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«Non gioisco per la sentenza perché so che tutte le persone, uomini ma anche donne, all'interno di quel teatro sono rimaste in silenzio: hanno omesso di rispondere alle mail e alle richieste di aiuto che abbiamo mandato, hanno voltato lo sguardo di fronte alla vista di giovani attrici in lacrime, non hanno risposto ai dubbi e alle manifestazioni di disagio, mentre si sono impegnate a mandare avanti l'immagine glorificata di un regista che veniva descritto come geniale, potente, intellettualmente affascinante. E proprio in virtù di quest'immagine la violenza si è compiuta, tutelata da una narrazione che mette subito in chiaro le cose: voi siete nulla, lui è il Re, e dovete solo ringraziare di essere al suo cospetto.»
Queste sono le parole di una delle vittime di molestie all’interno del Teatro Due di Parma. Un noto regista che da tempo lavora a Parma, insieme alla “Fondazione Teatro Due”, è stato condannato dal Tribunale del Lavoro della città ducale, con una sentenza del 20 settembre 2025, a un risarcimento di 24.571 euro e di 82.057 euro verso due giovani attrici, Federica Ombrato e Veronica Stecchetti, che nel 2019, alla tenera età di 19 anni, avevano partecipato – insieme ad altre venti aspiranti attrici – a un corso di alta formazione finanziato dalla Regione Emilia-Romagna. Oltre alle due ragazze che hanno ottenuto il risarcimento, ce ne sarebbero almeno altre cinque che avrebbero subito lo stesso trattamento. Secondo le associazioni a difesa delle donne vittime di violenza, si tratta di “solo una parte di una lunga catena di abusi che dal 1998 coinvolge decine di attrici”. Altri episodi di molestie o violenze, si evince dalle testimonianze rese al processo, sono avvenuti nel 2007 e nel 2014. Un’altra teste dichiara che una persona che lavorava nel teatro almeno dal 2018 “mi aveva messo in guardia dicendomi di stare lontana da lui per evitare situazioni spiacevoli”. La sentenza è stata resa nota da due meritorie associazioni per la tutela delle donne vittime d’abusi: Amleta e Differenza Donna.
Ecco la ricostruzione di Sonia Alvisi, consigliera di Parità dell'Emilia-Romagna:
«Amleta, associazione di promozione sociale il cui scopo è contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo, aveva raccolto via e-mail la denuncia di alcune attrici che avevano subito molestie sessuali durante questo corso di formazione. Segnalazioni che sono state girate a me. Io ho semplicemente esercitato il potere che l'ordinamento mi ha attribuito in qualità di consigliera di parità e cioè sono intervenuta per rimuovere, secondo quanto previsto dall’art. 26, comma 2, del Codice delle pari opportunità, le discriminazioni che avvengono in tutte le fasi della vita lavorativa, compresa quella di selezione. Ho agito come pubblico ufficiale, su delega delle lavoratrici, per segnalare i reati commessi e coinvolgere l'autorità giudiziaria. Purtroppo, quando abbiamo fatto ricorso erano già scaduti i dodici mesi per avviare il processo penale, ma le sentenze sono state emesse dal Tribunale del Lavoro. L'attività istruttoria è stata molto complessa, ma l'ho portata avanti nonostante episodi spiacevoli consumati nei miei confronti. La prima sentenza è arrivata a giugno del 2024, poi è stata confermata in appello dalla Corte d’Appello di Bologna il 31 gennaio 2025.»
Il regista, il cui nome non è divulgabile – anche se conosciuto da tutti – è stato condannato in quanto la giudice Ilaria Zampieri ha ritenuto attendibili i racconti delle due attrici. «È stata innanzitutto provata – si legge nel testo della sentenza – la realizzazione di atti idonei a integrare una condotta di sopraffazione, nonché la commissione reiterata da parte del regista di atti volti a molestare e minacciare le allieve del teatro e l'abitualità di tali comportamenti, suscettibili di incidere negativamente sulla serenità e sull'integrità psicofisica delle allieve.»
