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La Poesia,chi l’ha vista?
Breve cronaca degli ultimi sospiri della Musa
In una trattoria di campagna, di quelle nascoste al turismo di massa, incastonate tra irraggiungibili alture dell’Appennino, insomma, in una di quelle solite stamberghe dove ognuno può ritrovare proustianamente i sapori della propria infanzia, una vecchina tutta rughe e verruche sorbiva rumorosamente la minestra che qualcuno gli aveva servito con noncuranza.
Passava inosservata persino ai camerieri, che dovrebbero prestare ogni cura e attenzione verso i clienti, ma che invece, si sa, nelle osterie non vanno troppo per il sottile, quando si tratta di servire i loro ospiti . Dicevamo, questa vecchia claudicante si rifocillava con l’aiuto di una zuppa, e pareva evitare anch’ella il contatto umano. Dacché era entrata, non aveva parlato ad alcuno dei presenti. Aveva subito preso posto nell’angolo più buio e appartato della stanza, decisa, come se conoscesse già dove andare,come se fosse un'avventrice talmente abituale da avere uno speciale desco riservato. Sotto il fazzoletto che le incorniciava quella corteccia che aveva per volto, però, un occhio allenato ed avvezzo alla fisionomia femminile avrebbe potuto notare i segni di un'antica bellezza. Forse, alcuni avrebbero addirittura potuto concludere che nascondesse la bellezza più sublime di tutte, e cioè quella che univa all’estetica corporale un’estrema beltà di spirito. Se solo qualcuno le si fosse seduto a fianco, se solo avesse cominciato, come si dice, ad attaccar bottone, avrebbe probabilmente sentito i fili del proprio destino intrecciarsi in un un nuovo ricamo. Quella nonnina silenziosa e cupa era,difatti, Calliope, la Poesia.
Epperò l’estetica vince sempre sull’etica, e dunque nessuno si intrattenne con lei. Non biasimate costoro, neppure voi vi sareste avvicinati ad una cenciosa che, ad occhio e croce, avrebbe potuto avere tranquillamente 120 anni e che, a giudicare dalla fame con cui risucchiava il brodo dal cucchiaio, viveva di espedienti nell’indigenza più umiliante. Non mosse a compassione nemmeno la figlia della padrona. Avendo in sé la curiosità tipica dei bambini, era sempre in cerca di nuove storie, per cui potevi trovarla spesso sulle gambe dei contadini ad ascoltare barzellette triviali, che tanto la facevano ridere.
Ma quella vecchia lì, no, mamma, ho paura, non ci vado.
Malgrado l’indifferenza del mondo, la Poesia proseguiva la sua vita di locanda in locanda, in cerca di non si sa bene che-cosa: forse un petto umano da commuovere, forse semplicemente una zona di penombra, ove potesse scivolare nell’anonimato sopra la vita della gente. Una simile ricerca l’aveva portata attraverso le terre degli uomini, durante gli ultimi duecento secoli dell’Era che noi chiamiamo volgare.
A quel punto, la Poesia si portò la fondina di terracotta alle labbra, non preoccupandosi delle prescrizioni del buon costume, giacché, come avrete intuìto, nelle locande di campagna non tollerano nulla di più urbano del rutto libero, ed esaurì quella ciorba saporita fino all’ultima goccia. E tanti complimenti alla cucina! In verità, non si potrebbe certo dire che avesse gustato il suo brodo, per quanto squisito fosse a detta di chiunque avesse avuto l’onore di prenderne una cucchiaiata. La vegliarda, pur rattrappita nelle membra e debilitata dalle lunghe peregrinazioni, era pur sempre di natura divina e pertanto non poteva sostentarsi d’altro che non fosse nettare o ambrosia, né patire in alcun modo dolore corporale. Ma persino l’intero Pantheon soggiace ad una legge, ultradivina ed ineluttabile, secondo cui ogni deità trae il proprio vigore dalle preghiere dei mortali, motivo per cui, sia detto di sfuggita, molti esigevano sacrifici, guerre sante ed edifici sontuosi, frutto di cruore e fame dei popoli. L’aspetto senile della Musa era, dunque, semplicemente un riflesso della considerazione che gli uomini le accordavano. Da ciò se ne ricava che, al presente, non godeva certo di grande stima. Anzi, i primi capelli bianchi le erano spuntati nel 1975, una data che ricordava come se fosse ieri, l’annata in cui un suo amato, amante a sua volta conteso tra tutte le sue divine sorelle, venne pestato a morte finché la sabbia del lido d’Ostia non fosse stata sazia del suo sangue. Qualche settimana dopo, la sua fronte fu solcata dalle rughe come il campo dall’aratro.
