8
Qualcuno disse che narrare storie è uno dei fondamentali bisogni dell’umanità, potremmo dire un bisogno fisiologico, al pari del dormire, del bere, del fare sesso.
Non ricordo chi lo disse. Non importa. Ciò che importa è invece il nòcciolo di questo enunciato, che vuole evidenziare l’istintivo sforzo, tutto umano, di interpretare la realtà. Quando raccontiamo una vicenda cui abbiamo assistito, che abbiamo ascoltato o letto, la passiamo entro un nostro personalissimo setaccio interpretativo. In noi operano diversi filtri che vanno a modificare la vicenda così come l’abbiamo appresa, producendo talvolta una storia totalmente diversa dall’originale. Ogni storia con cui entriamo a contatto viene alterata- o meglio interpretata- dalla nostra memoria, dai nostri valori etici, dalle nostre esperienze di vita.
Ebbene, vorrei qui dare retta a questo mio impulso umano di interpretare una storia, cui voi darete un’ulteriore personale lettura e che riporterete a qualcun altro, che sarà tentato di raccontarla ad altri ancora, e così via, in un gioco infinito di intrecci della medesima trama.
La storia è delle più avvincenti e drammatiche, di quelle che sembrano fatte apposta per sbancare al botteghino. E infatti... l’industria cinematografica americana non poteva che trarne un soggetto di successo, trasformando la sofferenza delle persone coinvolte in questa tragedia in un prodotto di consumo posticcio.
Tutto questo farneticare di teorie sulla narrazione e ancora non è stato rivelato di che storia si tratti. Diciamolo senza indugio: la relazione d’amore tra il giovane Rimbaud ed il suo Verlaine.
I protagonisti del nostro racconto sono sì i due più grandi animatori del parnassianesimo, ma sono pur sempre amanti in un'epoca in cui essere omosessuali era un vero stigma- per usare un eufemismo-. Nonostante il loro amore fosse sorto in terra francese, allora considerata patria di libertinaggio ed oggi vista come iniziatrice della rivoluzione sessuale che segnerà il secolo successivo, diciamo che non era comunque ben visto che un padre di famiglia, per di più coronato da allori ed osannato dall’élite culturale europea, si piegasse ai capricci d’amore di un giovane provincialotto.
Quando Verlaine conobbe il suo Arthur, in quel memorabile settembre del 1871, aveva 27 anni ed era sposato da un anno con Mathilde, una fanciulla non ancora maggiorenne che avrebbe portato sulle spalle il peso di un figlio e di un marito alcolizzato, assente, infedele e violento. Aveva esordito giovanissimo, nel 1866, anno di pubblicazione dei suoi Poèmes saturniens, ove alcune delle liriche ombreggiano già un’indole melanconica e turbata la cui origine- leggendo tra le righe-potrebbe essere individuata nella sua malcelata attrazione per gli uomini. Possiamo affermare che contenesse in sé la contraddizione dell’uomo mondano, dedito alle feste e agli elogi pubblici, e del poeta maledetto che tenta l’oblio con l’abuso di alcool e droghe. Ma, in fondo, nella ville lumière la mondanità comportava anche la sregolatezza e Verlaine ben conciliava il suo stile di vita con la sua poetica. Come i suoi versi rompevano gli schematismi classici, sputando su ogni regola e simmetria, così anche la sua vita rifuggiva sempre la monotonia, anche a costo di beccarsi una pallottola in corpo, finire in carcere e concludere i suoi giorni in miseria. Verlaine sentiva come lontano il mondo sensibile, era estraneo al suo tempo, credeva di essere una nota fuori posto, e si rapportava di conseguenza. Non so se questa interpretazione dei sentimenti del poeta sia corretta – ma nessuna interpretazione è mai totalmente corretta, né totalmente sbagliata-; penso che questa deduzione mi sia venuta leggendo un sonetto che ha tutta l’aria di essere un vero e proprio autoritratto: sto parlando de “Il clown”, contenuto in “Jadis et naguère”. Vale la pena riportare la poesia interamente, così che possiate farvi un’idea di quel che voglio dire.