Quando pensiamo alla decisione di non rendere pubblico il nome del regista condannato, non riusciamo a considerarla eticamente neutra. Per noi, l’occultamento dell’identità rappresenta una mancanza di trasparenza che pesa non solo sulla percezione pubblica, ma anche sulla possibilità concreta di prevenire ulteriori abusi. Se una persona è stata riconosciuta responsabile di molestie o violenze, non poter dire chi sia impedisce alla comunità di sviluppare consapevolezza e protegge chi ha abusato del proprio potere; come succede spesso in questa città di lunghe ombre. Denunciamo anche che questo anonimato rischia di rafforzare dinamiche di omertà: in un ambiente come quello teatrale, o ad esempio quello universitario, dove le relazioni gerarchiche sono forti e spesso informali, non fare nomi può diventare una forma di protezione del sistema più che del singolo individuo. È come se si preferisse evitare il dibattito e la responsabilità, lasciando che tutto scivoli sotto il tappeto con la speranza che la vicenda venga dimenticata.
Ci colpisce inoltre il dolore delle vittime: sapere che non possono nominare pubblicamente il loro aggressore aggiunge un peso emotivo ulteriore, quasi come se venisse chiesto loro di convivere con una verità “a metà”, detta ma non dicibile. Questa forma di silenzio imposto non aiuta a elaborare l’esperienza né a restituire dignità a chi ha subito l’abuso.
È stato condannato al risarcimento anche il Teatro di Viale Basetti, all'interno del quale si è svolto il corso di formazione. Secondo quanto si legge nella sentenza, avrebbe «omesso di vigilare e dunque di apprestare le misure necessarie al fine di scongiurare la realizzazione, da parte di un soggetto in posizione apicale nell'organizzazione della Fondazione medesima, di tali reiterate e sistematiche condotte, apertamente discriminatorie nei confronti delle aspiranti attrici e delle registe di sesso femminile». Ecco un altro racconto delle vittime: «Se lo decido io, tu non metti più piede in nessun teatro d’Italia», dice il regista a una delle vittime, come si legge nella sentenza che circola online – la quale specifica: «Ricordo che mi provocava terrore. In un’altra occasione, al posto di chiamarmi per nome, mi ha chiamata ‘puttanella’ e nessuno ha detto niente: c’erano gli attori fissi del Teatro, che sono una decina. Mi invitò a sedermi di fianco a lui in platea, dove mi ordinò di baciarlo. Io non lo feci, ma fu lui a baciarmi. Avevo la bocca chiusa e lui mi ordinò di aprirla. Ricordo la sensazione di schifo che ho provato, ma non ho la percezione fisica di quello che è successo».
Il problema è che, davanti a queste accuse, la città non ha strillato, se non poche figure coraggiose di cui poi parleremo: Parma ha bisbigliato. Nessuna parola da parte del sindaco Michele Guerra, nessun articolo sulla Gazzetta di Parma. Il segretario provinciale del PD, Nicola Bernardi, e l’assessore ai Lavori pubblici e alla Legalità, Francesco De Vanna, scrivono in una nota: «Esprimiamo sconcerto per quanto emerso nei giorni scorsi in relazione alle molestie e alle violenze perpetrate da un regista parmigiano nei confronti di giovani donne iscritte a corsi di alta formazione artistica promossi da un teatro cittadino. Quelli culturali sono – per antonomasia – gli ambienti del rispetto, della tutela della persona, dell’emancipazione, del riconoscimento e, per questo motivo, i fatti accertati dal giudice sono ancora più intollerabili. È ancora troppo pervasiva una certa idea delle relazioni tra i generi intrinsecamente aggressiva: noi, come PD, avvertiamo ogni giorno il dovere di contrastarla, innanzitutto facendo maturare una pedagogia della parità che superi definitivamente le scorie medievali di ogni patriarcato possibile, su cui si fonda la violenza di genere, anche quella più latente e subdola». Spettacolare supercazzola con scappellamento a destra.
