in corrispondenza del nascondiglio di Riina. Dopo aver chiesto un passaporto per l’espatrio, il 19 dicembre 1992, Vito Ciancimino viene arrestato. In realtà, secondo le parole di molti pentiti, fu arrestato perché voleva iniziare a parlare, temendo di essere scaricato dallo Stato, e per questo viene ficcato dentro. Aveva, infatti, appena chiesto di essere ascoltato dalla Commissione parlamentare Antimafia, presieduta dall’esponente del PDS Luciano Violante. Se lo ricorda Violante stesso, anche se con alcuni anni di ritardo e solo dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, che lo tiravano in ballo: “Ricordo che nell'ottobre '92 Mori mi disse che Ciancimino intendeva avere un colloquio riservato con me, dissi che non facevo colloqui riservati e che doveva presentare domanda alla commissione. Questo sicuramente prima del 20 ottobre. Mori mi dice che Ciancimino vuole parlare della questione dell'omicidio Lima, che avrebbe chiesto qualcosa, e aggiunse che aveva scritto un libro sulla mafia e se io ero disponibile a leggerlo”. Un libro che lo stesso Mori consegnò a Violante qualche giorno dopo per un secondo incontro. “In questa occasione - ricorda l’ex politico Pc dopo una contestazione del procuratore aggiunto Vittorio Teresi - credo che mi fu detto che Ciancimino rinunciava al colloquio diretto con me. Aspettai che arrivasse una cosa formale, la lettera di Ciancimino, e poi informai la Commissione. Nel terzo incontro invece mi chiese del libro. Dissi che lo ritenevo inutile. Non si parlò di nulla di rilevante e non si insistette per il colloquio riservato anche se disse che si era persa un'occasione”. E' soprattutto su un dettaglio che l'accusa si concentra. La mancata comunicazione del dialogo aperto dal Ros con l'ex sindaco di Palermo all'autorità giudiziaria. “Io stesso chiesi se fosse stata informata – aggiunge Violante – Mi disse di no perché si trattava di una 'questione politica' ma anche che comunque si sarebbe avvalso dell'articolo 203 del cpp, quello relativo agli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. La natura degli incontri Mori-Ciancimino? Non lo so e non chiesi approfondimenti. Non era mio interesse”. Possibile che , da ex magistrato, Violante avesse potuto non ritenere che quei colloqui con l'ufficiale del Ros potessero avere un'altra rilevanza? Possibile che lo stesso Mori non abbia davvero riferito nulla di più su quei contatti con Don Vito? Intanto, grazie alle rivelazioni dell’autista di Riina, Baldassare Di Maggio, il 15 gennaio del 1993, il Capo dei Capi viene arrestato nel suo covo dal capitano dei carabinieri Ultimo. La perquisizione dell’abitazione di Riina, però, non fu fatta immediatamente dopo l’arresto, ma avvenne solo il 1° febbraio, quando il covo era ormai stato “ripulito” totalmente dai mafiosi. Il processo sulla mancata perquisizione del covo di via Bernini, che vedeva come imputati Mori ed il “Capitano Ultimo” mise in luce le pecche operative compiute nella scelta di non effettuare immediatamente la perquisizione ed individuò condotte “certamente idonee all’insorgere di una responsabilità disciplinare”. È un fatto noto che i due ufficiali dell’Arma furono assolti dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, perché “il fatto non costituisce reato”. Mori si è sempre giustificato dicendo che al tempo la decisione fu presa di comune accordo tra i magistrati e la polizia giudiziaria, ma è altrettanto noto che la Procura di Palermo, allora guidata da Gian Carlo Caselli (insediatosi proprio il 15 gennaio 1993), fu convinta a non effettuare la perquisizione con la garanzia che sarebbe stata fatta un’osservazione del covo. Promessa non mantenuta, dato che le telecamere furono staccate dopo appena poche ore, senza