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Caro Jacopo, comprendo bene che questa mia lettera possa destare in te stupore e meraviglia: non tanto per il suo contenuto, quanto perché questi pensieri hanno trovato proprio in te il loro destinatario. Non temere; ti svelerò ogni cosa con calma, procedendo di discorso in discorso, affinché nulla ti giunga disorientante. Ti confesso che la mia vita sta attraversando un violento uragano, il quale sta sradicando dall’interno ogni mia convinzione, ogni valore conquistato: insomma, tutta quella solidità interiore che la mia mente ha mantenuto integra in quest’ultimo periodo, fingendo di ignorare fragilità e ogni genere di vulnerabilità. Proprio per questa sensazione mi domando perché noi esseri umani — e in particolare noi giovani — fatichiamo tanto ad ammettere e accettare che anche l’anima può ammalarsi? Che, oltre al corpo, anche la mente conosce ferite e cicatrici che, sebbene non visibili all’esterno, si sentono profondamente? Il fondamento di tale negazione risiede, a mio avviso, nelle esigenze imposte dal contesto social e sociale ipermoderno, entro cui l’identità dell’individuo vive in una condizione di perenne disgregazione e momentanea ricomposizione. Il fulcro di questo processo consiste nella difesa, a ogni costo, delle apparenze e delle aspettative: di tutto ciò che è esposto all’esterno, dunque al giudizio e allo sguardo “critico” di una pluralità di soggetti che, simultaneamente, delineano la persona attenendosi unicamente a tali criteri di valutazione. Si innesca, in tal modo, un meccanismo che trova nella condivisione di ogni istante della propria esperienza, attraverso fotografie e video, la soluzione “migliore e più autentica”: il tutto è finalizzato all’ammirazione e all’accettazione della propria immagine da parte dell’altro e del diverso; tuttavia ciò conduce al completo smarrimento dell’essenza reale, di sé stessi. Così, la costruzione della propria immagine attraverso l’apparenza e la condivisione sfocia in una ricerca di sé stessi disperata e soltanto illusoria, poiché l’io può essere compreso dall’interno, non dall’esterno. Le pretese e i requisiti necessari per appartenere a questa società malata, paradossalmente, non accolgono la malattia psicologica. L’individuo, vergognandosi di essa nella maggior parte dei casi, si ritrova impossibilitato a difendere la propria psiche, intrappolato in una tensione e in un conflitto insanabile con sé stesso: tra ciò che desidera essere realmente e le aspettative che è chiamato a soddisfare, vale a dire il modo in cui deve apparire. Ne scaturisce un circolo vizioso che genera una perpetua sensazione di mancanza e disarmonia, vale a dire l’esatto contrario della felicità.
Scusami, Jack: non desidero sfogarmi con te. So bene quanto tu abbia difeso la salute mentale, rispettando e accogliendo dentro di te quella delicata vulnerabilità psicologica che contraddistingue la fragilità umana. Poniamo piuttosto la nostra attenzione sul concetto di felicità: nel discorso che sto per intraprendere, la mia intenzione non è contraddire Epicuro sul piano filosofico, né sminuire l’intero Epicureismo — la cui influenza e complessità hanno attraversato i secoli fino a noi, assumendo accezioni sempre diverse — bensì riflettere sul pensiero teorico su cui si fonda la sua stessa idea di raggiungimento della felicità. L’assunto epicureo pone la felicità nel piacere (voluptas in latino), inteso non in senso carnale o materiale, ma come sobrietà ed equilibrio: una condizione che rifugge l’abbandono alle passioni e richiede un attento calcolo dei piaceri e una lucida selezione dei bisogni. La voluptas è infatti una forma “negativa” di piacere, fondata sulla privazione del dolore (“aponìa” in greco) e sull’assenza di turbamento (“atarassìa”): uno stato statico, non cinetico, radicato nell’equilibrio interiore. A impedire questo stato intervengono, secondo Epicuro, tre matrici di sofferenza: la paura della morte e degli dèi (“metus acheruntis”), che qui non approfondirò, la smania che nasce dal perseguire falsi bisogni — poiché solo i desideri naturali e necessari vanno soddisfatti (non elenco quali siano quelli che individua Epicuro perché non è questo il punto) — e infine il turbamento suscitato dalle passioni, che, fonti di piacere cinetico, sconvolgono lo spirito e impediscono la tranquillità dell’animo. La più distruttiva è l’amore, definito come fugace sussulto di corpi destinato a spegnersi in noia, amarezza e solitudine.
La via alla felicità è dunque affidata alla saggezza (“frónesis”), che consente di vivere con consapevolezza; una virtù somma ma, a parer mio, disumanizzante, che non giunge a contemplare minimamente la vulnerabilità psicologica e che pretende che gli esseri umani si privino della propria umanità, eliminando ogni genere di sentimento, compreso l’amore che, se seguito con cura e umiltà, permette la vita e, quindi, anche di essere felici.
A mio avviso è proprio la possibilità e l’accettazione che la mente possa ammalarsi che, poiché rappresenta un momento determinante per la ricerca e per il ritrovamento del sé stesso smarrito, rimane imprescindibile nella realizzazione della propria felicità e dell’armonia con il proprio essere.
Infatti, caro Jack, qual è il massimo bene per l’essere umano?
Non ti chiedo di rispondermi, e non mi illudo di poterlo fare io.
Secondo Aristotele, il bene supremo coincide con la felicità, e forse possiamo affidarci al suo giudizio. Ma cosa voleva dire davvero parlando di eudaimonía?
Il termine unisce daímon, “demone”, a eu, “buono”: la felicità consiste nell’essere in armonia con il proprio demone interiore.
Ognuno di noi possiede una virtù che lo definisce, una forza che lo muove e lo guida. Quando ci riconosciamo in essa, quando la lasciamo manifestarsi, allora stiamo vivendo la vera felicità.
Ma non è un dono che arriva senza impegno: per raggiungerla bisogna prima conoscere sé stessi e poi coltivare la propria capacità interiore, permettendo al demone che ci abita di esprimersi.
La felicità, dunque, non è uno stato passivo: si realizza nell’azione, nell’esercizio coerente della nostra virtù. Come scrive Aristotele: “l’eudaimonía è nell’attività conforme alla nostra virtù” (“εὐδαιμονία κατ’ ἀρετήν ἐνέργεια”). Fonte: Aristotele. Etica Nicomachea, X 6.
Tutto ciò trova conferma anche nell’etimologia latina: “felicità” deriva da felix, ossia “fecondo, fertile”. L’accento ricade sempre sull’agire e sul creare: occorre generare un senso alla propria esistenza, occorre generare felicità. La vera domanda, dunque, non è quale sia il senso della vita, ma in che modo crearlo e costruirlo, anziché ricercarlo come qualcosa di esterno a noi.
Anche Umas, dopo il confronto con Puriel, il suo essere più ingenuo e puro, lo aveva finalmente compreso ed era pronto a orientarsi tra i tormenti e le paure più profonde che lo abitavano.