Nella seriosa Stoccolma, infatti, un genovese che, stranamente, di mestiere non faceva il marinaio ma il poeta, e che, ancor più stranamente, non era posseduto dall’avarizia bensì generoso di dispensare Occasioni ai posteri e ai contemporanei, pronunciava l’eclissamento della dea dalla società di massa.
Da allora ella avrebbe assaggiato l’amaro calice della solitudine. Ben sapeva che non avrebbe più veduto alcun tuffo saffico giù per una scogliera, non avrebbe più conosciuto alcun’altra Alda cui accendere la sigaretta, non avrebbe mai più conciliato il Sonno-Sleep a nessun’altra Amelia.
Nessuno l’ha più cercata, non ha cercato nessuno.
Tutti l’incontrano, sfugge a tutti.
Appare ora più chiara la ragione per cui la vecchia si sia concessa ad uno stato di totale ritrosia e abnegazione, e non ci si deve dunque stupire se, quando un avventore dal naso rubizzo, lampeggiante a mo’ di segnale di una sbornia incipiente, le inciampò addosso con una piroetta, fu lei la prima a chiedere scusa, tanto si era fatta piccola per la vergogna che il beone la potesse notare.
L’inconveniente, per quanto ci è dato conoscere, non ebbe effetti decisivi per la nostra storia. Il proprietario della bettola, che probabilmente aveva una certa confidenza col malcapitato alcolista, lo tirò su per la lunga barba e gli piazzò una rieducativa pedata nel sedere. Calliope, risollevata, ricacciò gli occhi sul piatto vuoto, per dare ad intendere una qualche disinvoltura e per evitare che l’oste potesse rivolgerle la benché minima parola di consolazione.
Indi una mosca, probabilmente attirata dagli odori nauseabondi promanati dalla vegliarda, che non si lavava all’incirca dai tempi di Garibaldi, cominciò a ronzarle attorno. Pareva disegnare delle spirali attorno al suo naso butterato, il che le riportò alla memoria le piroette dell’ubriaco di poc’anzi. Le montò così una rabbia dal sapore di autorimprovero per aver fatto la figura del patacca, dato che aveva indebitamente offerto le proprie scuse a quell’impiastro importuno. Tale rabbia venne a sfogarsi in un sonoro “clap!”, con cui la Musa schiacciò l’insetto tra i suoi ruvidi palmi. Dopodiché, ritenuto che era ora di sloggiare, spostò un bicchiere sbeccato al centro della tovaglia di plastica, tirò fuori due banconote dal reggiseno e le depose sotto il bicchiere. Non senza fatica, facendo scricchiolare le ginocchia, si alzò. <<Oh Issa!>> . Tentò di coprirsi il viso col velo sgualcito, tirandolo il più in basso possibile dai lembi laterali, poi si diresse verso l’uscita a passo svelto, almeno per quanto svelta potesse essere l’andatura di una centenaria.
Giunta all’aperto, considerò quanto fosse divenuta insalubre l’atmosfera rispetto ai tempi della sua giovinezza, quando ancora riecheggiavano nei salotti e nei caffè i versi di quel lungimirante cigno Eupilino: “Pèra colui che primo/ a le triste oziose/ acque e al fetido limo/ la mia cittade espose; /e per lucro ebbe a vile/ la salute civile.” Neanche a farlo apposta, mentre vagava fra questi nostalgici pensieri, le venne da espettorare e dalla sua bocca uscì un ragado di catarro talmente grosso da sembrare una rana.
Bè , basta, ci siamo dilungati fin troppo in questi particolari scabrosi; tuttavia capacitatevi, signore e signori, del fatto che la Poesia è anche questo: merda e cristallo.
(inizio seconda parte)
Tre ore dopo dacché abbiamo lasciato la gargotta, ritroviamo la nostra amica in una ignota strada sterrata, alla periferia di un’altrettanto ignota cittadina del Bel Paese. Non è dato conoscere gli spostamenti della poverella nell’arco di tempo intercorso tra le due e le cinque del pomeriggio, ma possiamo ipotizzare che avesse proseguito il suo cammino senza meta, fino ad incappare, per caso e senza nessun fine apparente, al cancello di una casa che si ergeva malinconica su un altopiano. La solitudine che circondava la villa non potè che suscitarle un inconscio legame analogico con la sua, di solitudine. La sicurezza di non essere vista, l’aspetto rassicurante del giardino che si intravedeva dietro le sbarre del cancello, l’avvicinarsi della notte e l’impellenza di procurarsi un nuovo paio di scarpe la incoraggiarono a suonare al campanello. Drììììn. Drìììììììììn… Drìììììììììììììììììn.
