Quella notte di novembre il paesino era deserto come al solito, solo la nebbia e una macchina vagavano per quelle strade dall’asfalto sconnesso. «Ma dove ci stai portando? Non vedo niente, Filo.» «Gira a destra alla prossima.» La vettura svoltò per una ripida stradina, gli alberi sembravano accasciarsi lungo l’asfalto per sbarrare la strada, quasi volessero fermare quei quattro annoiati prima che fosse troppo tardi. «Certo che le frecce quando svolti potresti metterle ogni tanto, giusto per vedere se sai ancora come si fa…» «Tu scherzi, ma non ne avevo messa mezza nemmeno all’esame.» «Infatti continuo a sostenere che tu la patente l’hai trovata nelle patatine.» La macchina aveva terminato il vialetto alberato ed ora si trovava al di sopra della nebbia, su una collina così graziosa che in estate regalava tramonti mozzafiato sulla pianura sconfinata. «Parcheggia dove puoi, Giamma. Dovremo camminare per un pezzo.»
«Mi metto qua. Cla, per favore, ricordati la torcia che è senz’altro lì dietro.» «Filo non ci ha detto ancora dove stiamo andando…» «Marghe, stai tranquilla, certo che se non ti mettevi il cappotto che tocca per terra…» «Vabbè ragazzi, non dobbiamo passare nei cespugli come quando andiamo al Covo, ci riesce benissimo.» «Speriamo.» I ragazzi chiusero le portiere all’unisono ed iniziarono la loro esplorazione con un piccolo silenzio che la loro ansia gli imponeva: nessuno sarebbe stato il primo a confessare la paura che pian piano cresceva. Filippo stava in testa come al solito, essendo il più alto, concedeva a chi gli si parava dietro un senso di protezione necessario e quasi rassicurante. Lui era sempre il primo anche perché nel paesino ci era nato e cresciuto, sapeva dove portare gli altri per farli divertire, dato che la vita notturna della città, prima o poi, perde la propria attrattiva.
«Manca ancora tanto?» La voce di Clara tremava dal freddo e dalla paura, più camminava più la sentiva crescere, una cosa molto insolita che la lasciava piuttosto stranita, lei era sempre la prima quando si trattava di partire all’avventura, voleva sfruttare a pieno il tempo che passava via dalla sua città natale. Clara aveva paura di svegliarsi vecchia e convinta di aver buttato all’aria tutta la sua gioventù. Filippo la rassicurò puntando il dito verso una sagoma scura che era apparsa ai piedi della collina, dalla parte opposta del paesino. La luna la illuminava debolmente, quasi volesse incuriosirli ancora di più. «No, dobbiamo arrivare là. Presto, entrate veloci, che ci vedono» I quattro si infilarono rapidi tra due colonne coperte dall’edera ed imboccarono la carraia che scendeva ripida verso il fondo. Le torce dondolavano al ritmo dei loro passi silenziosi scrutando impazienti i cipressi ai lati e la struttura sempre più vicina.
«Bene. Ora ci puoi anche dire dove ci hai portato.»
Nel tono di Gianmarco c’era una piccola aria di sfida, era uno di quelli che non sopportava di non sapere tutto in anticipo e odiava sentire il bisogno di essere guidato, voleva condursi da solo, anche a costo di commettere errori da idiota. Non sapere dove andare, cosa aspettarsi e come poter scappare lo metteva alle strette. Si sentiva un topo in gabbia.
«Signori, questa sera vi ho portato al Bellavista.»
«Più che al Bellavista, ci hai portato all’Ellavisa…» Aveva fatto notare Gianmarco posando la sua torcia sulle due lettere mancanti dall’insegna, staccatesi chissà quanto e rimaste conficcate nel fango.
Per un breve attimo tutte le torce fissarono quel nome, poi esaminarono con attenzione il nuovo giocattolo. Più che un albergo, sembrava un vecchio convento di tre piani. Dal tetto sbucava una piccola torretta ed un rialzo che probabilmente serviva come alloggio del personale. La maggior parte delle tegole rosse era soffocata dal muschio ed il vecchio pluviale che percorreva tutta la struttura presto avrebbe fatto compagnia alle due lettere mancanti dell’insegna. Il piano più alto era stato colorato di giallo, anche se i ragazzi scorgevano il colore solo come intervallo ai buchi nell’intonaco lasciato lì a marcire col resto. I due piani inferiori avevano la parete in cortina piena di crepe, graffiti e dello stesso muschio che infestava il tetto. Per entrare, i ragazzi avrebbero dovuto passare sotto ad un vecchio portico appena rialzato, intonacato come il terzo piano, sul quale era stata appoggiata la scritta Hotel Bellavista.
