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Stava seduto su una di quelle orrende sedie di plastica da bar di paese, scolorita come tutte le altre, con la pubblicità di un gelato di almeno vent’anni prima ancora impressa sullo schienale e i ragni che avevano fondato una loro piccola cittadina sotto la seduta che nessuno si era mai preoccupato di spolverare.
Sorseggiava una limonata freddissima e fissava le macchine che passavano per il semaforo mentre ripeteva ad alta voce la targa, un piccolo gioco tutto suo che forse anestetizzava la noia che si trascinavano i caldi pomeriggi estivi, in cui gli adulti hanno mille faccende da sbrigare mentre i bambini vagano per paesi e cortili in cerca di divertimento.
«CT237GH!»
«Giovanni ancora? Vieni al parco con noi per favore, ci serve il portiere!»
Pietro lo aveva chiamato a giocare come tutti i giorni, aveva attraversato tutto il paese da solo, sotto il sole cocente soltanto perché Giovanni era perfetto in quel ruolo: era un colosso e si incastrava alla perfezione tra i due alberi che i bambini utilizzavano come porta. Ma Giovanni si faceva sempre pregare – o almeno così pensava Pietro – e poi non veniva mai. Il bambino era sicuro che prima o poi avrebbe smesso di chiamarlo, ma non quel giorno, c’è sempre tempo per lasciar perdere qualcuno, specie se come portiere è perfetto.
«Allora vieni o no? Per favore Gio, se non vieni perdiamo anche oggi!»
«EM593NK!»
«Vabbè, ciao Gio.» Pietro si era arreso un’altra volta. «Io ci ho provato, sei antipatico.»
«FA108HL!»
Giovanni guardò Pietro attraversare la strada correndo e scomparire dietro all’acquedotto. Lì c’era l’entrata del vecchio parco, con i giochi rovinati dal tempo e le panchine piene di disegni orrendi, insulti a chissà chi e – se si leggeva bene tra gli strati dei vari pennarelli – anche qualche cotta confidata in segreto. Un paio di volte c’era andato anche lui, ma era troppo piccolo per ricordare quel posto. Ora il suo gioco aveva regole infrangibili, l’asfalto era come le colonne d’Ercole, il marciapiede, l’acquedotto e il parco non servivano, quindi non solo non esistevano, ma gli incutevano una paura inspiegabile e terribilmente potente, motivo per cui negare la loro stessa realtà era l’unica soluzione per poter vivere tranquilli.
«Giova, andiamo a casa.»
Sua madre era tornata a prenderlo, lo aveva lasciato seduto e tranquillo con la sua bibita mentre lei faceva compere in merceria, nella speranza che quel giorno seguisse finalmente Pietro ed attraversasse le colonne. La donna era molto più vecchia di tutte le madri del piccolo centro, la sua schiena si piegava al peso degli anni e il suo volto ricordava i solchi che avevano i campi aridi ed abbandonati. Gli diede un bacio, prese il figlio per la mano e insieme si incamminarono lentamente verso casa.
«Un altro giorno senza progressi, eh Giova?»
Mentre gli faceva la domanda, la donna tornò indietro con la mente a quel pomeriggio di circa di vent’ anni prima, a lei che faceva accomodare il suo Giovanni di otto anni al bar e lo faceva sedere sulla sedia con la pubblicità del suo gelato preferito, alle compere in merceria, alla macchina che arrivava sfrecciando per quella strada di campagna ed infine a suo figlio accasciato dal lato dell’asfalto opposto rispetto a dove l'aveva lasciato.
Tutto cambiò da quel momento: La strada che Giovanni aveva cercato di attraversare divenne per lui un confine invalicabile e la memoria di com’era il mondo oltre fu interamente spazzata via; il tempo passò inesorabile e si mostrò a lui come alternanza di lettere e numeri sulle automobili, che lui scrutava senza la minima distrazione, all’inconsapevole ricerca di quella particolare combinazione: il suo primo ricordo.
Autore
Gabriele Parenti