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un piatto. due. tre.
sono diventato abbastanza bravo nel portarli. tre dita sotto il primo, due sopra. il secondo piatto sopra le due dita, il terzo nell’altra mano.
i colleghi con più esperienza sanno bene che in realtà sono una schiappa, ma non è quello l’importante. serve solo a ripetermelo in testa per prendere più confidenza. se hai confidenza, li porti con confidenza. se li porti con confidenza, è meno probabile che finiscano a terra.
la mansione è semplice: aspetto di fronte ai cuochi i piatti pronti, arrivano, li prendo come so fare (benissimo!), guardo il tavolo buttando la comanda e li porto. fine. riparte il loop.
ogni tanto, però, il loop si ferma, che sia un cliente maleducato o qualche richiesta strampalata. d’altronde è un sabato sera, di certo non pensavo di riposarmi.
eppure questa sera succede qualcosa di diverso. il loop non si ferma, non rallenta. il loop si rompe. il pilota automatico si spegne di colpo e mi lascia lì, avvolto in una nube di pensieri che, ancora dopo 2 settimane, si ostina a non abbandonarmi.
la chiameremo Bea. me la ritrovo in mezzo al corridoio che sto attraversando per portare un goloso soufflé al cioccolato e panna e chissà che altro, girovagante come di solito fanno i bambini scalmanati.
ha i capelli molto corti, di un marrone ingrigito troppo presto, il muso affusolato e un grosso paio di occhiali rossi. indossa una pesante camicia scozzese, che pare coprire a sufficienza l’esile corporatura.
a vederla non sapresti dire quanti anni abbia, a sentirla capisci che ne ha molti meno di quanti ne dimostri. forse ne è complice la camminata calma, ma più probabilmente lo è di più la rugosa pelle diffusa su tutto il corpo, come se avesse deciso di invecchiare più in fretta del dovuto per vincere una gara contro qualcuno. e ha vinto, ve lo assicuro.
solitamente nessun cliente gira per il locale con il menù in mano, specialmente chiedendo a camerieri qualunque consigli sui piatti. si aspetta al posto, poi arriva chi di dovere. ma Bea non fa così.
mi placca ancor prima che io mi accorga della sua presenza, con lo sguardo fisso sui nomi dei piatti.
-ciao
-buonasera, ha bisogno?
-mah, si. Ti volevo chiedere un consiglio… cosa mi consigli di più tra tagliata di pollo e… aspetta un attimo…
inizia a rovistare tra i nomi con il dito, cercando qualcosa che forse non aveva mai trovato prima di chiedermelo. nel frattempo fortunatamente un collega, vedendomi occupato, mi prende il piatto e si avvia per servirlo al tavolo.
-beh, quello sicuramente lo prendo come dolce- fa subito lei, alzando lo sguardo di scatto per poi lanciarsi di nuovo sul menu -ah ecco, cosa cambia tra la tagliata che ti ho mostrato e questo wrap al pollo? cosa cambia tra i due?
vi farà ridere che io in quel momento non ne avessi idea. non che non avessi idea di quale consigliarle… non avevo idea di cosa ci fosse nel wrap, ed ero comunque poco ferrato anche sulla tagliata di pollo. d’altronde non lavoro da molto lì ed erano due piatti abbastanza… rari da vedere.
provo a leggere al volo gli ingredienti, spiegandoli un minimo e dicendo per puro gusto personale che avrei scelto la prima opzione.
-ok, allora prenderò questo
poi, mettendosi a sfogliare il menu di nuovo:
-per il dolce invece te lo dico subito
-beh ma può prima prendere questo intanto, il dolce arriva dopo…
non faccio in tempo a finire la frase che succede qualcosa che non mi sarei mai aspettato. è lì che la serata si spezza, che tutto il locale pare crollarmi addosso.
-mamma, cosa ci fai qui?
è appena entrata una signora abbastanza affannata, che ha appena attraversato la folla di persone all’ingresso per entrare nel locale. Bea la accoglie così.
-volevo solo capire dove sei e cosa fai. non ho capito se ti devo portare a casa o che intenzioni hai
-mamma, ti ho detto che stasera sono a cena con le mie amiche, non ho bisogno di passaggi
-a me non sembra tu sia con molte amiche
…
all’improvviso non capisco se la signora cerca il mio supporto, o la mia pena. però mi guarda, cercando approvazione con lo sguardo ed indicando il tavolo dove Bea era seduta. è un piccolo tavolino, il 68, posto di fianco alla grossa vetrata del locale che si affaccia sul parcheggio. sopra c’è una tovaglietta sola, una forchetta, un coltello, un tovagliolo. nessuna compagnia, nessun gruppo di amiche che può portarla a casa.
l’unica compagnia che quella sera Bea ha a cena è la sua giacca, appoggiata alla sedia. la madre sembra averlo capito
-a me invece pare proprio di sì- esclama allora Bea
anche lei mi guarda. sono diventato il giudice di qualcosa di più grande di me. entrambe vogliono una risposta. entrambe vogliono sentire un pallido “hai ragione” uscire dalle mie labbra. una vuole la verità, l’altra… non lo so.
-dai mamma, le mie amiche mi raggiungono dopo, forse qua o forse mi passano a prendere e andiamo insieme al bistrot
da quel momento non so più cosa succederà, cosa si diranno. la collega addetta agli ordini della sera interviene e prende l’ordinazione di Bea, io vengo rimandato in cucina e la madre, presumibilmente, esce dal locale con poche risposte e parecchi dubbi.
Bea passerà il resto della serata da sola, al tavolo 68. quando passa qualche cameriere prova ad attaccare bottone, parlando del più e del meno. a me mostra un reel di instagram. è un video celebrativo di ronaldo.
quando non ci sono i camerieri e il suo piatto non è ancora pronto la vedo parlare da sola, alzarsi, mettersi a chiacchierare con i gruppi dei tavoli vicino. dalla cucina vedo il loro disagio, il loro non capire come lei sia finita lì, a parlare con loro.
a fine pasto si alza, si dirige in cassa e scambia qualche chiacchiera randomica con la cassiera. mi diranno successivamente che le arriva anche una chiamata dalla madre.
“mamma non ho bisogno di un passaggio, mi stanno venendo a prendere le mie amiche che andiamo al bistrot. ciao”
vorrei tanto dirvi che le amiche alla fine sono arrivate davvero. vorrei tanto dirvi che è stato un sogno, o forse un incubo, ma non è così.
per puro caso alcuni miei colleghi, finito il turno, andranno proprio nel bistrot dove si trova lei. la vedranno seduta ad un tavolo, con la compagnia di un drink. nessun altro. nessuna delle amiche di cui parlava. nessun “mi passano a prendere”.
da qui in poi non so più nulla. non so che fine abbia fatto, quale fosse la sua storia, né tantomeno se si chiamasse davvero Bea.
non so se per lei la solitudine è un peso o una ricerca, una consapevolezza o una dimensione piena di amiche che solo lei può vedere. non so se ha mai provato ad averne, di amici, se è felice di ciò che è e di ciò che fa.
tutto ciò che so è che questo articolo finisce senza una morale, senza una frase ad effetto volta a farvi cambiare opinione su qualcosa. vi lascio con domande, risposte, indifferenza o altro? non importa. io so che la storia di Bea non mi è scivolata addosso, e che ora questa storia non è più mia.
è nostra.