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Il rumore dei tuoi passi era attutito dal morbido pelo di un tappeto impolverato che sapeva di vecchio. Un piccolo solco si creava sulla superficie color porpora e il tuo peso lasciava spazio ad un temporaneo alone provocato dalla pressione sul manto. Ti guardavi intorno, nella tua leggiadria e nella grazie che ti contraddistingueva quando ancora i tuoi capelli sapevano di rosa anche dentro una stanza piena di fumo. Le tue mani sfioravano il velluto del divano su cui un tempo riposavo e su cui avevamo scambiato sorrisi d’amore. Aprivi lentamente la finestra e scrutavi coi tuoi occhi glaciali le spighe di grano spinte dal vento verso il ciglio della strada. Io provavo a cingerti i fianchi, ma il mio tocco svaniva nella vanità di un nulla di fatto, e tu non percepivi che solitudine e angoscia.
Una lacrima ti rigava la guancia pallida, e le tue dita a contatto col freddo vetro rimanevano stampate nella frivolezza della condensa. La spalluccia della canottiera ti scendeva sulla spalla, mostrando i tagli che l’anima non aveva ancora ricucito. I punti che avevi sul cuore quella mattina saltarono e dentro di te il sangue sgorgava inondandoti lo spirito e appesantendoti lo stomaco. Nella gola un nodo si era stretto sempre di più, ansimavi e tremavi avvolta da un giorno senza sole, da una mattina che profumava di rugiada e di asfalto bagnato.
I tuoi occhi ormai un gorgoglio sputacchiante di ricordi, incompresa e sola in un’esistenza di timore e di abbracci lasciati in sospeso davanti ad una fermata del bus. E tu ti lasciavi vivere dalla vita, per inerzia, in una danza con il destino che di te ne aveva abbastanza ma che non aveva il coraggio di portarti via con sé nel vento. Così gli attimi ti scivolavano addosso, immortalandoti nel per sempre di un sospiro. Vivevi come la cascata che precipitando esiste ancora ma che sente di starsi consumando contro le rocce, con la speranza che quel flusso continuo di fluido si interrompa così da permettere al muschio appiccicato ai sassi di seccarsi all’inesorabile potenza del sole.
Ma il flusso non aveva intenzione di fermarsi, né qualcuno voleva porgli fine, e così la tua esistenza da quando non c’ero più io era diventata un semplice sopravvivere all’erosione. E io, sempre dietro di te, provavo a prenderti a pugni l’anima, ma ogni qual volta che le mie mani si avvicinavano a te sfumavano in milioni di particelle di niente, perché io non c’ero più, anche se ti ero così vicino.
Accendesti la luce del bagno per guardarti allo specchio e non vedesti niente se non dolore e colpevolezza. E io, sempre al tuo fianco, nello specchio, non c’ero. Ma quei tuoi occhi intensi dentro quel mare di cristalli sembravano non volersi perdonare, come se poi ci fosse qualcosa da perdonare. Il tuo senso di colpa superava di gran lunga il desiderio di vita che avevi. Sarebbe bastato accettarlo, comprendere il destino per una volta, parlarci al fato, urlargli contro e alla fine di tutto accarezzagli le guance e lasciare scorrere la disperazione di quegli attimi.
Quando ti immergesti nella vasca provai a colpire qualsiasi cosa fosse a tiro, per mandarti un segno, per farti redimere di quella scellerata scelta, per ricordarti di essere mare, non cascata. Nulla si mosse nel bagno, così chiudesti gli occhi, spaventata che ti avessi dimenticato, che pensassi fosse colpa tua.
Li riapristi, ero lì, ti tenevo la mano che si era bagnata con lacrime di sangue di spirito, tu sorridevi, io piangevo. Avevi scelto di seccarti al sole come il muschio.
Il tappeto non portava più le tue orme e l’acqua ormai aveva bagnato il pavimento. Le tue impronte rimanevano mescolate col vetro freddo e il grano aveva smesso di spingersi verso l’asfalto. La notte era calata e noi con lei.
Autore
Giuseppe Serra