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La Strage di Capaci
Tutti i giornali, nelle rare occasioni in cui ne parlavano, l’hanno sempre chiamata la presunta trattativa, la cosiddetta trattativa, la supposta trattativa; ma qui di presunto, supposto o cosiddetto, come vedremo, c’è solo lo stato italiano. Ma cos’è stato il processo sulla trattativa Stato-Mafia? Si tratta del procedimento penale sorto per fare luce sul patto che, nei primi anni Novanta, alcune parti dello Stato hanno stretto con Cosa Nostra per fermare le stragi mafiose che colpivano l’Italia in quel periodo. Al centro di questo accordo, secondo l’accusa, ci sarebbe la fine della cosiddetta “stagione stragista” in cambio dell’attenuazione delle misure detentive nei confronti dei mafiosi, previste dall’articolo 41 bis: insomma dell’alleggerimento della lotta alla Mafia. Secondo quanto emerso dalle ricostruzioni, tra settembre e ottobre del 1991, durante alcune riunioni tra i boss di Cosa Nostra, presiedute dal boss Salvatore Riina, la Mafia decide di mettere in atto delle azioni terroristiche, seguendo decisioni prese non solo dagli esponenti di cosa nostra, ma anche da membri dei servizi segreti e da gruppi dell’eversione nera di estrema destra. In particolare, in una riunione avvenuta nel dicembre 1991, si decide di colpire in particolare politici ritenuti a vario titolo nemici di Cosa Nostra, perché non avevano rispettato i patti stabiliti con l’organizzazione: i democristiani Salvo Lima, Calogero Mannino e Giulio Andreotti e i socialisti Claudio Martelli, Carlo Vizzini e Salvo Andò. Tutti colpevoli, secondo le dichiarazioni fornite successivamente dai pentiti, di essersi presi i voti di Cosa Nostra nelle elezioni del 1987 per poi “fare la guerra” all’organizzazione una volta eletti o andati al governo. Quando la Cassazione del Maxiprocesso targato Falcone e Borsellino, alla quale non siede per la prima volta, per volere di Giovanni Falcone, il giudice Corrado Carnevale, detto “l’ammazza sentenze, il 30 gennaio 1992, conferma la sentenza del Maxiprocesso che condannava Riina e molti altri boss all’ergastolo, i capi di Cosa Nostra decidono di avviare la stagione stragista. Il 12 marzo 1992, alcuni sicari uccidono Salvo Lima, all’epoca eurodeputato della Democrazia cristiana e delfino in Sicilia di Giulio Andreotti, allora Presidente del Consiglio. Il ministro democristiano Calogero Mannino, dopo la morte di Lima, aveva confidato al maresciallo dei carabinieri Guazzelli: “il prossimo potrei essere io”. Egli aveva trovato a casa sua un mazzo di crisantemi e una croce disegnata in rosso sulla porta di casa come messaggi intimidatori: inoltre, racconterà poi Brusca, era già stato sguinzagliato il killer per farlo fuori. Ad essere ucciso da Cosa Nostra, il 4 aprile 1992, fu, però, proprio il maresciallo Guazzelli. Gli inquirenti hanno poi sostenuto come l’omicidio del maresciallo fosse un avvertimento proprio a Mannino. Il pentito Giovanni Brusca affermò che “andando ad uccidere l’onorevole Lima in qualche modo per riflesso si andava ad additare l’onorevole Andreotti come mafioso. Con Salvatore Riina dicevamo quella frase poco felice, cioè: con una fava due piccioni, nel senso che avremmo ucciso da un lato il dottor Falcone e dall’altro per effetto l’onorevole Andreotti non sarebbe più stato eletto Presidente della Repubblica”. Anche Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, disse che “l’attentato in pregiudizio del dottor Falcone è stato pilotato per impedire l’elezione dell’onorevole Andreotti a Presidente della Repubblica.” Non dimentichiamoci infatti che Falcone lavorava come consulente del Ministero della Giustizia del governo Andreotti, presieduto dal socialista Claudio Martelli. Il 24 aprile il governo presieduto da Andreotti cade. Mannino, che sapeva di essere ormai un cadavere ambulante, tra l’aprile e il maggio del 1992 incontra informalmente il capo della Polizia e il capo del Ros per avviare un contatto con Cosa Nostra ed evitare ulteriori omicidi nei confronti degli uomini dello Stato; questo dimostra che la trattativa inizia per salvare la pelle agli uomini dello Stato. Il 23 maggio dello stesso anno, alle 17:58, 500 chilogrammi di tritolo fanno saltare in aria, uccidendoli, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, che percorrevano in macchina l’autostrada Palermo-Capaci. Due giorni dopo Oscar Luigi Scalfaro viene eletto Presidente della Repubblica, al posto di Giulio Andreotti, confermando la tesi, avallata da alcuni pentiti, secondo cui la strage di Capaci avesse come fine trasversale quello di bloccare proprio l’elezione di Andreotti al Quirinale.