Bobèche, adieu! bonsoir, Paillasse ! arrière, Gille !
Place, bouffons vieillis, au parfait plaisantin,
Place ! très grave, très discret et très hautain,
Voici venir le maître à tous, le clown agile.
Plus souple qu’Arlequin et plus brave qu’Achille,
C’est bien lui, dans sa blanche armure de satin ;
Vides et clairs ainsi que des miroirs sans tain,
Ses yeux ne vivent pas dans son masque d’argile.
Ils luisent bleus parmi le fard et les onguents,
Cependant que la tête et le buste, élégants,
Se balancent sur l’arc paradoxal des jambes.
Puis il sourit. Autour le peuple bête et laid,
La canaille puante et sainte des Iambes,
Acclame l’histrion sinistre qui la hait.
[Saltimbanco, addio! Buona sera, Pagliaccio! Indietro, Babbeo:
Fate posto, buffoni antiquati, dalla burla impeccabile,
Fate largo! Solenne, altero e discreto,
ecco venire il migliore di tutti, l’agile clown.
Più snello d’Arlecchino e più impavido di Achille
è lui di certo, nella sua bianca armatura di raso:
etereo e chiaro come uno specchio senza argento.
I suoi occhi non vivono nella sua maschera d’argilla.
Brillano azzurri fra il belletto e gli unguenti
mentre, eleganti il busto e il capo si bilanciano
sull’arco paradossale delle gambe.
Poi sorride. Intorno il volgo stupido e sporco
la canaglia puzzolente e santa dei Giambi
applaude al sinistro istrione che l’odia.]
Ora potete convenire o meno con quello che dicevo a proposito della frustrata scissione interiore del poeta, che si riflesse perfettamente anche nei suoi rapporti col suo piccolo grande amante.
Rimbaud nel 1871 aveva 17 anni ed era appena arrivato a Parigi. Veniva infatti da Charleville che, pur essendo capoluogo delle Ardenne, non dava certo grandi opportunità per uno spirito ambizioso e sognatore come quello di Arthur. Aveva vissuto fino allora con la madre (il padre, capitano di fanteria, aveva praticamente abbandonato la famiglia, un po' come farà Verlaine con Mathilde e il piccolo Georges, il suo unico figlio), che lo aveva spinto a studiare con dedizione. Arthur è brillante nello studio e porta grandi soddisfazioni in casa, anche perché si dimostra un fedele impeccabile nella chiesa locale. Ma come spesso accade a chi viene imposta l’etichetta di figlio modello, a un certo punto Rimbaud non sopporta più queste catene di severità: si fa aggressivo, sregolato, un vero punk ante-litteram. Lo immagino facilmente aggirarsi per le strade, con in testa una fiera cresta a punte, nell’atto di mandare affanculo qualunque malcapitato gli abbia anche solo chiesto l’ora.
Se è vero che il punk non è solo un fattore estetico, ma una precisa visione di vita, allora è vero anche che Rimbaud, malgrado la sua giovane età e la sua educazione irreprensibilmente bigotta, anticipò in tutto il movimento che avrebbe scandalizzato il sistema valoriale borghese degli anni ‘70. Se fosse nato un secolo dopo, avrebbe certamente rubato la scena ai The Clash o magari avrebbe fatto un memorabile duetto con Billy Idoll, sulle note di “Rebel Yell”.
(Stiamo divagando. Eppure, le divagazioni e le dispersioni, il proliferare dei temi apparentemente più disparati, l’accavallarsi di un ragionamento sull’altro, sono parte fondamentale di tutte le storie che si rispettino. Divagare è sempre un atto propedeutico alla comprensione. Ragion per cui perdonerete se premo spesso il tasto “pausa” e mi fermo per fare due battute.)
