Parlare di felicità e di abissi della mente significa avventurarsi in un territorio antico e fragile insieme: un luogo interiore in cui filosofia, spiritualità e visione del mondo s’intrecciano. Per questo la lettera della redazione porta un titolo che vuole essere più di un semplice richiamo al tema centrale di questo numero: vuole essere un invito. De felicitate, “Sulla felicità”.
Un invito a vivere la vita con gioia anche quando sembra dimenticarsi di noi; un invito a interrogarci su ciò che illumina le nostre giornate e, allo stesso tempo, su ciò che le oscura; un invito a riconoscere la delicatezza di uno stato d’animo che sfugge alle definizioni ma che, proprio per questo, merita di essere cercato, osservato, custodito.
Ed è con questo spirito che si apre il mensile di dicembre: con una riflessione costruita per chiaroscuri, non lineare, che non pretende di restituire una verità ma solo i frammenti di un cammino che la nostra redazione sta compiendo.
Partiamo dicendo che il tema “La felicità e gli abissi della mente” potrebbe essere definito, in un certo senso, un tema “lunare”. Lunare perché, proprio come la luna, la felicità rasserena e porta luce nel buio, ma resta comunque legata al buio stesso: nella sua presenza come – e forse ancora di più – nella sua assenza, quando scompare dopo essere rimasta con noi per un tempo preciso.
È stato proprio questo doppio movimento del sentimento a guidarci, nella vita e nella scelta del tema culturale di questo mensile: quella tensione che nasce quando la felicità svanisce e che ci spinge di nuovo a scrivere, a pensare, a dare forma a un numero composto da una pluralità di idee. Idee divergenti, vere e indipendenti, uniche e incoerenti, incontenibili e vive: vive nelle voci, nelle presenze, nei ricordi.
In questo dicembre che, per la nostra società, appare forse più freddo di altri – più freddo del calore umano, più lungo del tempo scandito da un mensile – abbiamo sentito la necessità di ripartire proprio da qui: cosa significa essere felici?
È la domanda che ci siamo posti durante l’Assemblea generale di novembre. Ed è stato proprio allora – durante una pausa silenziosa dopo averla formulata – che qualcosa ci ha attraversati. Un istante breve, quasi impercettibile, in cui nessuno parlava e ognuno sembrava ripiegato dentro di sé. È lì che abbiamo intuito che, forse, la felicità non è definibile; non è una meta da spiegare o da raggiungere, ma un attimo che ci sfiora quando smettiamo di inseguirlo con troppa ansia.
A volte arriva mentre corriamo con il pensiero; altre quando ci fermiamo a osservare ciò che ogni giorno ignoriamo: un dettaglio, un gesto, un volto. Forse sono proprio quei piccoli varchi di consapevolezza gli unici a non mentire, a mostrarci che la felicità, prima ancora di essere un traguardo, è un modo di stare al mondo. È un modo di accogliere ciò che ci circonda e di accogliere noi stessi con maggiore sincerità. Un frammento di verità che non illumina tutto, ma è sufficiente per non perdersi negli abissi.
Così abbiamo compreso che sarebbe stato più semplice definire ciò che la felicità non è, sottrarre per intravedere almeno da lontano – come il fondo sfocato di una fotografia – ciò che poteva restarne.
Ci siamo messi in cerchio e, a turno, abbiamo rotto quel silenzio profondo dicendo:
“La felicità non è…”
– Fare carriera ed essere i “primi”
– Vivere sempre nel passato dimenticando il presente
– Costringersi a essere ciò che non si è
– Vivere per le apparenze e per il denaro
– Cercarla solo nelle grandi gioie, quando spesso si nasconde nelle piccole: un vestito che ti calza a pennello, un pezzo di pane usato come “scarpetta”, un abbraccio dei genitori
– Essere famosi o vincere premi
– Vivere in solitudine e senza amore
– Essere costantemente sereni
– Negare le proprie emozioni e chiudersi a riccio
– Correre per un’intera vita
– Accettare confronti imposti o dialoghi rigidi
– Accontentarsi
– Chiedersi ossessivamente cosa sia la felicità
Una volta affrontato il tema culturale, siamo passati agli argomenti di natura politica, che oggi offriamo alla riflessione dei nostri lettori. Si è discusso del referendum sulla separazione delle carriere, previsto per la primavera, e più in generale della Giustizia come “valore universale”: una giustizia umana, naturalmente, poiché di quella divina non ci è concesso dire nulla.
Si è parlato poi della cosiddetta Tangentopoli ucraina, che sta travolgendo uno dopo l’altro gli uomini più vicini a Zelensky, intenti a placcare d’oro persino i sanitari delle proprie abitazioni.
Entrambe le proposte sono divenute pietanze preziose da offrire al nostro pubblico. E non ci siamo fermati: in questo numero troverete inchieste su Parma, storie di riscatto e riflessioni sulla realtà che, prima ancora della politica e della cronaca, poggiano su un fondamento unico: l’Umanità.
Poi le opere d’arte, i racconti, le poesie: il sangue del nostro giornale.
E forse è proprio questo, alla fine, il nostro augurio per il mese che si apre e per l’anno che verrà: continuare a cercare. Cercare la felicità nei suoi intermezzi più discreti, nella sua luce intermittente, nei suoi ritorni inattesi. Cercarla senza pretenderla, senza possederla, senza trasformarla in un obbligo.
Perché se c’è una verità che questo numero ci consegna, è che la felicità non è una promessa e non è uguale per tutti: è un passaggio personale.
E come ogni passaggio, merita di essere attraversato con occhi vigili, con gratitudine e con la cura che si deve alle cose fragili e necessarie.
Con questo spirito vi auguriamo buona lettura. E, soprattutto, una buona ricerca.