3
i rei fantasmi che da' fondi neri
de i cuor vostri battuti dal pensier guizzan come da i vostri cimiteri
[...]
E fuggíano, e pareano un corteo nero
che brontolando in fretta in fretta va.
Davanti San Guido, Giosuè Carducci
Il tema del mensile -come tutti saprete- è la nostalgia: un sentimento tanto amaro quanto dolce. Dolce nel ricordo dell’affetto conosciuto e di una felicità -ormai idealizzata- che ci fa sopravvivere quasi sospinti dal tempo, aggrappandoci per inerzia a questo consumato sostentamento. In secondo luogo, è l’algida amarezza che resta dopo aver sperimentato quel senso tiepido e carezzevole del passato, quel languore di Verlaine negli ‘acrostici indolenti’, guardando quel che fugacemente fu e che non resta. Forse si potrebbe parlare dell’intraducibile Saudade portoghese, nell’infinito specchio d’acqua e nella mancanza e nella vana speranza di rivivere ciò che ormai è stato vissuto.
Peter Handke, costeggiando la Turchia in vacanza, nell’eschileo “ridere infinito delle onde del mare”, sentendo in quel luogo Omero e i profeti insieme, scrisse: “beati e anche un po’ imbarazzati da tanta beatitudine/ma la mia commozione e la mia gratitudine/non erano pure:/erano turbate da un’angoscia, /da una malinconia e da un dolore /che mi impietrivano. /Mi sembrava di essere fuori dal mondo /scacciato per sempre/come se con questi attimi avessi perduto /il diritto di essere in vita.” Proprio questo è lo scacco del tempo che ci scolora il viso e ci fa rimuginare sul passato e ci rattrappisce, chiedendoci di sederci e rimanere immobili a ripensare all’irripetibile. Questa è la dolce richiesta della moderna bella morte, di ristagnare in un cantuccio e perder la vita e fingere nella nostra mente un mondo dipinto di un'età dell’oro mai accaduta. Suadente e melliflua ci blandisce per farci statua: non per virtù, ma per diventar come Cleobi, nel perdere la materia viva che ci era stata offerta dallo stare al mondo in una costante, seppur frammentaria, eutanasia. ¹(nota a pie’ pagina: ¹ da leggersi non nell'aspetto scientifico bensì metaforico come abuso del ricordo come rifugio e astrazione dal reale e dal suo dolore, come stasi mortale di quiete solitaria di quello che in fondo non era mai stato nostro e che riviviamo nella mente indorandolo d'un bello che crediamo impossibile poter rivivere in nuovi istanti.)
Il premio Nobel continua infatti, blandito dall’idea del suicidio: “Per il resto del viaggio restai assente/quel giorno provando tutto questo capivo/che al miracolo mancava la durata. /Ero riuscito a fermare l’attimo, /ma nemmeno così/avevo qualche diritto su di lui.” Proseguendo il ragionamento, egli giustifica il suo distinguo tra l’attimo e la durata citando Ottavio Piccolomini di Schiller: neanche “i prodigi mirabili dell’attimo/ nemmeno loro sanno generare ciò che rende felici, /quello che scaturisce da ciò che è quieto, potente e durevole.”
