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"È scopando con le macchine che si producono i suoni. Sfrutti il suono del capitalismo per distruggere l'economia del gusto."
Ideato nelle profondità delle periferie newyorkesi, nutrito dalla techno che schizza fuori dalle casse, scritto in una camera in pieno lockdown: Raving di McKenzie Wark è uno di quei libri che stravolge la percezione di chi legge. Ibridazione calibrata, nervosa e soprattutto libera di autofiction e autotheory, tenta di restituire la fisicità del ballo, la sociologia della pista e la politica che quei corpi producono quando si sottraggono al tempo della produzione. L’operazione di Wark è semplice: prendere la pratica del rave — il suo suono, le sue ritualità, le sue economie di cura — e mostrarla come tecnica esistenziale per sottrarsi, per resistere, per vivere.
Il punto di partenza è storico e materiale: la techno nasce come musica nera di Detroit, figlia della lotta sociale, per poi trasformarsi in linguaggio globale dei club e dei rave, diventando una protagonista della rivoluzione post-coloniale dei suoni in Gran Bretagna e in Europa. Wark sostiene che il potere del suono è politico perché è genealogico, e che il riuso della techno nelle piste queer e trans non è mera estetica ma rinegoziazione di eredità.
Wark si racconta, descrive, concettualizza — spesso tutto insieme — e per questo costruisce un lessico per parlare del rave: ketamine-time, spaziorave, xeno-euphoria, femmunismo. Sono questi alcuni dei numerosi concetti introdotti dalla scrittrice in un’opera che, al pari di una sostanza, si rivela capace tanto di illuminare quanto di disorientare, facendoci sentire al contempo destabilizzati e realmente compresi. Proprio per questo, non dobbiamo opporre resistenza al trip che ci viene offerto: accettando di lasciarci condurre, percepiremo la scrittura come un set — con drop e pause, accelerazioni e cadute — che tenta di restituire il battito del rave.
Inoltre, la scrittrice ci spiega come per molte persone trans che popolano quelle serate, ballare non sia una performance ma riappropriazione collettiva, intesa come bisogno di sentirsi nel corpo giusto: «andando ai rave il corpo non è più un’anomalia, o almeno non è l’unica anomalia». Il linguaggio del libro restituisce questa verità senza bigottismi: la pista diventa spazio di normalizzazione inversa, dove la pluralità delle anomalie sottrae allo sguardo normativo la possibilità di isolare e stigmatizzare. In questo senso la pratica della festa si legge come mezzo di sopravvivenza affettiva: non fuga edonistica, ma dispositivo di costruzione di situazioni e di cura reciproca.
Un altro asse tematico del libro — e forse il più controverso — è il rapporto tra dissociazione farmacologica e rinnovamento soggettivo. Wark non mitizza la sostanza come semplice evasione: parla di ketamina come di uno strumento che consente di uscire dal corpo e dalla trama psicologica imposta dalla società per poi riassociarsi in un altro spazio di significato. È una tesi che prende posizione su questioni delicate: la dissociazione viene descritta come tecnica di sopportazione collettiva, pratica condivisa che permette di affrontare la precarietà dell’esistenza contemporanea, più che come mero divertimento. Su questo versante, sostiene anche che le persone trans siano le più portate alla dissociazione dal momento che non hanno particolari necessità di stare dentro al proprio corpo.
Wark difende con forza anche l’erotismo espanso del rave. “Voglio essere penetrata dalla luce, dal fumo, dal pavimento, dalle pareti, dai corpi anonimi che ondeggiano. Voglio essere sbattuta dal suono martellante” — è una delle immagini che attraversano il testo e che radicano la sua carica politica nell’eros sensoriale. Alle categorie pratiche esposte nella sua autotheory vengono affiancati, infatti, passaggi più personali in cui il lessico è volutamente trasgressivo al fine di provocarci, ma anche portarci a riflettere su come le periferie sonore possano rimodellare gusti e ricollocare valori estetici.
Al tempo stesso, nel libro viene ribadito che la condivisione ossessiva e la conseguente sovraesposizione mediatica mettono a serio rischio la clandestinità necessaria alla pratica; mette in guardia: più lo spazio è visibile, meno esso può essere al riparo da logiche di sfruttamento, mercificazione e sorveglianza. È una delle diagnosi più nette del libro e la parte in cui la sua voce da teorica urbana si fa più politica.
Infine, è importante ricordare alcuni passaggi polemici, anche graffianti. Wark osserva con tagliente ironia la difficoltà di molti uomini cis-etero a «farsi scopare dalla techno»: una formula che non è letterale ma serve a dire che non tutti i corpi accettano la permeabilità, l’essere attraversati, la vulnerabilità che la pista pretende. È un’analisi di genere che capovolge lo stereotipo della virilità dominante: l’incapacità di essere penetrati — di lasciarsi trasformare dal suono — diventa indice di impotenza sociale. È una raffica critica che colpisce non per moralismo ma per chiarezza analitica.
Con Raving, McKenzie Wark ci offre un punto di vista che arricchisce un più ampio dibattito su tematiche fondamentali del nostro tempo, in un danzante, romantico e personalissimo ritratto dei margini della nostra società.
Leggilo, leggiti.
Autore
Claudio Mele