informare le autorità competenti. Quando il 2 febbraio venne fatta la perquisizione, gli inquirenti trovarono il rifugio del boss corleonese completamente ripulito, con mobili ammassati in una stanza, la cassaforte smurata, le pareti imbiancate e perfino le tappezzerie ed i rivestimenti staccati, per eliminare eventuali tracce di Dna. Da qualche tempo gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno stanno cercando di riscrivere la storia di quella decisione raccontando che il villino di via Bernini “non era il covo ma l’abitazione dove viveva la moglie”. Lo stesso De Donno, raggiunto dall’Adnkronos, fu costretto ad ammettere l’errore dicendo di aver sicuramente fatto “confusione tra le attività di osservazione su imprenditori come i Ganci, durate molto tempo, e quelle svolte su via Bernini dove erano coinvolti gli imprenditori Sansone, e durate un paio di giorni. In quel comprensorio esistevano una serie di villette, in una delle quali abitava il boss e la sua famiglia e dove ribadisco, a mio giudizio, non credo ci fosse il ‘covo’ di Salvatore Riina”. “Nella foga e nella necessaria sintesi del racconto – aveva aggiunto l’ex colonnello dei Ros – ho evidentemente sovrapposto ricordi giungendo poi a parlare del gruppo di lavoro che era stato costituito con i carabinieri di Palermo e che avrei dovuto dirigere per indagare sul circuito economico e politico di riferimento per Cosa nostra, iniziando le attività di indagine dalla documentazione che il boss, da poco catturato, aveva con sé, fornendo inconsapevolmente elementi ad interpretazioni erronee e fuorvianti”.
Arriva Berlusconi e le stragi si interrompono
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Il 4 dicembre 1992, viene interrogato dalla Commissione parlamentare Antimafia Leonardo Messina, mafioso che aveva iniziato a collaborare nel giugno 1992 con Paolo Borsellino. Il pentito racconta che lo scopo di Cosa Nostra era quello di crearsi un proprio Stato, attraverso un progetto separatista della Sicilia. Il progetto era sostenuto, secondo Messina, dalla massoneria, dall’imprenditoria, da parte della politica e da ambienti dell’eversione di estrema destra. Il disegno prevedeva che la nuova Sicilia indipendente sarebbe diventata lo stato di Cosa Nostra. Tra le frasi pronunciate dal pentito, una è particolarmente significativa: “Cosa Nostra appoggerà una forza politica siciliana con un nome nuovo”. Dalle indagini compiute dalla Dia, successive alle dichiarazioni di Messina, risultò fondamentale in questo piano il ruolo della massoneria deviata, in particolare della Loggia P2 di Licio Gelli, e della destra eversiva. Tra i movimenti leghisti legati a Gelli, merita particolare attenzione Sicilia Libera. In particolare, le dichiarazioni fornite nel 1997 dal pentito Tullio Cannella rivelano come la nascita di Sicilia Libera fosse parte di un disegno politico più largo. Cannella disse: “Il movimento Sicilia Libera era solo uno dei movimenti di una complessa strategia politica e criminale della quale sono stato messo al corrente da Bagarella” e continua, “le stragi al nord erano finalizzate a distrarre l’attenzione dal problema di Cosa Nostra in Sicilia, a creare un clima più propizio per addivenire in quel momento in tempi più brevi alla separazione dell’Italia fra nord e sud”. Intanto le stragi continuano e arrivano sul continente: la Mafia vuole fare in modo che lo Stato rispetti gli impegni assunti con la trattativa. Il 14 maggio 1993, a Roma, tra via Fauro e via Boccioni, vi è un’esplosione senza conseguenze in termini di morti. Obiettivo dell’attentato era il giornalista e conduttore televisivo Maurizio Costanzo, colpevole del suo impegno contro Cosa Nostra e, guarda caso, uno dei pochi giornalisti Mediaset a