Dunque, se non è l'attimo quel calore inaspettato che avvolge, se non è il momento che immediatamente decade dilapidato, cos'è la durata? Handke risponde: “La più fugace di tutte le sensazioni [...] non prevedibile non controllabile/ inafferrabile non misurabile. [...] Delicato accordo senza suono/in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondono assieme. [...] Chi non ha mai provato la durata non ha vissuto.” La Durata però non è l’estasi che, per l'autore, è di troppo rispetto alla durata che è giusta misura. Il sublime kantiano va oltre: è lo smisurato che soverchia l’umano timoroso che si ritrova in una condizione liminale tra il piacere e il terrore. Più semplicemente, per Handke, l’estasi è troppo mentre l’attimo è troppo poco; dunque la durata ricopre la stessa posizione kantiana del bello: equilibrio, armonia e perfetta misura in relazione all’uomo e quest’ultimo può goderne pienamente; la mente trova una perfetta corrispondenza tra l’oggetto percepito e le proprie strutture cognitive. La durata non ci sovrasta, non ci rende impotenti, ma non è nemmeno così piccola da sfuggirci una volta vissuta. Allora non bisogna pensare alla durata come tempo in sé, come attimo, poiché appunto non durerebbe, ma piuttosto a un tempo psicologico e interiore, un tempo del vissuto. Il concetto della durata è fondamentale nel pensiero di Bergson, autore citato nella postfazione dell’opera, che propone una percezione coscienziale del tempo: è il risultato di ciò che nella nostra coscienza è vissuto, che è unico e irripetibile. Il filosofo parigino nel ‘Saggio sui dati immediati della coscienza’ scrisse: “Io duro in questo modo[...] Grazie al ricordo del loro insieme che la nostra coscienza ha organizzato, le oscillazioni si conservano per poi allinearsi: noi creiamo per loro una quarta dimensione nello spazio.” Handke esprime questo concetto della durata come “la sensazione del vivere” in questa vividissima immagine: “la morchella che ogni anno rispunta /in un angolo diverso nel folto del giardino.” La durata non nasce dal ripertersi delle contrarietà ma dal cambiamento dell’Uguale. Non nasce nell’attesa o nell’ozio dello starsene a casa o in un solo posto o ancora nell’epifanica consumazione della pietanza preferita -la madeleine che fa cessare il nostro sentirci mediocri, contingenti e mortali-. La durata di Handke non va intesa in maniera passiva e remissiva come giustamente Leopardi notava nel suo tempo, nel ‘Dialogo di un fisico e metafisico’ quando scrisse: “Il nostro essere è piuttosto durare che vivere.”
Per l’austriaco la durata è: “l’avventura del passare degli anni.” Non è un’abitudine ma: “con gli anni scaturisce la durata/ affinché da me nascano i momenti della durata// io devo andare incontro alla durata/ incontro a ciò che mi è caro.” Questo concetto è già stato affermato da Bergson quando scrisse: “facciamo quello che la natura prepara per noi, ma la natura prepara per noi ciò che noi faremmo da noi stessi.”
Occorre ripensare il paradigma comune di tempo non come un qualcosa di avverso nel nostro costante morire, nella frale caducità di cui siamo composti -la mancata accettazione di questa nostra natura e la nostra relazione col tempo ha portato l’uomo contemporaneo a una cronaca sregolata degli eventi nella sua giornata, nella speranza di ottenere la fama o di avere una pagina nel mondo che sopravviva alla sua morte, cosa che un tempo spettava solo agli artisti e ai nobili. Ancora, chi non riesce ad accettare i cambiamenti del proprio corpo e si sottopone a interventi, talvolta a scapito della sua capacità di manifestare col volto le sue emozioni e addirittura con risultati fatali-. Occorre ripensare il tempo dalla soavissima definizione che Platone offre nel Timeo: “immagine mobile dell’eternità”. Se volessimo esser più precisi e ritornare alla base del pensiero bergsoniano dovremmo ritrovare la definizione psicologica di Plotino nel settimo libro della terza Enneade: “Non dobbiamo prendere il tempo al di fuori dell’Anima, come non (si deve prendere) l’eternità al di fuori dell’essere; esso non accompagna (l’Anima) né le è posteriore, come non è tale l’eternità rispetto all’essere; ma si manifesta in essa, come l’eternità nell’essere intelligibile. [...] Il tempo si fa scorgere e immane s’associa all’anima sola, come l’eterno all’essere. Bisogna perciò concepire la natura (del tempo) come una distensione della vita (dell’Anima) che si svolge in mutamenti uniformi, simili (tra loro) e procedenti in silenzio, e che possiede un atto continuo.” Questa è la base fondamentale per comprendere l’opera di Handke, autore laico eppure così tanto benedetto dalla durata: “e se esistesse Dio/sarei stato la sua creatura/finché provavo quella sensazione della durata. [...] stato di grazia della durata […]la durata è il mio riscatto/mi lascia andare ed essere.”