La Strage di Via D’Amelio
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Il 30 maggio 1992 Massimo Ciancimino, figlio di Vito e testimone chiave del processo sulla trattativa, incontra casualmente su un volo da Roma a Palermo il capitano del Ros Giuseppe De Donno, il quale gli chiede di poter incontrare il padre per discutere di un possibile accordo riguardante alcuni benefici per i mafiosi detenuti. L’ex sindaco di Palermo, nei primi di giugno del 1992, contatta il boss Bernardo Provenzano, al quale riferisce dell’avvicinamento del militare. Provenzano da a Ciancimino padre il consenso per porsi da mediatore tra i Carabinieri e Riina. Una settimana dopo si svolge un incontro tra De Donno e Vito Ciancimino in compagnia del generale Mario Mori. Proprio in quei giorni, precisamente l’8 giugno 1992, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia Martelli aveva fatto approvare il decreto che inaspriva il carcere per i mafiosi (la cosiddetta legge Scotti-Martelli). Venuto a conoscenza dell’incontro, Riina, il 21 giugno, dice a Brusca queste parole: “Si sono fatti sotto”. Fu in quell’occasione che “la belva” prepara il cosiddetto “Papello”, il foglio contenente le richieste di Cosa Nostra allo Stato italiano. Il 25 giugno 1992 De Donno e Mori incontrano il giudice Borsellino, con il quale parlano, a loro dire, anche se è poco credibile, soltanto del rapporto tra Mafia e appalti, senza far alcun accenno all’incontro avvenuto con Ciancimino. Il 28 giugno si insedia il nuovo governo presieduto da Giuliano Amato. Vincenzo Scotti viene rimpiazzato da Nicola Mancino, un parvenu della politica, in qualità di Ministro dell’Interno, mentre Martelli riesce a restare al Ministero della Giustizia puntando i piedi con il suo partito e approfittando della debolezza di Craxi, travolto da Tangentopoli. Il giorno successivo Borsellino viene informato dalla giudice Liliana Ferraro, collaboratrice di Falcone al ministero, dell’incontro avvenuto tra Mori e Ciancimino e poco dopo lo stesso Borsellino scoppia a piangere davanti a due giovani giudici, Massimo Russo e Alessandra Camassa, dicendo che un amico lo aveva tradito. Borsellino sa che alcuni uomini dello Stato lo stavano tradendo, comunicando alla Mafia che il giudice si era messo di traverso nei confronti della trattativa, in quanto Borsellino non poteva accettare che lo stato trattasse con chi aveva appena ucciso Falcone: da quel momento Borsellino diventa un ostacolo da eliminare fisicamente. Il 1° luglio, mentre stava interrogando il mafioso Gaspare Mutolo alla Direzione Investigativa Antimafia di Roma, Borsellino viene convocato al Viminale per la cerimonia d’insediamento del ministro Nicola Mancino. Al Ministero dell’Interno il giudice incontra Bruno Contrada, numero due del Sisde, il quale gli fa una battuta sul pentimento di Mutolo, informazione quest’ultima che avrebbe dovuto essere segreta. Quella sera il giudice Borsellino confida alla moglie di aver respirato “aria di morte”. Borsellino si è segnato sull’agenda grigia quell’incontro avvenuto al ministero con Nicola Mancino, ma Mancino, durante il processo, negherà che quell’incontro sia mai avvenuto. In seguito, si correggerà affermando che, anche se avesse incontrato Borsellino, lui non lo avrebbe riconosciuto; e noi dovremmo credere che il Ministro dell’Interno non sapesse che faccia avesse il magistrato più famoso d’Italia dopo la morte di Giovanni Falcone? Durante la prima settimana di