Dicevamo, Arthur comincia a manifestare segni di insofferenza, il piccolo ambiente di Charleville gli sta stretto, soprattutto perché vuole fare esperienza di tutto, desidera provare il maggior numero di sensazioni e desidera provarle fino in fondo, fino a vomitare. Mentre a portare Verlaine all’abuso e alle dipendenze è una sorta di scissione con la società moderna, un senso di nausea quasi sartriano, è stata invece la tensione verso un infinito emotivo e sensibile a spingere Rimbaud al mondo dionisiaco. Lo stesso slancio alla passione assoluta che lo porterà ad amare un uomo dissoluto e assoluto come Verlaine.
Se Verlaine è in costante ricerca di sé stesso e tenta disperatamente di trovare una sicurezza- economica, morale e poetica- che gli sfugge, il punkettaro Rimbaud ha le idee chiare di chi vuol diventare, sa molto bene cosa vuol fare della sua vita, tant’è che tratteggia il suo manifesto ideologico in due scritti fondamentali e complementari: la “Lettera del Veggente”, completata già da sedicenne, e “Una stagione all’Inferno”, del 1873, scritta durante gli anni di fuoco con Verlaine.
Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di follia; egli cerca sé stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all'ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all'ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l'intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste! Che crepi nel suo salto verso le cose inaudite e innumerabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti dove l'altro s'è accasciato! (Lettera del Veggente)
Un grande vascello d’oro, sopra di me, sventola le sue bandiere variopinte alla brezza del mattino. Ho creato tutte le feste, tutti i trionfi, tutti i drammi. Ho cercato di inventare nuovi fiori, nuovi astri, nuove carni, nuove lingue. Ho creduto di acquisire poteri sovrannaturali. Ebbene! devo seppellire la mia immaginazione e i miei ricordi! Bella gloria di artista e di narratore andata in malora!
Io! io che mi sono detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, eccomi qui, steso al suolo, con un dovere da cercare, e la rugosa realtà da stringere! Bifolco!
Sono stato ingannato? La carità sarebbe sorella della morte, per me?
Insomma, chiederò perdono per essermi nutrito di menzogna. E andiamo. Ma non una mano amica! e dove cercare soccorso? (Una stagione all’inferno)
Nel giro di non troppo tempo, vediamo un Rimbaud passare dall’ esaltazione per il ruolo di poeta alla disperazione per un paventato tradimento o fallimento esistenziale. Non c’è dubbio che i motivi di questa katastrophé vada ricercata nei primi segni di rottura con Verlaine.
E allora ripercorriamo in breve il travaglio del loro amore attraverso qualche lettera del loro straordinario epistolario.
Qualche pagina fa, quando ancora non si stava divagando, abbiamo dato un’istantanea della personalità di Arthur – il punkabbestia del XIX secolo, ricordate? - e abbiamo parlato della sua sete di farsi poeta vate, di montare in sella al carro delle Lettere. Oltre ad essere un sognatore, però, Rimbaud è anche imbevuto di pragmatismo. Sa bene che per farsi conoscere dal grande pubblico ha bisogno di un aiuto e sa già su chi dover contare. Comprende che la via più efficace per sprovincializzare le sue poesie è quella di suscitare le attenzioni del principale animatore degli ambienti intellettuali del tempo: Paul Verlaine.
Così, prende carta e penna e, allegando tre poesie: Sensation, Ophelie e Ma Bohème (Fantasie), scrive:
Charleville, 24 settembre 1871
Signore,
Mi permetto di inviarle alcuni versi, sperando che non mi trovi troppo sfacciato.
Sono ancora giovane — ho diciassette anni — ma posso vantarmi, senza presunzione, di aver già scritto qualche verso che vale qualcosa.
Ecco dunque alcune composizioni, delle quali spero vorrà dirmi sinceramente che cosa ne pensa.
Le chiedo scusa, Signore, e perdoni l’insistenza di questa lettera: ma il suo nome è per me un vero talismano di poesia, e ho l’audacia di sperare che mi leggerà.
