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C’è una data che fa vibrare corde antiche, eppure sempre inascoltate: il 15 aprile. È il giorno in cui nacque Leonardo da Vinci, che non è solo un genio, ma un modo italiano di pensare, e cioè di mischiare il cesello e la visione, la scienza e la bellezza. Da un paio d’anni, questo giorno è diventato la Giornata nazionale del Made in Italy, una specie di festa laica del saper fare: una cerimonia della manifattura, della tradizione, del talento produttivo che si esprime nei moti armonici delle quattro A – abbigliamento, alimentare, arredamento, automazione. Ma se Leonardo fosse qui, forse – o sicuramente – solleverebbe un sopracciglio. E con quel suo sguardo che pare contenere un’epoca intera, direbbe che una cosa è il prodotto, altra è l’ingegno. E che l’ingegno, prima ancora delle mani, si esprime con la lingua. La lingua, già. Quella cosa viva, capricciosa, mobile, che ci precede e ci fonda. La lingua che ci permette di pensare ciò che sentiamo, e di dire ciò che pensiamo. Non a caso è sempre stata considerata il vero laboratorio nazionale, l’opera collettiva da cui scaturisce tutto il resto. Eppure, proprio questa lingua pare oggi vivere una stagione di abbandono. È quanto ha denunciato, con lucidità e dolore, Donatella Martinelli, docente di Storia della lingua italiana all’Università di Parma, in un recente intervento durante un consiglio di dipartimento. Il suo è stato un intervento non solo tecnico, ma etico. Non solo professionale, ma politico (nel senso alto del termine). Martinelli ha raccontato ciò che spesso si tace: l’emorragia lenta di attenzione verso la lingua italiana. La marginalizzazione della sua didattica. L’abbandono delle attività di recupero per le matricole in difficoltà. Il sovraccarico di cfu sulle spalle di pochi, lasciati soli a fronteggiare il disinteresse. La promessa – mai mantenuta – di un ricercatore. E, infine, la scelta grave di non coprire più con una titolarità stabile l’insegnamento della Storia della lingua italiana, ma di affidarlo, a contratto, a chi verrà. Una pezza, chiamata emergenza, usata come metodo. E qui non siamo di fronte a un errore. Ma a una colpa. Un ateneo che non difende la sua lingua è un ateneo che ha dimenticato il suo scopo. Un'università che spegne il faro della lingua è un'università che smette di educare per iniziare ad amministrare. Lo diceva Tullio De Mauro: «La lingua è l’ambiente di vita della mente. Se quell’ambiente si degrada, tutto il pensiero si degrada». E oggi siamo davanti a un degrado sistemico, reso più grave dall’ipocrisia con cui si continua a parlare di eccellenza, internazionalizzazione, innovazione. Quale innovazione può mai nascere da un’università che non garantisce più nemmeno la continuità di un insegnamento fondante? Che l’ateneo di Parma abbia deciso di non garantire più una titolarità stabile alla Storia della lingua italiana è un segno. Un segno brutto. Un segno che resterà nella memoria di chi oggi studia, insegna, vive dentro queste mura. Perché qui non è stato tagliato un corso. È stato tagliato un patto. La lingua non è un retaggio: è una possibilità. È l’inizio di ogni mestiere, di ogni pensiero, di ogni progetto. La lingua è ciò che ci tiene insieme. Se la si smantella, si smantella la democrazia. Martinelli avrebbe voluto invitare, per chiudere il suo ciclo di lezioni, Jhumpa Lahiri – la scrittrice americana che ha scelto l’italiano come lingua d’adozione. Una testimone formidabile di quanto la nostra lingua possa ancora affascinare. Ma ha rinunciato. Per pudore, forse. O per non esporre l’ateneo a una contraddizione troppo evidente: come si può invitare chi sceglie l’italiano mentre l’università lo abbandona? Nel frattempo, il gruppo di ricerca LIRI – Lingua Italiana e Ricerca interlinguistica – continua il suo lavoro silenzioso. Ogni ultimo martedì del mese, una parola. Una riflessione. Un atto di resistenza. Uno dei pochi che restano. E allora sì, bisogna chiederselo: a cosa serve celebrare il Made in Italy se lasciamo che muoia la cosa che lo ha reso possibile? Che Paese siamo diventati, se difendiamo la forma e abbandoniamo la sostanza? Se celebriamo Leonardo, ma tagliamo le ali a chi custodisce il suo pensiero?
Al Magnifico Rettore dell’Università di Parma. Al Presidente del Corso di Lettere. Al direttore di dipartimento, Sappiate che qui si è consumata una frattura. Non verrà sanata da una mail. Non verrà dimenticata da chi studia, da chi insegna, da chi crede ancora che l’università sia un luogo di responsabilità culturale, non un centro di costi. Lo scriveva Bruno Migliorini: «Una lingua trascurata è una patria che si allontana. Una lingua abbandonata è una patria che si perde». Forse basterebbe ripartire da lì. Da una parola dimenticata. Una parola italiana, magari. Che dica che siamo ancora in tempo.
Autore
Alessandro Mainolfi
Antonio Mainolfi
Niccolò Delsoldato
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