Oggi, nove settembre, dopo aver probabilmente fatto colazione con il suo immancabile caffè e la sua solita “luisona” - con questo nome fu addirittura capace di canonizzare un’apparente insignificante brioche - Stefano Benni ci ha lasciati.
Sarebbe superfluo raccontare qui la sua vita e le sue opere, un po’ a causa della complessità dei suoi interessi letterari, un po’ perché era solito cambiare i dettagli della sua biografia per difendere la sua “privatezza”. Basterà ricordare, per introdurre la sua figura a chi ancora non abbia avuto modo di conoscerlo letterariamente, che fin dalla gioventù si appiccicò il soprannome di Lupo, per via della sua abitudine di ululare mentre portava a passeggio i suoi sette cani. Difficilmente potremmo prendere per vero un simile aneddoto, soprattutto se stiamo parlando di uno degli autori più seri e poliedrici che mai ci siano stati in Italia; eppure, questa piccola storia ci fa ben capire la sua cifra stilistica, tutta votata ad uno sfottò in grado di farci ridere e crescere allo stesso tempo.
Professore universitario che non amava sedersi in cattedra, poeta d’amore non inferiore alle lacrime e al riso, maestro d’ironia, giocoliere del linguaggio e saltimbanco della tragicommedia, Stefano Benni fu tutto questo e tanto altro. Perdonerete questi elogi inusuali, ma chi lo abbia letto sa bene che non può essere descritto se non con epiteti unici e strani, un po’ come i personaggi dei suoi libri.
Non staremo qui nemmeno ad elencare i suoi lavori e le sue attività, non mostreremo sorpresa per la sua morte- dato che da tempo era malato e non scriveva più da una decina d’anni- ma il nostro impegno principale sarà quello di raccontare cosa si prova davanti alle sue pagine, nella speranza di avvicinare a lui le nuove generazioni di lettori.
Sentendone parlare in modo sommario, saremmo indirizzati a pensare che la sua levatura letteraria sia piuttosto bassa. Penseremmo che un autore di libri umoristici non abbia alcuna possibilità di finire nelle antologie delle scuole e che non abbia nulla da insegnarci. È inutile girarci intorno: tutti noi abbiamo pregiudizi sui generi letterari, e generalmente la letteratura umoristica è tra quelle più stigmatizzate, non solo dai fanfaroni delle Accademie.
Ma prendiamo per esempio un suo best-seller, “Bar Sport” (1976). Già leggendone le prime righe, ci accorgeremmo della sua bravura. Anzi, se ne accorgerebbe anche chiunque si trovi nella stanza con noi, perché ci sentirebbe prima ridere a crepapelle, per poi corrugare la fronte e ripiegarci in atto di riflessione. E la bravura di Benni consiste proprio in questo: dopo aver letto il primo capitolo, chiedetevi quale altro autore vi abbia mai provocato dei simili crampi allo stomaco dalle risate. La risposta sarà: nessun altro. Al massimo vi avrà impresso l’ombra di un sorriso fra le labbra. È facile e comodo far piangere con le pagine scritte, dato che abbiamo un’idea estremamente drammatica di tutto ciò che è considerato “letterario”. Pare invece quasi impossibile far ridere, e per di più immortalando la vita di tutti i giorni nei suoi momenti meno memorabili- ad esempio descrivendo il modo di pedalare di un “cinno” tutto brufoli e baffetti incolti, o spiegando come i vecchi di paese calano “i carichi” nelle partite a briscola. Lui stesso ammetteva: “Lavorare sul comico è difficile. Tempi precisi. Etimologie che spuntano. Parole che esplodono. Alta precisione, orologeria. Il fine segreto del caos. Difficile cambiare anche solo una parola. Ma si può fare.”
Riconosceva, poi, tutta la forza della risata, tutto il suo potere catartico, quando provocata con un intento che potremmo definire didascalico; tant’è che, con l’icastica sinteticità che lo caratterizza, teorizzava: “il riso è misterioso: disubbidiente e conformista, socievole e solitario, inquieto e stupido, razzista e rivelatore.” E come dargli torto? Il riso è tutto. È la più vicina raffigurazione della contraddizione umana. A ben pensarci, ognuno affronta la realtà col riso, sia esso frutto di un evento felice o di un disastro esistenziale. Benni ci insegna, dunque, che il riso è al contempo la maschera che mettiamo nella disgrazia ed il volto sincero che sveliamo nella prosperità.