Al terzo tentativo, risoltosi in un nulla di fatto, stava oramai per arrendersi e già si guardava intorno per cercare un posto riparato dove trascorrere la nottata. Del fatto che nessuno fosse accorso ad aprire la porta, non era per niente amareggiata. Sebbene qualunque passante dotato di una vista mediocre potesse accorgersi della presenza di qualcuno in casa, data la luce che filtrava attraverso un paio di tende al primo piano, ella non insistette oltre né si scompose. Dovete sapere che, oltre che di indole estremamente schiva (spesso scambiata per misantropia) Calliope spiccava per selvatichezza, tant’è che era cresciuta in mezzo ai boschi dell’Elicona, laddove aveva appreso ad accendere un focolare, a realizzare materassi di fortuna con lunghe fibre vegetali intrecciate, a distinguere l’ailanto dal frassino. Insomma, non si sarebbe certo fatta problemi a passare una notte all’addiaccio, tanto più che non doveva nemmeno preoccuparsi di lupi o orsi, giacché era improbabile una loro sortita notturna in prossimità di una lussuosa magione di campagna.
Intanto il cielo s’era a poco a poco gonfiato e tumefatto come un tumore. Non che minacciasse pioggia, ma senz’altro quel blu sanguigno, che aveva illividito la volta celeste, annunciava che ci sarebbe stata una notte senza stelle. Un attimo dopo, anche la luna fece sentire la sua presenza: prese a nascondersi dietro le nuvole, per poi spuntare nuovamente da tutt’altra parte. Pareva un modo scherzoso per attirare l’attenzione, come se volesse dirci: <<Cucù! Eccomi! Ci sono anch’io!>>.
Calliope finalmente individuò un groviglio di ortiche ed eriche ai bordi del canale di irrigazione che costeggiava la strada, il quale poteva fungere da letto e fare al caso suo. Si avvicinò, attenta a non finire nel fango del canale per via di una storta. Poi ,lentamente, sfilò dai piedi i sandali, se tali si sarebbero ancora potuti chiamare, considerato che le suole erano talmente consumate che se ne poteva vedere attraverso, e si sedette sulle ginocchia, col collo rivolto alla luna, per implorare il Padre di lasciarla morire, una buona volta. Eppure, proprio mentre le lacrime cominciavano ad offuscarle la vista, rendendo traballante la realtà tutt’attorno, riuscì comunque a scorgere un punto nero che oscurava la luce di una finestra. Di fretta si asciugò guance ed occhi col dorso nocchiuto della mano, e capì che quel punto nero era un’ombra bassa e sottile, traditore della presenza di un bambino. La sagoma stava ferma. Probabilmente il bimbo era assorto nella contemplazione di qualcosa al di fuori della finestra, ma da dove si trovava Calliope non era possibile appurare se guardasse verso di lei, oppure la luna, o, più in generale, il paesaggio all’orizzonte. Decise dunque di alzare il braccio in un gesto di saluto, che parve piuttosto un vero e proprio S.o.S. Dopo qualche secondo, il bimbo ricambiò e sparì dalla finestra. La luce al primo piano si spense, poi venne riaccesa dabbasso. Si sentì un tintinnio metallico dal portone d’ingresso, e poco dopo dallo stipite emersero (in quest’ordine) una testolina bionda, due occhi azzurri, due gote rosse,un naso a patata, labbra che sembravano un fiore. Il bimbo era, invero, una bambina, non avrà avuto più di dieci anni, nondimeno la di lei espressione era quella tipica della malinconica maturità che si sarebbe potuta leggere nelle rughe di Eraclito ne “La scuola di Atene” di Raffaello. Non appena la piccola ebbe percorso il sentiero antistante, fino ad arrivare in prossimità della cancellata, la Poesia ebbe modo di esaminare meglio quella che sembrava una donna bell’e fatta, ma in miniatura, e indovinò che la fanciulla aveva già da un pezzo abbandonato bambole e giocattoli, che anche lei, la piccina, partecipava della medesima solitudine dell’ambiente circostante e che ,quasi sicuramente, aveva bisogno di un amico (altrimenti non avrebbe trasgredito il divieto dei genitori di non intrattenersi con gli sconosciuti, tanto più se questi sconosciuti avevano un aspetto cencioso e poco raccomandabile).