«Non c’è una finestra intera, c’è pieno di vetri qui, attenti.» «Grazie, Marghe.» Le sorrise Clara. «Ragazzi, se c’è il muschio sulle pareti forse entrare non è sicuro, andiamo a casa.» Margherita come al solito stava cercando la scusa per andarsene. Era uscita anche quella sera con gli altri perché era stanca dell’aria che tirava in casa sua. Uscire voleva dire ignorare di dover tornare fino al momento in cui la macchina di Gianmarco si fermava sotto il suo palazzo; voleva dire cercare di scappare da tutte quelle frasi che la affossavano sempre di più nelle sue insicurezze; voleva dire reclamare uno spazio che occupava di diritto, uno spazio di cui aveva bisogno per non soffocare. Pur di stare lontana da tutto li avrebbe seguiti persino in guerra, ma visitare i luoghi distrutti non le piaceva, sperava che prima o poi la ascoltassero e lasciassero perdere.
«Permesso?» Domandò Filippo salendo gli scalini del portico. «Se qualcuno ti risponde io giuro che ci resto.» «Cla, ti immagini se succede?» Bisbigliò Gianmarco. «Bene. Io direi di cominciare dalle vecchie cucine. Facciamo come al solito: se ci sono spazi stretti non si entra e restiamo sempre tutti insieme. Marghe, stai bene?» «Filo, tranquillo.» «Vado io per ultimo, così non è da sola dietro. Tanto ho trovato questo.» Affermò Gianmarco mentre raccoglieva da terra il bastone di una scopa. I ragazzi entrarono in fila indiana e si ritrovarono nella vecchia reception. L’unica cosa rimasta intera era il bancone, tutti i documenti e le chiavi delle stanze erano sparsi senza ritegno sul pavimento. La carta odorava di fango e muffa. I divani erano stati sventrati e i rimasugli di quadri, lampade e vasi di fiori non erano che spazzatura che ostacolava il cammino. Camminare senza fare rumore era pressochè impossibile. «Seguitemi, voglio mostrarvi una cosa che ho visto l’ultima volta.» «Ma quindi tu qui ci sei già stato?» Chiese Clara. «Silenzio. State fermi.» Filippo si paralizzò per un istante. Un tonfo era arrivato dal piano di sopra. Come se qualcosa o qualcuno fosse caduto con forza a terra. «Non era nulla, possiamo andare.» Filippo rassicurò gli altri ricominciando a camminare. Le torce seguivano ansiose il ragazzo e ogni tanto ammiravano i graffiti che gli annoiati prima di loro avevano lasciato sui muri bianchi e ammuffiti. I quattro percorsero un corridoio largo pieno di rifiuti ed arrivarono finalmente alle vecchie cucine. Il pavimento era pieno di piastrelle staccate e stoviglie lanciate qua e là, alcune erano sopravvissute all’impatto. Al centro della stanza era rimasta solo la vecchia cappa enorme. «Cosa devi farci vedere?» Chiese Margherita con voce sottile. «Di qua.» Rispose risoluto Filippo avviandosi verso una porta aperta che avrebbe potuto essere la dispensa. Entrarono tutti nella stanza e con grandissima sorpresa si trovarono immersi in un piccolo salottino. Non c’era l’ombra di un rifiuto per terra. Al centro della stanza era posizionato un tavolino, ad ogni angolo una sedia, un piatto, coltello e forchetta, un bicchiere ed al centro una bottiglia di vino vuota. Era apparecchiato per quattro. Per il resto, solo un divano posizionato contro il muro, molto più antico di quelli della reception, color crema, con un orsacchiotto di peluche che sedeva composto esattamente al centro. «Dio mio, ma è inquietantissimo. Aspettate che faccio una foto.» «Cla, muoviti che voglio andarmene.» «Marghe, tranquilla, ci siamo io e Filo.» «Ma per favore, taci Giamma.» Aveva sogghignato Filippo. «Vaffanculo.» Giammarco era scoppiato a ridere. Un altro tonfo sopra di loro. Di nuovo qualcosa che cadeva. Si guardarono tutti per un attimo con gli occhi sbarrati. Un rumore di passi e di vetri calpestati. «Silenzio e seguitemi. Preparatevi a…» Ma Filippo non fece in tempo a terminare la frase che tutte e quattro le torce si spensero lasciandoli al buio.