Ecco perché quella di Stefano Benni è, senza alcun dubbio, la lettura più rumorosa di tutte. Se vorrete cimentarvi nei suoi libri, preparatevi a difendervi dalle lamentele dei vostri vicini di casa, che vi verranno a bussare intimandovi di smettere di ridere e di disturbare tutto il palazzo.
Accostandosi alle opere benniane, si viene immediatamente investiti come da quel profumo di sugo che sentiamo varcando la porta di casa della nonna. Insomma, ci sentiamo finalmente a casa. Ci sentiamo veramente rappresentati, noi che, come i personaggi di Benni, incarniamo appieno la semplicità, noi che non siamo eroi indefessi, ma gente di provincia. Benni sapeva perfettamente che ognuno affronta, prima o poi, grandi problemi interiori e paturnie dovute a grandi sconvolgimenti della vita; ma sapeva altrettanto bene che nella routine hanno maggior peso tutti quei dettagli che diamo per scontati, eppure ci influenzano l’umore e i pensieri. Per questo ha deciso di offrire la propria penna ad aspetti familiari e routinari, porgendoli ai lettori con ironia e con una lingua estremamente sperimentale. Fu, infatti, un giocoliere della lingua, un giullare di trame che non sono trame, di storie che non si inquadrano, di cornici privi di tela, quasi fosse uno di quegli artisti totalmente concettuali che troviamo nelle gallerie di arte contemporanea. Per il Lupo bolognese la prosa narrativa non è che il letto su cui adagiare un concetto fulminante ed arguto, contenuto, alla fin fine, in poche parole, dette quasi per sbaglio e di sfuggita. Infatti, è proprio dai suoi mots d’esprit che prendiamo contezza della lungimiranza analitica che aveva verso il presente e, più in generale, verso la vita. Sentite qua alcuni di questi colpi di coda...
Le idee sono come le tette: se non sono abbastanza grandi si possono sempre gonfiare. (La compagnia dei Celestini, 1992)
Ma che paese è questo dove gli unici che hanno ancora qualche speranza vengono chiamati disperati? (Elianto, 1996)
Ma quando dormiamo siamo tutti uguali, morfeonauti inermi nel colorato gorgo, e non conta cosa si sogna, se no saremmo tutti in galera. (Margherita Dolcevita, 2005)
Io non so se Dio esiste, ma se non esiste ci fa una figura migliore. (Baol. Una tranquilla notte di regime, 1990)
Il passato, come lei sa, è come certi torturati. Duro a morire. (Baol. Una tranquilla notte di regime, 1990)
Ma Benni sapeva anche essere dolce e più posato, anche nei suoi componimenti umoristici, anche quando non si dava alla vera e propria poesia, sfruttando la prosa in modo estremamente lirico.
Se è scritto che due pesci nel mare debbano incontrarsi, non servirà al mare essere cento volte più grande. (Terra, 1983)
Gli innamorati, i veri innamorati inventano con gli occhi la loro verità. ( Il Bar sotto il mare, 1987)
Triste è l’uomo che ama le cose solo quando si allontanano. (Baol. Una tranquilla notte di regime, 1990)
La versatilità intellettuale di Benni lo portò ad essere persino un attento critico- nel senso etimologico del termine- della politica, baluardo di una sinistra che dovremmo fortemente rimpiangere, di quella sinistra, cioè, che non mirava solamente ad abbaiare contro gli avversari, ma che si impegnava verso soluzioni alle ingiustizie sociali e ai problemi della contemporaneità.
Nell’invenzione nulla muore, mentre ricchezza e indifferenza spengono tutto. (Il Bar sotto il mare, 1987)
L’inquinamento atmosferico è nei limiti della norma. C’è biossido per tutti. Invece non c’è felicità per tutti. (Baol. Una tranquilla notte di regime, 1990)
Se i tempi non chiedono la tua parte migliore inventa altri tempi. (Baol. Una tranquilla notte di regime, 1990)
Ora fermi tutti, non dilunghiamoci troppo. Se volete farvi un regalo ed incontrare un maestro, un compagno della vostra crescita, leggetevi qualsiasi cosa di Benni, dalle poesie alle sceneggiature teatrali, e persino le battute che scriveva per i comici da cabaret.
Vogliamo concludere augurandogli un buon viaggio e dicendo che se è vero, come amava dire, che “l’uomo è stato creato padrone della Terra, ma gli manca una cosa fondamentale: una borsa di attrezzi per riaggiustarsi”, siamo certi che Benni ci ha quantomeno prestato cacciavite e martello per riassemblare qualche nostro pezzo.
Autore
@Niccolò Delsoldato
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