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Mi è capitato in questi giorni di pensare al ritorno come ad una riconnessione, ad un riconoscimento di parti separate dall’insieme e poi ricongiunte, dopo una lunga distanza chiamata estraneità, o definitasi tale, per mancanza di comunicazione tra le componenti. Il ritorno a me, verso la mia dimora, o ciò che la costituisce, è avvenuto dopo un lungo andare, un lontano acquisire parti e iniezioni al fine di ricomporre l’anatomia di un atto sacrilego quale è il disconoscimento e la disunione da sé. Il divorzio da questa coesistenza è avvenuto tanto tempo fa, ero un ragazzino, ero inesperto sulle spiagge del possibile, sono entrato dalla porta di ingresso senza far rumore per non disturbare la festa di altri, ho chiesto permesso a bassa voce così che non si sentisse la mia, ho seguito le ombre di chi mi precedeva perché ero convinto che il mio ingresso non avrebbe mosso alcuna celebrazione.
Avevo paura, avevo subito l’inospitalità di alcuni ambienti, sentivo nelle parole altrui la diffidenza, il pericolo dell’esclusione, l’oggetto delle critiche e tali critiche, talvolta, si insinuavano tra le brevi stesure che la mia vita componeva. Avevo bisogno di amici, avevo bisogno di tenerezza, di amore, avevo necessità di respirare e a darmi il permesso erano gli altri; elemosinavo tutto, gli sguardi, le attenzioni, le premure e più avanti, alle superiori, chiedevo compagnia, affetto, intimità, legami, adorazione, gratificazioni.
Evaporato in una nuvola rossa in una delle molte feritoie della notte con un bisogno d'attenzione e d'amore troppo "Se mi vuoi bene piangi” per essere corrisposti
da Amico Fragile di Fabrizio De André
Tornando all’immagine della festa, entrai in punta di piedi nella vita sociale, con una spada di legno perché mi piacevano i cavalieri e le leggende antiche, con la fantasia a protezione della mia infanzia e curiosità, con una voce sottile, con il timore che il mondo non mi volesse e fosse sempre sul punto di abbandonarmi, con la timidezza di chi si sente vulnerabile ad ogni fiato. Con tutto ciò e ulteriori desideri (io avrei voluto saltare e ballare, perché gli altri ridevano? Perché fissavano? Perché circondavano la libertà di premure boicottanti?), ho superato la soglia con un altro nome, ridevo e dicevo battute che detestavo

valeva la pena divertirvi le serate estive con un semplicissimo "Mi ricordo"
da Amico Fragile di Fabrizio De André
o che al tempo non detestavo ma che non mi corrispondevano e ampio si definiva il divario tra ciò che sentivo di essere, tra ciò che mi auguravo di diventare, tra ciò che avevo perduto, barattato e ciò a cui pensavo fosse necessario somigliare. Oscar Wilde faceva vendere l’anima al suo protagonista più celebre al fine di trattenere per esso una condizione ottimale al suo vivere in società, ma qualcosa marciva al buio, una natura che non permette compromessi, un’etica che, se avvelenata, decompone di lì a poco ogni battito di ciglia.
“Al posto tuo, se il dolore c’è, lo farei sfogare, e se la fiamma è accesa, non la spegnerei, cercherei di non essere troppo duro. Chiudersi in se stessi può essere una cosa terribile quando ci tiene svegli di notte, e vedere che gli altri ci dimenticano prima di quanto vorremmo non è tanto meglio. Rinunciamo a tanto di noi per guarire più in fretta del dovuto, che finiamo in bancarotta a trent’anni, e ogni volta che ricominciamo con una persona nuova abbiamo meno da offrire. Ma non provare niente per non rischiare di provare qualcosa… che spreco!”
dal libro Chiamami col tuo nome di André Aciman

“Chiamami col tuo nome”, ma non esisteva nulla di romantico, di passionale, “chiamami col tuo nome perché il mio non lo ricordo più”, questo significava, al tempo, questo sacrificio fatto al fine di un’integrazione, pensando che coesistere dovesse somigliare ad un adattamento imitativo senza risparmio, ero un po’ questo e un po’ quello, mi facevo prestare l’identità, credevo fosse l’unico modo di esistere, avevo ipotecato emozioni e sogni, rateizzato le mie considerazioni, cessato di innaffiare valori, scelte, ero bravissimo nel mio camaleontismo e facevo divertire, ragionare, entusiasmare, innamorare, piegare a seconda dell’esibizione, entravo in scena e, identificando i volti del pubblico, recitavo un repertorio affine ai loro gusti. Ci tengo a precisare che la mia condizione non ha subito influenze necessariamente volontarie, ci adeguiamo al contesto perché crediamo che sia l’unico, ci aggrappiamo a ciò che possiamo, è un sostegno quello che cerchiamo, un bisogno di aiuto per le nostre deboli ma voraci evoluzioni, una conferma per le nostre capacità, un alito di vento che, scontrandosi con la pelle, ci restituisca l’immagine di un corpo.
Scrissi un anno fa “Il corpo è emerso dalla propria consacrazione al silenzio e, nonostante l’assoluzione di peccati non commessi e l’espiazione di condanne autoinflitte, ha risparmiato con gentilezza ciò che non l’ha mai tenuto in considerazione nelle proprie carezze.”
per parlare di me, di questo mio lungo tornare, a me, al mio corpo, verso il mio io che parallelamente al tu, al “noi”, cresceva di nascosto, come un figlio non voluto, come una piega indesiderata da celare, un’imperfezione che avrebbe tradito il mio equilibrio, che mi avrebbe smascherato, deposto, screditato, tolto affetti, visibilità e riconoscibilità. Gli davo da mangiare gli avanzi, nel frattempo, lo imboccavo di nascosto, lo tenevo a bada e gli promettevo ingenuamente che tutto sarebbe cambiato.
Da un estratto di una mia lettera
“Stanotte mi sono immaginato di sbirciare dentro le stanze del nostro tempo, è stato strano perché il periodo era talmente lontano e distante che a malapena mi riconosceva il buco della serratura, lo spioncino mi respingeva inospitale
“Sono io! Non mi riconosci?” gli ho detto a bassa voce per non farmi sentire dalle nostre ombre
“No! No!” non tollerava quella visita, custode ormai di un attimo non più mio, mai più mio, mai più mio del tutto, mai del tutto stato mio
Ma io cercavo di intravedere i respiri, di riconoscermi in uno sguardo, in una testimonianza dell’esserci stato, in una scena che si sacrificasse per tutte le altre. “
Voi, aver trovato persone come voi, spazi di carità come siete solo voi, come solo persone buone possono garantire. “Anche io sono buono”, vi ho detto quando vi ho conosciuti, “che bello esserci finalmente incontrati” ho pensato; vi ho lasciato osservare da quello spioncino la forma del mio cuore, la tenacia resistente di un bambino che non ha mai smesso di domandare dove fossi, quale fosse il mio nuovo indirizzo, perché lo avessi lasciato da solo a provare la mia tristezza.

Gente come voi mi ha concesso la gioia più grande, siete stati la voce al supermercato che indica ai genitori dove poter ritrovare chi si è perso; guide, assieme a me siete venuti a cercarmi, con torce, segnalibri, matite, silenzi, mi avete detto “se vuoi ti cerchiamo insieme” e solo questo permesso, solo questa promessa di disarmo, questa gentilezza nel concedermi spazi di slancio, momenti di ballo, abbracci e carezze terapeutiche, tutto ciò è servito a “tornarmi”. Grazie.
“Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n'è andato da me tranne la certezza della tua bontà”
tratto dalla lettera che Virginia Woolf scrisse al marito Leonard poco prima di suicidarsi
Questa lettera che lascio è un po’ per me e un po’ per voi, ho imparato ad equilibrare lo scambio, è giusto che tutti abbiano qualcosa e finalmente anche io. Ci sono tante altre cose che vorrei scrivere ma capisco anche che non tutte hanno bisogno dei vostri occhi per essere validate o restituite. Vi invito però a riflettere in merito a ciò che ho scritto, a ciò che ha scritto Chandra Livia Candiani

Capire quanto di voi avete scambiato e frammentato, quanto lontani vi siete immersi nell’onda delle certezze altrui, quali lettere avete perso dal vostro alfabeto e quanto dovete piegarvi per raccogliere i pezzi della vostra pelle.
Fatevi domande, ascoltatevi, disabituatevi a pensare che le abitudini siano parte della vostra essenza, decostruitevi, rinnovatevi, smontatevi, cercatevi. Chiamate il vostro nome, urlatelo, pretendetelo in ogni sua forma, ad ogni temperatura, non dimenticatelo, non dimenticatevi, non dimenticateci. Spalancate le porte, le finestre, è un gioco, una filastrocca, una poesia. Correte e illuminate, trovate la chiave prima che la casa crolli, agitatevi ad alta voce, fate rumore, tornate, vi prego, tornate a voi.
E ci sarà chi vi darà una mano, io sto scrivendo questa lettera da un giorno ma se ci rifletto un attimo, è da tutta la vita che rincorro queste parole per arrivare a me, per arrivare a voi. Pensate quanto è stato forte il richiamo, qualcosa che ha trasceso il tempo, un bambino del futuro
“è stata strascico di luce viaggiante. Bastimento abbagliante nel buio fra i mondi”
dalla raccolta Bestia di gioia di Mariangela Gualtieri
Diversi sono e saranno gli indizi per riappartenere alla vostra voce, alle vostre sillabe, seguite il filo, l’eco che da vicinanze remote batte un ritmo dimenticato. Alleggeritevi degli eccessi, delle cose a cui non credete nemmeno più, prendetevi tempo e spazio per dar luogo allo spazio del vostro tempo, siate testimoni di ogni cosa che vi accarezza, avvicinatevi ai sentieri che hanno perso le briciole ma non le vostre orme e non abbiate mai paura di cambiare, proprio perché il ritorno prevede l’interruzione di un cammino che non vi cede il passo.
C’è memoria viva in quello che siete, fiutate la traiettoria di ciò a cui appartenete.
Scava senza paura, scavami fino al nome Scava il terreno e ricorda il seme lasciatoci in eredità dalla morte del buio Fino in fondo, dove è più profondo Dove il sangue è nostro, dove la ferita si estingue Dove ci chiamiamo ed entrambi ci giriamo Cercami, stringimi, guariscimi accarezzami, piangimi

“And so you see, I have come to doubtAll that I once held as trueI stand alone without beliefsThe only truth I know is you”
da Kathy’s Song di Paul Simon
Autore
Alberto Caprioli