Come si ottiene dunque la durata? Intanto non si tratta di stasi, il rimuginare memorie passate ma di vivere la vita così come Plotino intende la questione centrale su cui la durata sussiste: “Il tempo è propriamente la vita dell’anima che muovendosi passa da uno stato di vita ad un altro.” Come? Per chi non l’ha vissuta -e per l’autore significa non aver vissuto affatto- Handke ci offre diversi spunti dettati dalla sua esperienza: “rimanere fedeli all’affetto per i vivi/esercitare il mio amore restando fedele/a ciò che mi è caro/impedendo che si cancelli con gli anni/ sentirò forse del tutto inatteso il brivido della durata [...] dove per il diverso senso del tempo di quando si ama/il prima era anche un dopo[...]non è legata all’amore fra i sessi/ essa può avvolgerti nel continuo esercizio dell’amore per tuo figlio/ma soltanto attraverso cose secondarie/[...]nell’attimo in cui tu/ con lo stesso gesto accurato/ col quale dieci anni fa/ appendevi il cappotto azzurro con cappuccio “taglia bambino”/ e ora appendi una giacca di pelle scura “taglia adulto”/a un attaccapanni diverso in una città diversa.”
Un altro modo può essere ciò che Bergson chiama “accordo” ovvero il concentrarsi su un punto specifico, il fare attenzione a un determinato oggetto tralasciando tutto il resto. Handke lo traduce con: “la sedia di vimini/per anni lasciata in cantina/ e ora finalmente al suo posto. /Un altro, in verità, diverso da quello originario/ e tuttavia al suo posto.” Non importa che l’oggetto, come un correlativo oggettivo celato nel nostro cuore, sia lo stesso ma piuttosto che esso abbia la potenza per farci ricordare epifanicamente quella determinata azione e momento, ovvero la soggettiva percezione fenomenica, una soggettività che non può essere oggettiva nemmeno per il singolo immerso nel tempo e trafitto inaspettatamente dalla durata. Per Paul Ricoeur, se volessimo fare un parallelismo aggiuntivo, l’'esperienza umana è principalmente interpretativa e narrativa. L'identità dell'individuo si costruisce attraverso il racconto che fa di sé nel tempo, in un processo dinamico e mai statico. La vita umana è dunque un racconto in costante divenire, un intreccio di significati che dipendono dalla nostra capacità di interpretare e di dare senso al mondo e a noi stessi.
Un ultimo modo che l’autore ci offre è direttamente collegabile al concetto di flaneur di Benjamin: un ozioso vagabondare senza ombra d’urgenza per le vie di Parigi nel tempo libero e percepire la vita che sta attorno, magari nella città dove si è nati e notare curiosamente i cambiamenti e nel notare la realtà studiare la propria interiorità, oppure incamminarsi per i grandi magazzini.
Handke prende questo bagaglio culturale e lo applica alla sua vita come se facesse un pellegrinaggio laico e sempre devoto in certi luoghi del cuore, cercando il miracolo della scossa della durata, come la fontana Sainte Marie: “In cui ogni mio rimuginare si dissolve/ e il mio pensare diviene un puro riflettere sul mondo/ un tormento fatto di mille voci/ lasciano il campo al silenzio redentore.[...]Senti quello che nel silenzio ancora mancava alla giustezza del tutto [...] s’innalza un mio pensiero esplicito: Salvare! Salvare! Salvare!”
Ecco cos’è la calda durata che ci libera e ci innalza portandoci per un momento nel paradiso del tempo, uniti col mondo e con l’Uno plotiniano: “porto sulle mie spalle i miei predecessori e i miei successori, un peso che mi eleva”. La durata non ci lascia come l’attimo, pieni di nostalgia, ma ritorna inaspettatamente nell’esercizio dell’affetto nella vita e nell’ascolto attento, con uno sguardo lento, autentico e purificato.
Buon esercizio!
“Sapendo cosa faccio
so chi sono”
Peter Handke, Salisburgo 1986
Autore
Manuel Visani