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Titi era un ragazzino taciturno, aveva gli occhi color castagna e, quando il sole gli baciava il viso, tendevano allo smeraldo. I capelli, rovinati dalle forbici arrugginite con cui se li tagliava, assomigliavano al piumaggio di un corvo; in estate passavano dal nero ad un grigiastro che ne accentuava i difetti. Portava sempre gli stessi pantaloni, pataccati in corrispondenza delle ginocchia da chiazze d’erba e consumati alle estremità dalle scarpe. Le uniche magliette che aveva erano costellate da piccoli buchi, spesso a causa dei rovi in cui si infilava per raccogliere le more, molte volte invece poteva capitare che rimanesse incagliato nei rami degli arbusti che costeggiavano il letto del fiume a poche centinaia di metri dal suo rifugio. Portava sempre con se un paio d’occhiali improvvisati, non avevano lenti, e nell’effettivo non gli servivano, ma qualcuno gli aveva detto che lo avrebbero fatto sembrare affidabile e così ne aveva raccattato un paio da un cassonetto di un antiquariato non lontano dal centro città.
Viveva da solo in una piccola struttura abbandonata; non aveva molto, un materasso da cui usciva qualche molla, le coperte per l’inverno, una piccola cucina a legna che fungeva anche da riscaldamento nei mesi più freddi e un secchio dove fare i bisogni. Era stato abbandonato dalla madre quando aveva solo dieci anni, e quel giorno avrebbe voluto festeggiare i suoi due anni di convivenza con ragni e topolini di campagna con almeno una fetta di torta, senza doversi accontentare del pane avanzato che il fornaio gentilmente gli lasciava sul retro ogni sera o di qualche frutto sottratto dagli alberi dei contadini. Così, dopo essersi lavato nel fiume ed aver passato la mattinata al sole steso sui ciottoli caldi, indossò i pantaloni rattoppati e la maglietta meno bucata e si incamminò verso il centro del paese in cerca di un’avventura e di una delizia alla marmellata di prugne. Titi era piccolo di statura, era gracile ma aveva le spalle larghe e riusciva sempre a passare inosservato tra la moltitudine di persone che ogni sabato si recavano al mercato stagionale. Qualche volta, quando era più fortunato, riusciva a sottrarre dai banchi un pezzo di formaggio, una mela o un peperone. Non prendeva mai i frutti più belli, si accontentava di quelli toccati, marci per metà, o di quelli più piccoli; d’altronde aveva lo stomaco piccolo e lo spazio non era molto.
Quel giorno, facendosi largo tra ampie gonne di seta e pantaloni eleganti, la sua attenzione venne catturata da un venditore di pulcini. Il suo banco era pieno di piccoli pennuti, alcuni in gabbiette separate, altri ammassati in un cesto. Titi si avvicinò di soppiatto, come un gatto quando si prepara a sferrare un attacco; non aveva intenzione di sottrarne uno, ma se il venditore si fosse accorto di lui intento a ficcanasare, lo avrebbe allontanato colpendolo con un bastone di scopa, come tanti avevano già fatto prima di lui. Così, nel caos di urla e di risate, quel ragazzino tutto pelle ed ossa era riuscito ad eludere la sorveglianza di quell’omone paffuto con la voce rauca che continuava a ripetere “Pulcini di prima qualità! Polli e galline forti garantiti” e che nel mentre ammiccava a qualche signorina che incuriosita si girava ad ammirare quelle creaturine. Titi riuscì a nascondersi dietro a degli scatoloni pieni di mangime, e da lì rimase ad osservare il via vai costante tenendo sott’occhio i movimenti del venditore di polli. Mentre quest’ultimo era impegnato in una vendita, un rumore insospettì il corvetto ( Titi veniva chiamato così da alcuni contadini) e con un movimento rapido aggirò il furgoncino pieno di pennuti e, proprio davanti a sé, vide un pulcino spaesato che si stava allontanando dal suo destino. Senza pensarci lo acciuffò e lo nascose nella tasca dei pantaloni e, fischiettando come aveva visto fare a due anziani seduti sull’argine del fiume, si allontanò rapido e impaurito che qualcuno potesse averlo visto. Questa volta mi sono proprio superato, pensò, ora posso finalmente avere non solo una fetta di dolce alle prugne, ma addirittura tutta la torta! Se solo riuscissi a scambiarlo per una moneta o due…
Si incamminò verso il fornaio che era sempre gentile con lui e, ogni tanto, la piccola gallina che aveva in tasca emetteva qualche pigolo, puntualmente sedato dagli scossoni che Titi provocava scrollando la gamba. Quando fu davanti alla grande vetrina un profumo delizioso di prugne lo pervase, trasportandolo nei ricordi della nonna che lo aspettava sull’uscio del casolare di famiglia con una crostata fumante: “Titino mio, ti ho preparato la torta che tanto ami, vieni, ho preparato anche un po’ di latte con foglie di menta, ti fa solo che bene!”. Non se la ricordava molto bene nonna Agata se non per sfumature che via via sbiadivano nel dimenticatoio di quella vita che non gli apparteneva più. Gli era rimasta solo la speranza al piccolo Titi; sognava sempre di partire, di vedere il mare, di avere un cane e di mangiare soltanto dolci alle prugne, fino a scoppiare, diceva sempre. Aspettò che i clienti del Mastro del Pane (lo chiamavano tutti così) uscissero, per fare capolino con quella sua testa grigiastra, in attesa di un cenno per poter finalmente entrare. Mascalzone! Quante volte ti ho detto di non venire qui di giorno, farai scappare i clienti! Mastro, Mastro, guarda qui, ti ho portato una cosa. Titi liberò il pulcino nel locale che iniziò a cantare senza sosta e a tirare beccate qua e là alle briciole che trovava intorno a sé. Porta via quell’uccellaio immediatamente, non è posto per lui! Ma l’ho portato per te, così posso avere una torta! Non funziona così Titi, la torta la devi comprare con delle monete, non con un pollo! Per favore Mastro, tu saprai che farne di lui, io ho a mala pena cibo per me. Così il fornaio raccolse quella creaturina e guardò negli occhi Titi. Maledetto! Guarda cosa mi tocca fare per te, cosa mai potrò farmene di un pollo! Lo puoi mangiare quando sarà più grande, o potrai usare le sue uova. I polli non fanno le uova Titi. Magari è una gallina, e potrai farci anche un buon brodo quando sarà vecchia. Il Mastro scoppiò a ridere. Sei proprio un bambino sveglio, ecco tieni, ma non tornare mai più con una gallina, o ti faccio vedere io! Grazie Mastro, sei il migliore!
Titi uscì frettolosamente e con un pacchetto in mano che era quasi più grande di lui, corse all’impazzata fino a casa, passò davanti agli alberi dei contadini ma non si fermò, vide nuovamente i due anziani sull’argine ma non si curò di ascoltarne i fischiettii né di salutarli. Fece un balzo oltre il filo metallico che delimitava il “suo” giardino ed entrò impetuoso in casa, spaventando i topolini e i ragni. Si sedette sul materasso e una molla gli bucò nuovamente la maglietta, aprì la confezione e mangiò di gusto tutta la torta, si leccò le dita e poi si stese con la pancia piena e i denti sporchi di marmellata. Si era fatta sera e un vento fresco gli coccolava la pelle, Titi era solo, fissava il soffitto e fantasticava. Non gli serviva nient’altro, gli bastava la speranza. Così si addormentò, e quella notte sognò un campo di alberi di prugna. I topi e i ragni, finalmente, lo videro sorridere.
Autore
Giuseppe Serra