Gradisca, Signore, il rispettoso omaggio del
Suo devoto,
A. Rimbaud
Giusto per farci un’idea di come mai Verlaine, pur dall’alto della sua palma poetica, non poteva che rimanere folgorato da questo giovane forestiero, leggiamo almeno “Sensation”, il primo poema allegato all’epistola.
Par les soirs bleus d’été, j’irai dans les sentiers,
Picoté par les blés, fouler l’herbe menue :
Rêveur, j’en sentirai la fraîcheur à mes pieds.
Je laisserai le vent baigner ma tête nue.
Je ne parlerai pas, je ne penserai rien :
Mais l’amour infini me montera dans l’âme,
Et j’irai loin, bien loin, comme un bohémien,
Par la Nature — heureux comme avec une femme.
[Nelle sere d’estate azzurre andrò per i sentieri,
Calpestando l’erba minuta, punto dai grani:
Sognante, sentirò sotto i piedi la frescura.
Lascerò che il vento mi bagni la testa nuda.
Non parlerò, non penserò a nulla:
Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,
E andrò lontano, molto lontano, come un bohémién,
Nella Natura — felice come con una donna.]
Appunto, chi non si sarebbe innamorato della sublime anima che ha meditato questi versi?
Paul sente di aver trovato finalmente il suo degno successore. Pertanto, non perde tempo e lo invita subito a Parigi. Decide di andarlo a prendere alla Gare de l’Est, ma si verifica un vero e proprio atto mancato, come lo definirebbe Freud, che già sembra presagire il rivolgimento disastroso della loro storia: Arthur, infatti, non si trova e Paul ritorna a casa demoralizzato. Apre il portone d’ingresso e, sorpresa, trova un giovanotto seduto – anzi stravaccato, come ben si addice ad un punk- sul suo divano. Quel giovane, non c’è dubbio, è il suo giovane. La moglie Mathilde lo aveva fatto accomodare di mala voglia, quasi avesse già compreso che questo parvenu venuto da lontano sarebbe stato una bella rogna, una gatta morta, un secondo gallo nel pollaio.
I due, dunque, fanno conoscenza e scatta la scintilla. O, meglio, si aggiunge la carica erotica, considerato che la scintilla spirituale si era già accesa per via letteraria.
Nonostante le personalità molto diverse, che saranno a monte dei loro attriti, condividono il medesimo stile di vita “dissoluto”, ma con due scopi opposti. Verlaine si ubriaca tutte le sere per annullare il mondo che lo circonda e di cui non si sente parte; Rimbaud beve fino a vomitare per vedere nuovi mondi. Verlaine fuma hashish per scappare dalla realtà; Rimbaud esperisce tutte le droghe per amplificare i suoi sensi. Verlaine si aggira per Parigi e per l’Europa alla ricerca della propria identità; Rimbaud per abbracciare il maggior numero di luoghi e persone. Mentre Verlaine ha trovato uno spirito fratello da amare e in cui rispecchiarsi, per cui non vuole mai staccarsi dal suo Arthur; Rimbaud brama di provare tutte le forme dell’amore e va a letto con chi gli capita. A tutto questo va aggiunto che Verlaine è un uomo sposato e con gli occhi addosso, e non può permettersi che la sua omosessualità diventi esplicita. Ma Rimbaud, distruttore di qualunque catena alle libertà espressive, tanto nella scrittura quanto nell’amore, fa di tutto per sventolare ai quattro venti la relazione col grande parnassiano. L’arroganza, l’infedeltà ed il carattere ribelle del giovane portano presto a litigi molto accesi, a fughe, allontanamenti e riavvicinamenti continui. Durante le discussioni vengono alle mani, ma dopo poche ore la pace è bell’e fatta: si ritrovano a bere assieme nel locale più sudicio che riescono a trovare nelle circostanze.