luglio, Riina recapita a Vito Ciancimino le richieste da presentare ai rappresentanti delle istituzioni. Il foglio, detto “papello”, era composto da 12 punti. Ecco i punti contenuti nel “papello” di Riina (trascrizione letterale): • Revisione sentenza Maxiprocesso • Annullamento decreto-legge 41-bis • Revisione legge Rognoni-La Torre (sequestro dei beni) • Riforma legge pentiti • Riconoscimento benefici ai dissociati (come brigate rosse) per condannati di mafia • Arresti domiciliari dopo i 70 anni di età • Chiusura supercarceri • Carcerazione vicino le case dei familiari • Niente censura posta familiari • Misure prevenzione sequestro non fattibile • Arresto solo flagranza di reato • Levare tasse carburanti come Aosta In fondo all’elenco l’annotazione: “Consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Ros”. Ma questo Papello viene ritenuto, persino da Ciancimino e Provenzano, troppo duro da digerire per lo Stato e ne scrivono perciò uno più leggero, per fare in modo che i carabinieri accettino le richieste. Perché loro sono davvero convinti che lo stato non accetterà quelle richieste: ma ancora non sanno di cosa è capace lo Stato italiano quando si cala le brache. Il 19 luglio alle 16:58, a Palermo in via Mariano D’Amelio, l’esplosione di un ordigno composto da 90 chilogrammi di tritolo provoca la morte del giudice Borsellino e dei 5 uomini della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (una delle prime donne poliziotto italiane a far parte di una scorta e prima donna della Polizia di Stato italiana a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu l'agente Antonino Vullo, che al momento dell'esplosione stava parcheggiando una delle auto della scorta. Il Ministero dell’Interno, così ben guidato da Mancino, malgrado le numerose sollecitazioni, non aveva nemmeno predisposto il divieto di sosta per le macchine posteggiate davanti alla casa della madre di Borsellino, nonostante fosse noto che egli fosse solito andarla a trovare ogni domenica. Sulla scena dell’esplosione, un uomo dello Stato, non identificato, fruga nella borsa all’interno della macchina di Borsellino e preleva l’agenda rossa, all’interno della quale era solito segnarsi i risultati delle sue indagini, e la fa sparire: allo stato non è bastato lasciare uccidere Borsellino, ma si è dato fare anche per disperdere i risultati delle sue frenetiche indagini di quei suoi ultimi giorni. Le indagini sulla strage di Via D’Amelio vengono subito depistate: per distogliere l’attenzione dai veri colpevoli, ovvero i fratelli Graviano e il loro killer Gaspare Spatuzza, i poliziotti, guidati dal capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, arrestano subito Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino (due “ladri di polli” della Guadagna con precedenti penali per rapina, spaccio di droga e violenza sessuale) , e , a suon di botte, li costringono ad addossarsi tutte le colpe di una strage che non hanno mai commesso. Nel 1998 Scarantino ammetterà di non avere preso parte all'attentato di via D'Amelio e di essere stato costretto da Arnaldo La Barbera a confessare il falso, oltre ad aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. Nel 2008, il pentito Gaspare Spatuzza confesserà di essere stato l'autore del furto dell'auto FIAT 126 usata per l'attentato, scagionando Scarantino e dimostrando che era un falso pentito, usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino.
Autore
Riccardo Maradini