Per fortuna, c’è ancora chi in città ruggisce contro questo scandalo. Nella sede della Casa delle Donne di Parma, dalle 12 alle 14.30 di sabato 6 dicembre, per due ore e mezza, attrici, attiviste, registe teatrali, allieve, cittadine e cittadini si sono ritrovati per svegliare il comune da questo torpore. Erano presenti le due attrici che hanno denunciato le violenze, Cinzia Spanò per l'associazione Amleta, Chiara Colasurdo e Maria Teresa Manente per l'associazione Differenza Donna, oltre alla presidente della Casa delle Donne di Parma, Elisabetta Salvini.
“Sono passati diversi giorni da quando è stata data la notizia della condanna e il boato non si è ancora sentito. Tutti aspettano noi: le donne. Tutti telefonano a noi. Ma voi? Nell’era dei social e del commento su tutto, voi non siete opinione pubblica? Tutti parlano a bassa voce, si guardano di sottecchi, si scrivono privatamente su WhatsApp… beh, è il tribunale che non vuole che il regista venga nominato, che la Fondazione teatrale venga nominata… e per fortuna. Siamo tutti sollevati dal non doverlo fare noi e dal poter dar loro fastidio! Tanto in città lo sappiamo tutti, non c’è bisogno di dirlo o ripeterlo. Lasciamo stare. Lasciamo correre, così possiamo dimenticare in fretta. Come abbiamo dimenticato quando l’Università è stata teatro di abusi e violenze, come abbiamo dimenticato il consigliere comunale che mandava foto intime a donne varie senza il loro consenso. Possiamo dimenticare, tranquilli! E perché gli uomini non parlano? Un po’ di ipotesi (ma sarebbe importante e necessario che ce lo dicessero loro): alcuni hanno scheletri nell’armadio che non vogliono rischiare di rianimare. Perciò: tengono un profilo basso, danno ragione un po’ a tutti e aspettano che passi la bufera. Alcuni sono anestetizzati al futuro e alla possibilità del cambiamento: queste cose sono sempre successe, non ci si può fare granché. Tanto vale. Alcuni hanno amici importanti inseriti nella Parma che conta, e tra chi conta (come conta il regista e come conta la direzione della Fondazione teatrale), non ci si dà fastidio.”
E infine si fa un appello alla Fondazione Teatro Due: “Così come hanno rinunciato alla protezione della privacy le due attrici che hanno subito la violenza – che ci hanno messo il nome e la faccia – così dovrebbero fare anche i vertici di questo teatro, per poter ascoltare almeno una parola riguardo alle vittime della violenza, che non sono solo le due ragazze ma le tantissime che a processo hanno portato la loro testimonianza. Come dice Gisèle Pelicot, la vergogna deve cambiare lato.”
Peccato che il Teatro abbia annunciato che ricorrerà in appello contro la sentenza, ritenendola ingiusta: “Innanzitutto, si respingono integralmente le accuse di connivenza rispetto ai comportamenti violenti del soggetto. Alla luce di quanto risulta dalla sentenza, il regista si è reso responsabile di comportamenti gravi, inaccettabili e contrari ai valori cui si ispira l’impegno della Fondazione. Pertanto, è deprecabile che una questione così importante come quella della lotta alle discriminazioni e alla violenza di genere, che è centrale per la Fondazione fin dalla sua creazione, si sia trasformata in un attacco politico e mediatico. In questo contesto, il CDA è solidale e conferma piena fiducia alle lavoratrici e ai lavoratori del Teatro e alla sua direzione.”
Poi motiva questa scelta: “Anche sulla scorta di quanto emerso in giudizio, è accertato che la Fondazione non è mai stata resa edotta di alcuna criticità; nemmeno ha avuto anche solo avvisaglie di fatti idonei a costituire campanelli di allarme.” Ma non vi era già stata notizia di donne molestate nel 1998, nel 2007, nel 2014, nel 2018, ed era ormai divenuto noto che bisognasse stare lontano dal regista innominabile?
Inoltre, voglio chiudere l’articolo con una domanda maliziosa: è solo un caso che l’attuale direttrice della Fondazione Teatro Due, Paola Donati, sia stata recentemente candidata alle elezioni regionali nella lista “Civici per De Pascale”, o questo potrebbe in qualche modo spiegare i silenzi del Comune, della Gazzetta e le supercazzole del PD?
Come diceva Giulio Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.
Autore
Riccardo Maradini
Alessandro Mainolfi