essersi opposto alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. La notte del 27 maggio 1993, in via dei Georgofili a Firenze, vi è un’altra una violentissima esplosione che provoca la morte di cinque persone, tra cui una bambina di 50 giorni, il ferimento di altre trenta e il crollo della Torre dei Pulci, oltre che il danneggiamento della Galleria degli Uffizi. Durante il dibattimento per la strage, si ipotizzò che l’obiettivo fosse l’Accademia dei Georgofili, luogo di ritrovo di politici di rilievo, tra cui l’allora Presidente del Senato Giovanni Spadolini. Un mese dopo esplode un’autobomba a Milano in via Palestro, provocando la morte di cinque persone e il ferimento di sei. La stessa notte, a mezzanotte del 28 luglio 1993 scoppiano in stereo due bombe a Roma, una nella basilica di S. Giorgio al Velabro (come Giorgio Napolitano, allora Presidente della Camera) e l’altra nella basilica di San Giovanni in Laterano (come Giovanni Spadolini, allora Presidente del Senato), fortunatamente senza provocare vittime. Nel novembre del 1993 non vengono rinnovati i provvedimenti di 41 bis nei confronti di 343 detenuti mafiosi dal Ministro della Giustizia Giovanni Conso, in accordo con il nuovo capo del DAP Adalberto Capriotti. Conso dice di non essere stato a conoscenza della trattativa e di aver deciso tutto da solo, senza consultare nessuno; ma davanti ai magistrati rivela molti particolari che solo chi ha fatto la trattativa o ne era a conoscenza poteva sapere. Come, ad esempio, quando dice di aver tolto i 41 bis per dare un segnale distensivo all’ala trattativista della Mafia, capeggiata da Bernardo Provenzano. Intanto sia Ciampi, Presidente del Consiglio, che Mancino, Ministro dell’Interno, dicono di essere venuti a conoscenza del decreto Conso solo dai giornali. E naturalmente noi ci crediamo. Provenzano intanto abbandona l’idea dei partiti secessionisti, ad esempio Sicilia libera, per puntare sul partito fondato da Marcello Dell’Utri, Forza Italia: Dell’Utri è un vecchio amico di cosa nostra che già negli anni ‘70 fece da trait d’union tra Berlusconi e la Mafia, quando ingaggiò un boss mafioso come Vittorio Mangano per difendere Silvio Berlusconi dai sequestri di persona della Mafia di Luciano Liggio. Ma c’è un altro pentito eccellente che su questa vicenda ha qualcosa da dire. Si tratta di Salvatore Cancemi. Egli conferma che anche pochi mesi prima della strage di Capaci (23 maggio 1992) Berlusconi ancora versava somme di denaro a Cosa Nostra per le “faccenda delle antenne”, una sorta di contributo all’organizzazione mafiosa di Totò Riina. Cancemi afferma di essere stato presente varie volte alla consegna di queste somme di denaro presso la macelleria di Raffaele Ganci: le mazzette erano da 50 milioni di lire, legate con un elastico. La somma annuale, secondo Cancemi, era di 200 milioni di lire. Era sempre il periodo in cui Dell’Utri e Berlusconi pensavano solo a “lavorare e fatturare”. E i finanziamenti di Berlusconi alla Mafia, dal 1974 fino almeno alla fine del 1994, ovvero quando Berlusconi era già divenuto Presidente del Consiglio, sono stati confermati dalla sentenza di Cassazione che ha condannato Marcello Dell’Utri, nel 2014, a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il 28 marzo del 1994 Silvio Berlusconi vince le elezioni politiche con il suo nuovo partito, Forza Italia. La nascita del partito sarebbe dovuta, secondo le rivelazioni di molti pentiti, all’esigenza da parte della Mafia di chiudere i precedenti rapporti con la Democrazia cristiana e creare un nuovo soggetto politico che desse la garanzia di rispettare gli impegni assunti in cambio dei voti ottenuti.
(Continua)
Autore
Riccardo Maradini
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