Fu la vecchia a rompere il ghiaccio, facendo mostra di una voce graffiata dal freddo e dall’età: <<Ciao, piccina. Non intendo spaventarti, ho suonato io al campanello, poco fa. Passavo da queste parti per cercare un posto dove dormire, e così ho pensato di chiedere qua da te. Poi ho trovato questo bel lettino verde, molto comodo, sai? Da quaggiù si vede bene la luna, si sta molto bene.>> Passò qualche secondo prima che Calliope si accorgesse di non aver chiesto alla bambina come si chiamasse. Ma dobbiamo perdonare la sua imperizia nelle conversazioni e nei convenevoli, d’altronde erano decenni che non parlava con qualcuno.
Chi raccontò questa storia mi deve aver senza dubbio riportato il nome di quella ragazzina, ma, ahime!, sono passati troppi anni e devo essermelo dimenticato. Bè, non importa, si vive lo stesso, no?
Comunque sia, la biondina e la nonnina, entrambe estremamente timide ed introverse, riuscirono a poco a poco a fidarsi l’una dell’altra. La bimba era spiacente di non poterla ospitare, siccome erano guai seri, se mamma e babbo avessero scoperto la presenza di un estraneo nella stanza per gli ospiti. Non voleva nemmeno pensare alla punizione che avrebbe subìto, intuendo con la sua coscienziosità che, come minimo, sarebbe durata fino a quando non fosse divenuta maggiorenne. Però c’era effettivamente un modo per soccorrere Calliope: le avrebbe portato un piatto caldo, un plaid, una candela, e le avrebbe donato gli stivali di mamma.
A tanta inaspettata benevolenza, Calliope non poté far altro che commuoversi e riprendere il pianto interrotto poco prima, con l’unica ma significativa differenza che quelle nuove lacrime avevano tutt’altro sapore. Mai la dea si sarebbe immaginata di essere soccorsa da un mortale tanto piccolo e innocente, tant’è che rimase senza parole, non riuscendo a far altro se non biascicare un bavoso: <<Gra-scie>>.
Da qui ebbe principio un sodalizio che si consolidò in fretta, a maggior ragione dopo che Calliope ebbe rivelato la sua natura olimpica, di cui la bimba aveva nutrito il sospetto già dal primo incontro. Da allora Calliope aveva messo la parola fine al suo ramingare, e tutte le sere pernottava sotto la finestra che s’era accesa quella sera, aspettando la sua amica con cui avrebbe ragionato al chiaro di luna. La piccina già stava cominciando ad incupirsi a causa dell’imminente inverno, durante il quale persino le imposte sarebbero rimaste chiuse, per impedire al freddo di passare. Calliope tuttavia era una dea, decaduta sì, impoverita sì, indebolita sì, quasi umanizzata, eppure rimaneva una dea, cui oltretutto alcune rughe frontali stavano cominciando ad appiattirsi grazie all’influsso ringiovanente della nuova amicizia; pertanto la sua deità le permetteva di comunicare con chiunque volesse tramite uno speciale soffio (pneuma lo chiamavano i suoi cari Elleni) che oggigiorno sarebbe definito col nome fantascientifico di telepatia.
Oramai anche il lettore meno accorto dovrebbe aver afferrato la conclusione di questa storia: da quelle conversazioni serotine, alimento di un legame eterno tra Calliope e la bimba, ne uscirono componimenti sublimi, che si trattava solo di far maturare assieme alla tecnica che la piccola ancora non poteva avere per mere ragioni biografiche. Ma quando fu abbastanza grande, la Poesia fu ben felice di impartirle lezioni di metrica e stile, sicché in un paio d’anni quei componimenti, rivisti e sistemati, furono pubblicati in una silloge. Calliope non si era mai sentita così viva come quando, in prima fila tra gli spettatori, ascoltò la sua pupilla presentare la raccolta ad una platea di critici, i quali, benché temuti per la loro severità, si abbandonarono infine in un lungo scroscio di applausi.
E così Calliope fu di nuovo giovane e ricominciò a farsi vedere tra i mortali.
Autore
Niccolò Delsoldato