Sul tramonto d’aprile, in un appartamento alla Domus Sanctae Marthae, moriva Papa Francesco, sazio di giorni. Sei mesi sono passati e, in questo tempo, abbiamo misurato la pesante mancanza del suo sguardo sul mondo: paterno, saggio e gentile; l’uso di quelle parole forti, ma di pace e di fraternità. Purtuttavia, oggi, 4 ottobre, un suo ricordo ci viene in aiuto: quell’annuncio inopinato del cardinale francese Jean-Louis Tauran che, dalla Loggia delle Benedizioni della Basilica di San Pietro, dichiarò al mondo il nome che Bergoglio aveva scelto per rappresentare la Chiesa di Roma: Franciscus, Francesco. È stato il primo papa a chiamarsi così. Questo ricordo ci viene in aiuto perché, al momento in cui vide la luce la scelta di quel nome, associamo anche l’operato di Francesco che ne seguì: sempre teso a testimoniare la rivelazione di Cristo nella regola dell’Assisiate, che prevede la pratica della povertà e la lettura continua del Vangelo; il non ritenersi primi tra i propri fratelli, mai padroni potenti; il vedere le donne come propri pari; l’amare la libertà; l’accogliere tutti, anche i nemici; e, soprattutto, il predicare l’Amore verso Dio e verso tutte le sue creature, indistintamente. Il completo distacco dalla ricchezza e dalla potenza, considerate come unico ostacolo a raggiungere la vera meta: la pace e l’eguaglianza. La figura di san Francesco fu dannosamente mutata durante il fascismo. Nel 1937, in piena dittatura, il vescovo di Assisi, Giuseppe Placido Nicolini, lanciò un’iniziativa per ottenere l’elevazione di san Francesco a patrono d’Italia. Lo fece attraverso un voto con il quale proponeva a tutti i vescovi italiani di scrivere “lettere postulatorie” a papa Pio XI, invitandolo a compiere tale nomina sull’esempio di quanto già avvenuto per Caterina da Siena (non ancora proclamata ufficialmente patrona: lo sarebbe diventata solo nel 1939, insieme a Francesco). La spinta proveniva anche da un movimento d’opinione attivo da oltre un decennio, già dagli anni Venti, soprattutto in ambienti francescani. Questa proposta di Nicolini, come emerso nel saggio di Gianluca Cerli La ri-conciliazione Chiesa-Fascismo nel ’39, era legata da una parte a motivazioni nazional-cattoliche, che vedevano in Francesco un simbolo storico da associare all’espansione coloniale italiana in Etiopia. Scriveva Nicolini: «Bellissima la felice coincidenza» dell’elevazione a patrono d’Italia con il «rinnovato affermarsi della cattolica civiltà italiana in terra d’Africa». Secondo il vescovo, con il suo viaggio in Oriente Francesco aveva lasciato in «eredità ai suoi figli l’ambìto compito di annunciare la fede e, ove fosse occorso, di spargere, da martiri, su quelle terre, abbondante e fecondo, il loro sangue generoso». Ad un anno dalla conquista dell’Etiopia, tale eredità era «conservata in pieno dai figli di S. Francesco (gli italiani), i quali [...] evangelizzano il nuovo Impero Italico». Si trattava della ripresa di una linea già presente nella cultura religiosa italiana, che presentava il fascismo come strumento efficace di affermazione dell’“imperialismo spirituale” della Chiesa cattolica. In perfetta sintonia con le parole del duce, citate dal prelato, che ricordava come il «destino della stirpe» e dei «missionari di Cristo e missionari d’Italianità» fosse quello di imprimere «l’orma della Patria» fuori dai confini nazionali. Dall’altra parte, e forse in misura ancor più rilevante, l’obiettivo di Nicolini era politico: fare di san Francesco il patrono d’Italia serviva a ri-conciliare i rapporti tra Chiesa e fascismo, incrinati dai contrasti sempre più forti tra Mussolini e Pio XI. Contrasti emersi già dal 1931, con la crisi dell’Azione Cattolica, e acuitisi con la promulgazione delle leggi razziali del 1938. Così scriveva Nicolini: «In tempi in cui gli Eccell.mi Ordinari hanno tante occasioni di relazioni e di interferenze con le autorità civili e politiche, penso che sia bene e vantaggioso moltiplicare, nella vita spirituale della nostra nazione e nella coscienza del popolo italiano, i punti di contatto e d’intesa tra i due poteri, religioso e nazionale [...] Questo nuovo legame dell’Italia al grande Santo d’Assisi potrà concorrere a dissipare quei malintesi che correnti poco cristiane talvolta provocano nell’intento di mettere in cattiva luce l’attività dei cattolici militanti». Un aspetto decisivo riguardava anche l’Azione Cattolica, che Mussolini temeva, inquadrandola in «un tentativo di costruire un vero e proprio partito politico, pronto a raccogliere la successione del Fascismo in previsione di tempi difficili». La nomina di Francesco a patrono avrebbe, secondo Nicolini e molti vescovi, rassicurato il regime: l’AC, pur vitale e diffusa, sarebbe