Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
Andiamo, andiamo, non farti pregare
andiamo a diluirci in queste vuote
strade di nebbia mentre l’aria grava
di cenere e il canto dei passi ci chiama
nel nostro non dire.
Intesserò sul tuo sguardo schivo
la domanda che ti denuda
finalmente manifesta… no!
Tu non dici ancor, tu mi taci del tutto.
Radenti agli aguzzi cocci delle case
andiamo, parlando ancor del nulla:
“Conosci Francoforte, la scuola? Si. Davvero?
E qual pensiero pensi sia vero… Tu lo dicesti…
E altri? No, non li conosco ma li posto”.
E attenderò nel labirinto -mentre mi divori-
un passo falso che ti tradisca
verso di me, ma dispersi taceremo
del fatto che accade nel bisbiglio
ad ogni passante portato a passeggio
-Straniero non fermarti! Io son quel che sei!-
Oserò trascinarti alla parola che t’opprime?
Sì, con garbo ti condurrò dove mi conduci
nell’amaro turibolar delle marmitte
mirando pensoso l’assenti stelle d’un povero cielo.
Allor dimmi, sì, dimmi, errando dogliosi
‘ché le tenebre nostre son l’alba
della nostra immaginazione, ‘chè l’alma mia
tanta luce non sostiene
nelle schegge del tuo sorriso stellato.
Sì, potrei ammassar il cosmo intero in un punto
ho già spartito i miei giorni nei pensieri a gocce a gocce
ma da quali carezzevoli parole potrei incominciare
mentre il vento malato s’intrude
nella coperta nudità d'una sciarpa serrata
-malposta domanda- con povera lingua impotente
la parola muta resta a metà
e da una feritoia ci molesta l’insidioso
sguardo, tra le chiuse case,
tutto accartocciato ad assorbire
il calore del tè delle sei.
La nostra bocca è impacciata e la lingua
spesso ci tace nella folla semideserta
d’ombre appassite, o fremente formicaio
di volti senza labbra, tu vai pensando
al vuoto per non pensare affatto
senza intento o moto, peregrina.
Vieni, buttiamoci tra le vie
e tra gli estranei conoscenti perdere i minuti,
o sollievo, del nostro incontro.
Quali dolci parole, candide braccia, dovrei dirti?
Su, svolgiamo il nostro tema
tra queste brumose strade d’ottobre
no, è già novembre… temendo gli sguardi
dei nostri pensieri, in cosa è lecito sperare?
Ho messo la cravatta migliore solo per oggi
ma non mi sbottono nel grave cappotto
che mi ingobbisce e non la vedrai. Perché errare
ancora per l’universo in tale fissità? Oserò accostarmi
ancora al moto indicibile, immerso nel tutto?
Il mio filo confitto al chiodo della carne è terminato.
Su, andiamo a bere per cessar di tacere
andiamo, Eldorado, ch'io già mi dibatto
in questo cappio recalcitrante e stretto
perdona se m'avvicino a intenderti:
l'acetone ha mondato la macchia, non il lezzo,
della cappa del caduto isoamile.
Quanto pesi? Non t'offendere è per la posologia
Quanto son alto!? Non c'entra,
scioglieremo un po’ di ketamina
e le ninfe getteranno un alto ululo
e la commessa tirerà i suoi capelli
quasi lacerati e ammaliante arpeggierà
un canto di perdizione e di gin
tra queste tartine tentando
il tuo sguardo pago… chi sei? Chi sei?
Mi cullerò tra le pieghe della noia e risponderai!
Tra le luci, t'offro, m'odi e non soffri
e assente m'assenti… finito,
o macchina delle date coincidenze,
in ostelli d'un ora sola.
Dalila, ho tagliato la nuda chioma
assottigliata per giacere sulle tue cosce
malate e divorare l'ammaccata pesca
della mia allergia, per un'ora
di solitudine ho visto cadere
tra queste colonne sfrondate
il momento della mia grandezza
e ancor fingi una dolce carezza
per alleviare questi morti, chi sei?
Tornerò il quarto giorno per dirti
ciò che già sai e non saprò più sorridere.
Autore
Manuel Visani
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