Ci sono figure dello sport che sembrano attraversare il mondo come una scossa: rapide, luminose, imperfette. James Hunt è stato una di queste. Non semplicemente un talento, né solo un’icona di eccessi anni Settanta, ma un uomo che ha cercato di costruirsi da sé in un ambiente feroce, dove la gloria era spesso un sottoprodotto della sopravvivenza.

Nella memoria collettiva Hunt è rimasto come il pilota biondo e ribelle, l’antieroe elegante che fumava due pacchetti al giorno e pareva vivere ogni istante con una disinvoltura che sfiorava l’incoscienza. Ma quella è solo la superficie, il riflesso comodo del personaggio. Dietro c’era un ragazzo cresciuto con un senso ostinato di autonomia, non tanto abbandonato quanto spinto ai margini dal proprio bisogno di inseguire una passione che gli altri consideravano frivola, pericolosa, irraggiungibile.
La sua strada, in realtà, non è mai stata segnata da un’unica ossessione. Piuttosto, era guidata da un’urgenza interiore: dimostrare qualcosa prima di tutto a se stesso. La Formula 1 diventò il terreno su cui questa urgenza poteva manifestarsi, con una miscela rara di talento istintivo, coraggio puro e una fragilità che non mostrava quasi mai, ma che molti oggi riconoscono nelle sue improvvise ricadute emotive e nel bisogno costante di fuga.

Nel 1976 quell’urgenza trovò il suo apice. La stagione del suo titolo mondiale non fu “fortunata”, né “regalata”, come talvolta si racconta con superficialità. Fu una stagione estrema, segnata dall’incidente di Niki Lauda al Nürburgring, da tensioni psicologiche enormi e da un livello di pressione che avrebbe schiacciato molti. Hunt arrivò in fondo con una freddezza agonistica sorprendente per un uomo che sembrava governato solo dagli impulsi. Conquistò il titolo perché, quando il mondo si restringe in una manciata di giri bagnati, la verità di un pilota emerge: e la sua era quella di chi, nel caos, trovava una forma di lucidità.
Eppure l’aspetto forse più frainteso di Hunt non riguarda la pista, ma ciò che avveniva fuori. Gli aneddoti sull’alcol, sulle donne, sulle notti bruciate prima di una gara fanno parte della narrativa, ma non ne esauriscono la sostanza. Sono il racconto di un’epoca – seduttiva e distruttiva – in cui essere “stravaganti” significava, soprattutto, proteggersi dall’ansia. Le storie colorite attirano l’attenzione, ma soffocano una verità più sobria: James Hunt era un giovane uomo che imparava a sopravvivere ai propri stessi eccessi, in un ambiente privo di confini morali e pieno di aspettative.

Chi lo ha conosciuto davvero lo descrive come un uomo gentile, persino timido, che usava la teatralità per mascherare le crepe. Non era un santo, né un martire del proprio talento. Era, piuttosto, una creatura complessa: capace di un’intelligenza tecnica acuta, di momenti di grande generosità, e allo stesso tempo di abbandonarsi a comportamenti autodistruttivi che oggi apparirebbero quasi inconcepibili in uno sport iper-regolamentato.
Dopo il ritiro nel 1979, sorprendentemente precoce, Hunt fece ciò che pochi campioni riescono a fare: si concesse la possibilità di essere altro. Lontano dai riflettori delle corse, divenne commentatore televisivo, ironico e brillante, spesso più severo verso se stesso che verso gli altri. Continuò a portare con sé i segni degli anni selvaggi, ma negli ultimi tempi della sua vita sembrava aver trovato un equilibrio particolare, fragile ma reale. Una felicità non gridata, fatta di routine più semplici, di affetti più stabili, di una quotidianità che per certi versi gli era mancata più della velocità.

La sua morte, nel 1993, a soli quarantacinque anni, non dovrebbe essere romanticizzata. Non è il suggello poetico di una vita bruciata: è una perdita prematura che ricorda quanto fosse vulnerabile quell’uomo che sembrava invincibile. E tuttavia, nel guardare indietro, resta l’impressione che Hunt abbia davvero vissuto secondo un ritmo tutto suo, senza inseguire un modello né tentare di assomigliare a ciò che gli altri pretendevano da lui.
Forse è questo ciò che colpisce ancora oggi: la sua capacità di incarnare la libertà senza mai fingere che fosse priva di conseguenze. Di essere felice non perché perfetto, ma perché consapevole dei propri limiti e disposto, nel bene e nel male, a pagarne il prezzo.

James Hunt non è stato una cometa destinata a dissolversi: è stato un uomo complesso, brillante e difficile, che ha trovato nella velocità un linguaggio e nella sua irrequietezza un’identità. Un talento che ha attraversato la vita come una sfida costante, e che ancora oggi continua a parlarci non di eccessi, ma di autenticità.