rimasta sotto il controllo della Chiesa di Roma. In questo contesto, le lettere dei vescovi e la supplica di Nicolini miravano non solo a esaltare l’italianità del santo, ma anche a persuadere Pio XI ad accettare un compromesso col regime, presentando Francesco come simbolo di fedeltà religiosa e, insieme, di cultura nazionalista. Tuttavia, né Pio XI né Mussolini parvero sensibili a questi auspici. Il papa, informato della proposta almeno dal 1937, non mostrò entusiasmo: quando Carlo Salotti, nuovo prefetto della Congregazione dei Riti, gli presentò ufficialmente la richiesta a nome dell’episcopato, Pio XI rispose soltanto che avrebbe «pensato sopra» la questione. Pochi giorni dopo morì, interrompendo di fatto l’iniziativa. Questo episodio, unito al mancato discorso sul razzismo e ad altre iniziative non portate a termine, rafforzò l’immagine di un pontificato “sospeso”, segnato negli ultimi mesi da un netto irrigidimento nei confronti del fascismo. Con l’elezione di Pio XII la situazione cambiò radicalmente. Pacelli, già segretario di Stato e spesso in attrito con l’Azione Cattolica, volle segnare discontinuità con il predecessore. Nei primi mesi del pontificato si mostrò conciliante verso il regime: nel radiomessaggio inaugurale citò espressamente l’Azione Cattolica come realtà «sotto la guida dei vescovi», un chiaro segnale di rassicurazione al governo. Fu ancora il cardinale Salotti a rilanciare la proposta della proclamazione dei patroni d’Italia. Il 3 maggio 1939 Pio XII accolse con entusiasmo la richiesta e ordinò di procedere senza indugio: lo stesso giorno la Congregazione dei Riti decretò Francesco e Caterina da Siena patroni principali d’Italia. L’operazione, tuttavia, non ebbe gli effetti sperati. Se da un lato Francesco entrava ufficialmente, con la benedizione della Chiesa, nel pantheon dei “grandi italiani” funzionali alla retorica fascista, dall’altro Mussolini accolse la proclamazione con indifferenza, più precisamente senza particolare rilievo politico, anche se la propaganda fascista sfruttò in parte l’immagine del santo come simbolo di italianità. Convinto di non avere più bisogno del sostegno vaticano per consolidare il consenso interno o l’immagine internazionale, il duce lasciò cadere l’evento senza particolare rilievo. Le celebrazioni francescane programmate per l’autunno furono rinviate a causa dello scoppio della guerra e, quando si svolsero, ebbero un tono dimesso. In definitiva, la proclamazione di san Francesco e santa Caterina a patroni d’Italia, pur pensata come atto di riconciliazione e di unità nazionale, non ricompose la frattura tra Chiesa e regime, né restituì al pontefice quella centralità politica che Pio XII aveva auspicato all’inizio del pontificato. L’“abbraccio” tra Chiesa e fascismo fu tiepido, lontano da una vera “restaurazione cristiana della società” sul modello spagnolo. In questo quadro, la figura di Francesco rimase ambigua e facilmente strumentalizzabile: per alcuni simbolo della gloria nazionale, per altri immagine di pace, per altri ancora compromesso tra le due letture. La distinzione fra “nazionalismo sano” e “nazionalismo immoderato”, tentata da Pio XI, si era ormai dissolta, lasciando il santo piegato alle esigenze della retorica coloniale e guerresca del regime. Pio XII, da parte sua, tentò richiami alla pace, ma i suoi appelli risultarono spesso sovrapposti al linguaggio propagandistico fascista, come nel caso della “pacificazione” spagnola dopo la vittoria franchista. La proclamazione dei patroni d’Italia aveva anche lo scopo di riaffermare il carattere cattolico della nazione, opponendolo alle spinte neopagane del nazismo, già avvertibili anche nel fascismo dopo le leggi razziali del 1938. In questa ambivalenza, Francesco cominciò lentamente a trasformarsi. All’indomani della proclamazione fu progressivamente spogliato tanto dell’enfasi sull’italianità quanto della veste di “santo guerriero”. Tuttavia, il vero mutamento arrivò solo con il trauma della guerra e dell’occupazione nazista, che resero impossibile continuare a usare Francesco come simbolo nazionalista. Dal 1942 si affermarono letture alternative, capaci di superare la retorica fascista e restituire al santo un significato più universale, come già delineato da Paul Sabatier a fine Ottocento o, in Italia, dal filosofo Aldo Capitini. Le liturgie francescane restarono a lungo ambigue, spesso funzionali a una “religione civile” di stampo confessionale. Ma il dopoguerra avrebbe permesso di liberare gradualmente lo “spirito di Assisi” dalle maglie del clerico-fascismo, riconsegnando la figura di Francesco non più soltanto alla nazione, ma al mondo intero, come simbolo di pace e fraternità universale.
Autore
Alessandro Mainolfi