Tutto procede per ritmi alternati di quiete e tempesta, fino a quando, per una discussione futile nata dalla solita battuta di scherno di Arthur, Paul tira fuori un revolver e preme impulsivamente il grilletto. Ahia! Arthur viene colpito al polso, senza essere ferito gravemente. Malgrado la parziale innocenza di quel proiettile, la frittata è fatta, lo scoppio si sente e la polizia irrompe nella camera d’albergo - Verlaine aveva rintracciato l’amico a Bruxelles a seguito di una delle sue solite fughe-. Paul viene arrestato e si fa due anni al fresco. È la rottura definitiva. Quando Verlaine, dopo aver scontato la pena, rivede il suo caro Arthur, capisce che tutto si è sciupato, che l’amico è insofferente verso di lui, che lo trova quasi patetico. E così sciolgono i lacci che univano le loro vite: Arthur va a fare il trafficante di schiavi in Africa; Paul cade in depressione e raddoppia le dosi di assenzio. Negli ultimi anni, Verlaine si ritira in un’esistenza scarna, fatta di letti d’ospedale, pensioni di terz’ordine, e versi sempre più carichi di rimpianto. Si converte al cattolicesimo, in un tentativo forse sincero – o forse disperato – di trovare pace in qualcosa di più grande. Continua a scrivere, ma le sue parole sono diventate stanche, disilluse, come se la poesia non fosse più una forma di salvezza, ma un diario della rovina. Morirà nel 1896, solo e dimenticato da quei salotti che un tempo gli avevano fatto corona.
Quanto a Rimbaud, dopo la parentesi con Verlaine, abbandona definitivamente la letteratura. Per sempre. Come se la poesia, una volta attraversata fino al suo punto di rottura, non potesse più offrirgli nulla. Parte per i paesi arabi, si arricchisce con traffici ambigui, fa la guida per carovane, mercanteggia armi e schiavi. Muore giovanissimo, a trentasette anni, per un tumore al ginocchio che lo costringe prima all’amputazione e poi alla resa finale.
Così finisce una delle più tormentate e incandescenti storie d’amore del XIX secolo, ma anche uno dei più simbolici scontri tra due visioni opposte dell’arte e della vita: da un lato il poeta che cerca nell’ebbrezza l’evasione dal mondo; dall’altro il veggente che si fa mostro per poterlo vedere davvero, quel mondo.
Eppure, al di là delle ferite, dei colpi di pistola, dei tradimenti e delle fughe, qualcosa resta. Restano i versi, che ancora oggi parlano con voce scandalosa e luminosa. Resta il racconto, che oggi ho scelto di narrare, ma che domani sarà già un altro: perché ogni volta che viene raccontata, la storia di Verlaine e Rimbaud cambia forma, cambia voce, cambia cuore.
Molti studiosi credono che l’amore fra i due fosse unidirezionale, ritengono che, alla luce di tutti i capricci del giovane verso il suo più anziano amante, si trattasse di mero opportunismo da parte di Rimbaud. Questa teoria non è così peregrina, a dire il vero. Prende le mosse dal fatto che la violenza e i litigi fra i due, che rappresentò una costante degli anni del loro sodalizio amoroso, fossero sempre causati dalle provocazioni che Arthur muoveva alle manifestazioni di gelosia di Paul.
Nondimeno, l’amore non può essere liquidato in questo modo così razionalistico, così pragmatico. Può ben darsi che inizialmente Arthur avesse scritto la già citata lettera per aprirsi un varco nel panorama letterario, ma non è possibile minimizzare i moti di un animo come il suo, così romantico, viscerale, così completamente attratto dalle energie che vorticano nel cosmo. L’amore non prevede calcoli. L’Amore è multiforme e la forma che assume è una diretta conseguenza delle personalità degli amanti. Non dobbiamo perciò stupirci della turbolenza della loro storia. Il loro Amore vive alla giornata, si rinnova in ogni istante. Il loro Amore è bohemien. Il loro Amore è un punk, odia gli schemi, le strutture, i sistemi fissi. Insomma, quello tra i due poeti è- non si può negare- un amore fatto di poesia e portato agli estremi. Per Arthur e Paul, l’Amore fu una salutare follia.
Autore
Niccolò Delsoldato
Potrebbero interessarti:
